sabato 28 gennaio 2012

Attualità del pensiero pirandelliano tra alienazione, umorismo e psicodramma

di Francesco Barresi (ruutura@hotmail.it)

Interrogarsi oggi sull’attualità del pensiero pirandelliano tra alienazione e umorismo ci permette di considerare e interpretare la condizione contemporanea dell’uomo e in particolare di mettere a fuoco la sua precarietà in un mondo privo di valori universali, in una società contemporanea entrata in profonda crisi di legittimazione.
Ancora oggi il pensiero di Pirandello ci parla con un’efficace aderenza e mai come ora l’attualità del suo pensiero si pone come un valido strumento per capire i mali del nostro secolo.
Scrive G. Sanguinetti Katz:

Il vedersi vivere, il ritrovarsi improvvisamente di fronte ai lati imprevisti della propria personalità […], la divisione tra ragione e sentimento, logica e cuore, con la ragione che critica e inaridisce ogni moto dell’animo, il vedere noi stessi e la vita «in una nudità arida, inquietante», in una realtà diversa «da quella che normalmente percepiamo», […] tutte queste definizioni che Pirandello dà dell’umorismo […] anticipano la crisi dell’uomo moderno con le sue nevrosi e le sue psicosi, e il baratro che gli si apre davanti quando si rende conto del suo vuoto interiore[1]

domenica 22 gennaio 2012

Un mondo innocente

di Patrizio Paolinelli (patrizio.paolinelli@gmail.com)

Riproposta da Avagliano Peccatrice moderna, di Carolina Invernizio.

Trame esili. Personaggi tagliati con l’accetta. Passioni travolgenti. Il bene da una parte e il male dall’altra. Di cosa stiamo parlando? Del romanzo d’appendice. Per la precisione del ritorno sulla scena di Carolina Invernizio (1851–1916) di cui l’editore Avagliano ha appena pubblicato Peccatrice moderna (tascabile di 343 pagg., 14,50 euro).
Forse il nome della Invernizio dice poco al pubblico odierno. Ma tra fine ‘800 e primi del ‘900 questa donna è stata un’incredibile macchina da best-seller: 123 libri in quarant’anni di carriera e milioni di copie vendute in Italia e all’estero. Certo, si tratta di romanzi rosa, scrittura “di servizio”, letteratura minore. Anzi, per i critici del suo tempo non si poteva neppure parlare di letteratura. Mentre negli anni ’70 del secolo scorso avevamo assistito a una prima rivalutazione della scrittrice sull’onda dell’interesse della critica per la cultura di massa. La sua narrativa si ispira infatti alle storie d’amore, al gotico, al giallo, tanto che cinema e televisione adattano diversi suoi lavori. Poi di nuovo l’oblio. Ma agli inizi di questo nostro XXI secolo ecco Invernizio riemergere. Probabilmente non avrà l’immenso successo popolare di cui ha goduto quando era in vita. Ma è significativo che venga oggi riproposta una scrittrice che appartiene a un altro mondo. Il mondo dell’Italia umbertina che la espelle dal collegio per aver pubblicato sul giornale scolastico un racconto di “perdizione”. Bramosia, pene d’amore e strazianti drammi interiori sono tra gli ingredienti essenziali dei suoi lavori. Ingredienti che troviamo enfatizzati nella trama di Peccatrice moderna.

lunedì 16 gennaio 2012

La fortuna critica di Pirandello in Italia: dalla stroncatura crociana alla critica neoermeneutica

di Francesco Barresi (ruutura@hotmail.it)

Sulla critica pirandelliana pesò a lungo il giudizio negativo di Benedetto Croce che della produzione dello scrittore siciliano salvava solo Liolà e La mosca. L’attenzione del critico si rivolse soprattutto alla «seconda maniera» dello scrittore, quella inaugurata da Il fu Mattia Pascal e consistente «in taluni spunti artistici, soffocati o sfigurati da un convulso, inconcludente filosofare. Né arte schietta, dunque, né filosofia: impedita da un vizio d’origine a svolgere secondo l’una o l’altra delle due»[1]. Prima della guerra solo Giacomo Debenedetti sembra accorgersi della grandezza di Luigi Pirandello, mentre all’estero riceveva il plauso del filosofo tedesco Walter Benjamin[2].
La vera fortuna di Pirandello, in Italia, comincia tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta. Si tratta di un evento non casuale perché l’Italia in quel periodo diventa una nazione moderna, industrialmente avanzata, dotata di una cultura non più provinciale ma aperta all’influenza delle avanguardie internazionali e nazionali. L’interesse verso Pirandello riguarda sia il campo della produzione narrativa e teatrale sia quello concettuale.

sabato 7 gennaio 2012

Sul soma

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

In riferimento all’intervista alla prof.ssa Kajon apparsa sul n. 16 de «L’accento di Socrate» (L'antropologia filosofica: intervista a Irene Kajon), vorrei proporre le seguenti osservazioni. 
Dal mondo antico sino ad oggi (più di 2300 anni) il pensiero occidentale è attraversato dal tema del dualismo, tematizzato di volta in volta con diverse sfumature: soma-psyché, corpo-anima (o spirito), res extensa-res cogitans, biologia-Io (o coscienza, o intelletto), ecc… Dal Novecento poi (forse anche da prima) si è inziata a tentare una riconciliazione di tale dualismo in un’immagine unitaria dell’uomo, sostanzialmente approdata a quello che Michel Foucault ha chiamato “allotropo empirico-trascendentale”. In questi termini però il problema del dualismo appare tutt’altro che superato: si è semplicemente passati da quello che potremmo chiamare “dualismo forte”, che identifica due sfere dell’umano nettamente distinte e gerarchizzate fra di loro, ad una sorta di “dualismo debole”, che ipotizza possibili (ri)conciliazioni fra dimensioni dell’umano che, per quanto interagenti e fuse tra di loro, restano pur sempre di natura diversa; il dualismo appare così completamente superato solamente nella prospettiva del moderno riduzionismo scientifico, per il quale l’uomo è del tutto spiegabile e da spiegarsi unicamente in termini materialistico-meccanicistici. Ora, a mio modesto parere, per superare la problematica del dualismo, senza per questo cadere nel campo del riduzionismo scientifico, sarebbe opportuno tornare a riflettere sulla concezione antica, pre-platonica, per capirci, omerica, di uomo come “soma con soffio vitale” (bios che partecipa della zoé, corpo che partecipa della vita), laddove per soffio vitale non sia affatto da intendersi il contenuto di un soma ridotto a mero contenitore, ma un attributo del soma (come, ad esempio, i capelli) che proprio attributi unici ed irripetibili rendono riconoscibile conferendogli un’identità unica ed irripetibile, e tra gli attributi del soma, uno fra i più importanti è l’emozionalità, ovvero il patire con- (gli altri e il mondo). Viene così ad essere superata qualsiasi forma di dualismo (sia forte che debole), poiché il soma non è contenitore di qualcosa di altro, espressione di qualcosa di meta-somatico, ma manifestazione diretta e immediata di vita, senza per questo cadere nel riduzionismo scientifico, poiché al soma appartiene anche l’irriducibile attributo della emozionalità; a mio avviso, una simile “riscoperta” del soma, in direzione del mondo antico, potrebbe essere condotta a partire dall’antropologia empirica, o forse sarebbe meglio dire empirico-fenomenologica, di Arnold Gehlen.

martedì 27 dicembre 2011

"Manto di vita"

di Pietro Pancamo (pipancam@tin.it)

Spiegazione di un giorno

Il giorno che saltella
lungo le impronte delle mie scarpe;
il giorno che saluta frantumato,
quasi appostato
fra le dita.
Ogni minuto è fluido di rumori:
sbattono le ali
contro pannelli d’aria. L’impatto
vibra di scherno:
è un lazzo di sdegno
voluto dalla mia notte.

---

L’ironia

Indosso la magrezza
con la disinvoltura
di chi ironizza.

Eh, ironia
con te la disperazione
è filosofia!
Ma senza di te,
ahinoi,
la poesia
è pura (mera) melanconia.

---

Partenza

Ogni saluto è un commento
alla tristezza
di dover partire.

Nel disordine di un abbraccio
escogitiamo
ricordi improvvisati.

---

Vecchiaia: canto di un barbone errante della discarica

I
Quanta spazzatura
che mi ritrovo addosso
nelle dolci siepi di bosso.
Qui tra le foglie verdi
han fatto una discarica.
L’oblò di lavatrici scoperchiate
è un belvedere
per le formiche nere.
(Provviste nel secchio:
alimenti scompagni
come le scarpe vecchie,
bucate dalla noia dell’usura).
“Alla discaricaaaa!!”,
gridano torme di rifiuti.

II
Caldo e fetore
nei venti acuti
si mescolano a formare
uno smog estivo.
(Infatti se gli uomini
dàn di matto,
la sporcizia dà di puzzo).
Così il rosso del mio sangue,
che ogni mattina si sveglia,
non vuol dire più
rigenerazione
ma soltanto
riciclaggio.

---

A mezzanotte

Ecco i fantasmi di queste labbra
e di quegli uomini all’occhiello dell’amore,
che attraversano le ombre cave dell’aria mansueta
con lo sguardo di chi trova nel buio
un manto di vita.

---

Mentre allaccio il destino

Ho fatto la mia vita con i piedi
senza nemmeno darle
una forma di sandalo
o di mocassino.
Che scemo.
Che cretino!
Dio come piango,
mentre allaccio il destino
qua
in mezzo alle narici,
proprio come un anello al naso.

(Manto di vita, LietoColle)

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mercoledì 21 dicembre 2011

La scoperta del "Trono della Grazia" di Vrancke van der Stockt

di Francesco Barresi (ruutura@hotmail.it)


L’opera d’arte finisce lì dove iniziano le nostre domande. Ogni buon critico, dilettante o professionista, lo sa: l’opera d’arte senza l’ausilio delle parole dice poco o nulla. Restano solo le immagini e loro, assise nel loro universo, restano mute alle nostre domande. Chi non ha mai desiderato che un quadro o una scultura parlasse, che rispondesse a tutte le nostre domande insolute? Solo la forza della ricerca può compiere questo cammino, beninteso. Tutte le forze argomentative della ragione e dell’intuito dovranno prestarsi a questo compito.
L’analisi è solo un punto di partenza e la critica il processo che si sviluppa nel dubbio metodico: ciò che conta è un’analisi storica, comparata e scientifica dell’opera.
Tale metodo ha visto impegnati due grandi personalità della città di Caltagirone: il prof. Giacomo Pace e l’architetto Belvedere. Un quadro, anzi, i suoi enigmi hanno permesso di fare incontrare queste due personalità nella comune ricerca di possibili vie di interpretazione ma, soprattutto, di aggiornamento, di svecchiamento, di presa di coscienza dell’antico per scardinarlo nella luce del nuovo e del più vero sentire. Per restituire nuovi dubbi e nuove verità.
L’opera inquisita è la Trinità di Rogier Van der Weyden (1399-1464) della chiesa di S. Giorgio(1). In questa ricerca ha avuto un peso decisivo la "Società calatina di Storia Patria e Cultura" di Caltagirone(2). Il quadro, secondo la consueta didascalia:
“rappresenta il mistero della Trinità sospesa sull'universo. L'opera apparteneva alla nobile famiglia Interlandi di Caltagirone e fu poi donata alla parrocchia di San Giorgio dalla baronessa Agata Interlandi. Si tratta della tavola più preziosa custodita nelle chiese calatine”(3).
I nostri studiosi mettono in discussione fin da principio il titolo. Perché Trinità? E poi chi fu a donarlo? Chi lo portò a Caltagirone? È veramente di Rogier van der Weyden? Queste le domande principali che hanno animato l’interesse dei ricercatori.
Sappiamo che l’opera venne donata dalla baronessa Agata Interlandi della Favarotta nel 1783, la quale ordinò che fosse esposta nella chiesa di S. Giorgio con l’ordine di nobilitarla con cornici, di farla pulire e di dotarla di un cristallo per la pubblica esposizione. I dubbi interessano il titolo,  il motivo iconografico e la sua fortuna, perché in molti altri artisti rinascimentali come Campin(4) (maestro di van der Weyden) e Quentin Metsys notiamo che lo stesso motivo è variamente ripetuto. I personaggi rappresentati sono Dio Padre, Gesù, Lo Spirito Santo, i due Arcangeli Gabriele e Michelangelo (uno con il giglio, l’altro con la spada), la Maddalena Maria e S. Giovanni. Ma arriviamo al punto cruciale. Hulin De Loo fu un esperto critico dell’arte fiamminga e credette che alcune opere di Weyden fossero state confuse con quelle di Vrancke van der Stockt (1420-1495). Quando visitò la Chiesa di S. Giorgio di Caltagirone trovò confermata la sua ipotesi. Il critico Giovanni Carandente nel 1968 pubblica un volume sul Serpotta e la pittura fiamminga del Quattrocento in Sicilia, quotando appieno l’ipotesi di Hulin de Loo ed esaminando le opere di van der Stockt. Conclusione: non può essere di van der Weyden, è sicuramente di van der Stockt. L’aspetto inquietante della vicenda è il seguente: le interpretazioni di Carandente e Hulin de Loo erano bastate a fugare ogni dubbio ma nel loro girovagare silenzioso nella città della ceramica gli studiosi non avevano avuto modo di informare le autorità competenti delle loro mirabili intuizioni. Pertanto oggi tutto il mondo degli studiosi d’arte, fiamminga in particolare, sa che l’opera è sicuramente di Vrancke van der Stockt ma comunemente la si attribuisce ancora a Rogier van der Weyden! A conferma che la paternità dell’opera sia di van der Stocke vi sono anche altri importanti indizi. Ad esempio, il dipinto misura 68,1 x 99,7 cm. Un’opera piccola tutto sommato, ma se verifichiamo il loro rapporto vediamo che si basa su un numero: 1,618, il famoso numero aureo. Questo è un indizio chiarissimo: l’opera è strutturata secondo principi e figure geometrici, quindi porta avanti un’idea di perfezione e simmetria che non era data prima di van der Stockt.
Questo e altro ancora nel lavoro pubblicato dal professore Pace e l’architetto Belvedere. Attraverso un’interessante indagine storica (che passerà dal nome della famiglia Interlandi alla famiglia Santapau di Licodia) fino alla ricostruzione microanalitica del quadro (ricercando le più intime contraddizioni e somiglianze con altre opere), i nostri critici sono riusciti non solo a presentare l’opera sotto un aspetto inedito ma a porre continui interrogativi, lasciando in sospeso tutte le certezze, al vaglio della critica.
La ricerca della verità non è mai compiuta ma è sempre approssimativa e sfuggente. Ma più che angosciarci dovremmo rallegrarci di tutto ciò, perché proprio questa imperfezione è garanzia di salvezza. La ricerca è solo un punto fermo di una lunga catena che ancora dovrà e potrà continuare con l’ausilio, il tempo, la voglia, la passione di chi indaga gli angoli bui di tutte le domande che ogni quadro ci dà. 

1) Oggi l’opera è stata traslata nel Museo Diocesano di Caltagirone.
2) Il prof. Pace e l’architetto Belvedere sono infatti due dirigenti della stessa.
3) Vedi comunicato stampa del Comune di Caltagirone del giornalista Messineo in data 26 Ottobre 2011.
4) Vedi Throne of Grace, from Flemalle Altarpiece, 1430-4, 15c N.Renaissance.

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venerdì 16 dicembre 2011

La voce della natura

di Chiara Taormina (chiara.taormina@libero.it)

E gli uomini se ne vanno a contemplare le vette delle montagne, i flutti vasti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l'immensità dell'oceano, il corso degli astri, e non pensano a sé stessi. 

Sant'Agostino

Il mare blu sembrava più vasto, venato di sottili sfumature lunari che si specchiavano sul volto sbiadito della notte. Le onde rumoreggiavano nelle quiete e nell'oscurità impenetrabile si sentiva solo una eco che rimbombava in spirali di speranza: era la voce dell'immensità. 

Una tavola di legno fradicio, corrotta dalla salsedine, era l'unico appiglio per il corpo sfinito. Argor Mavigar, vecchio stimato lupo di mare, ormai era uno dei tanti e sfortunati naufraghi, in balia dell'impeto delle forti correnti. 

A tratti, il silenzio ingoiava il respiro delle onde che poi si innalzavano di nuovo minacciose, come creste dalle orribili sembianze, sul capo indifeso del superstite. Erano fugaci attimi di calma apparente. Pochi secondi e di nuovo si scatenava il rimbombo della tempesta. 

Alle prime luci dell'alba, il mare tornò a placarsi, rendendo la vista dell'orizzonte un disteso miraggio verso la possibile salvezza. Argor rinvenne una piccola bottiglia che galleggiava accanto a lui. L'afferrò con forza, anche se nelle braccia era rimasto solo un debole barlume di vigore e, dopo avere tolto il sigillo, fece scivolare sulla mano bagnata e piagata il foglio ingiallito dal tempo. 

Dopo averlo srotolato lesse: 

«Sei solo in mezzo all'oceano, hai solo una possibilità. Nuota innanzi a te e troverai la risposta: la verità.» 

Argor si sentì spaesato, non sapeva cosa significasse il misterioso messaggio. Decise di andare verso quella meta, verso la risposta, la verità. 

Abbandonò la tavola e usò le ultime forze per annaspare fino alla successiva bottiglia. 

La trovò a breve distanza e senza difficoltà. 

Anche stavolta l'aprì e con vorace curiosità lesse: 

«Sei sempre solo e innanzi a te c'è la vastità del mare. Io sono qui per dirti che non esiste più alcun lembo di terra ove approdare. Il mondo è stato sommerso per sempre. Quale sarà il tuo destino? Cosa farai?» 

Argor rise di cuore: pensò ad uno scherzo di qualche sciocco. Tornò a ripescare la tavola a cui aggrapparsi e su di essa trovò una strana scritta: 

“SVEGLIATI”. 

In quell'istante il mare lo attirò verso il fondo, senza pietà lo inglobò nella sue maglie di gelida fine. 

Argor Mavigar aprì gli occhi, forse per l'ultima volta, in mezzo al buio di quella eterna prigione. Sentì il rumore del suo respiro crescere dentro la nebbia degli ultimi attimi. Fu colto da uno scatto di puro terrore. Con un tonfo, cadde dal letto in una fredda notte invernale: era stato solo un incubo. 

Andò in cucina a bere un sorso d'acqua: erano le tre del mattino. 

Sul tavolo, trovò una bottiglia che di sicuro non gli apparteneva. “Cosa mai sta accadendo” si chiese tra sé. 

La prese, l'aprì e lesse il messaggio che era al suo interno: 

«Sei solo in mezzo all'immensità della terra. Il mare è scomparso, non potrai mai più solcarne le vie.» 

Argor, preso dal panico, andò alla finestra. Dalla cima della collina di casa sua si vedeva l'oceano: il buio totale copriva ogni scenario. 

Aprì la porta e con il foglio ancora tra le mani corse verso la spiaggia. Tra le fronde dei pochi alberi che si ammassavano nei pressi della sua dimora, poteva ascoltare solo il suono dimesso dei battiti del cuore. 

Mise piede sulla sabbia: il mare era davvero scomparso. 

All'orizzonte si vedeva solo una lingua di terra infinita, ingentilita nella forma dalle carezze delle prime luci solari. 

Al suolo campeggiava una scritta: 

“SVEGLIATI”. 

Argor Mavigar si destò all'alba, preso dal terrore. Aveva persino paura a guardare oltre il davanzale delle imposte. Capì che la sua anima era sospesa a metà tra l'amore per il mare e la terra. Non avrebbe mai voluto assistere alla distruzione delle due parti vitali del cuore umano. 

La solitudine non lo spaventava. Del resto l'uomo lo aveva sempre escluso dai salotti borghesi delle lussuose case senza sostanza. 

Lui, invece, faceva parte dell'essenza vera del creato, fatta di sassi e gocce di acqua, di tempeste e quiete. Adesso quella voce lo stava chiamando. In pochi potevano sentirla. 

Erano i suoni che armonizzavano la coscienza, che donavano all'essere umano la dignità di creatura vivente.

Terra e mare, le due parti del mondo, in fondo allo spirito della natura. E Argor sapeva che l'avanzamento della civiltà stava per dissolverle nella dimenticanza dell'avidità e del capitalismo. Per sempre...

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lunedì 12 dicembre 2011

Caffè Filosofico

Università degli Studi Roma Tre – Dipartimento di Filosofia
Società Filosofica Romana – Sezione della Società Filosofica Italiana

Caffè Filosofico
Elio Matassi, Maria Teresa Pansera, Francesca Gambetti
discutono di etica, politica ed economia
in occasione della pubblicazione del volume di

Federico Sollazzo

Giovedì 15 dicembre 2011 ore 16,30
Caffè della Limonaia di Villa Torlonia, Via Spallanzani 1, Roma

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lunedì 5 dicembre 2011

Le teorie sulla globalizzazione

di Patrizio Paolinelli (patrizio.paolinelli@gmail.com)

Un imperdibile saggio di Luke Martell: segna una svolta negli studi su questo tema

Da molto tempo si avvertiva l’esigenza di uno studio che facesse luce sulla globalizzazione e la mitologia che ne è seguita sin dalla comparsa di tale categoria interpretativa nei primi anni ’80 del secolo scorso. Finalmente questo studio è arrivato. Era ora! Davvero non se ne poteva più di leggere e ascoltare tanta approssimazione su un fenomeno che riguarda la vita di tutti gli abitanti del pianeta. E così, ad un anno dalla sua edizione inglese, Einaudi ha appena pubblicato un lavoro di Luke Martell, Sociologia della globalizzazione, 404 pagg., 26,00 euro. Si tratta di un’opera che segna una svolta negli studi su questo tema.
Pur avendo un taglio accademico il volume è scritto con un linguaggio facilmente comprensibile e per di più ogni capitolo può essere letto come uno studio a sé stante. Sociologia della globalizzazione affronta gran parte dei temi sulle trasformazioni del mondo contemporaneo dibattuti negli ultimi trent’anni: dalle metamorfosi culturali all’impatto sociale della tecno-scienza; dalle nuove disuguaglianze alle migrazioni; dall’economia finanziaria al nuovo ruolo dello Stato; dai movimenti per una giustizia globale al declino dell’impero americano; dalla formazione di una coscienza globale alla guerra.
E’ necessario aggiungere che il lavoro di Martell costituisce un’esauriente rassegna delle teorie sulla globalizzazione dagli anni ’80 ad oggi. Perciò il volume possiede anche un valore per così dire enciclopedico. Il ché non guasta. Ma è soprattutto la metodologia adottata a fare di quest’opera un punto di riferimento per gli anni a venire. In poche parole, Martell restituisce alla sociologia la sua funzione originaria: indagare la realtà analizzando la coerenza teorica delle sue interpretazioni sottoponendole a verifica empirica. Funzione largamente smarrita proprio da numerosi sociologi che si sono occupati della globalizzazione (per non parlare della vulgata giornalistica che da tempo costituisce ormai un vero e proprio ostacolo alla comprensione del fenomeno).
Sembrerà sconcertante ma il sociologo inglese si limita semplicemente a fare il proprio mestiere: sottoporre al confronto con i fatti le diverse teorie della globalizzazione applicate alle tematiche sopra indicate (economia, immigrazione, ecc.). Ne viene fuori un quadro non così inclusivo come appare a prima vista. Un quadro per nulla semplice e ancor meno coerente rispetto a quello che la maggioranza di noi ha in testa. A nostra discolpa va detto che l’informazione mainstream ha fissato nell’opinione pubblica mondiale un’idea radicale della globalizzazione. Idea ferma alla prima ondata teorica degli anni ‘80 e che da lì non si è più mossa mentre il dibattito è andato molto, molto più avanti. Tale ondata va sotto il nome di globalismo e a suo tempo ha fornito alcuni concetti-chiave per interpretare la globalizzazione: un fenomeno mondiale ineluttabile secondo il quale le economie nazionali hanno perso di importanza, gli Stati cedono progressivamente terreno, le culture si vanno omologando e ibridizzando. Negli anni ’90 a mettere in discussione l’omogeneità e la generalità di simili processi è proprio la seconda ondata dei teorici della globalizzazione: gli scettici. I quali ritengono che le identità nazionali si evolvono ma non si dissolvono, mentre la rinascita dei nazionalismi è di per sé un’evidenza che confuta le scorciatoie sull’estinzione dello Stato. Insomma, la globalizzazione non si diffonde in modo uniforme e provoca risposte differenti. Agli scettici seguono i post-scettici o trasformazionalisti (chiamati così perché ritengono che la globalizzazione comporti la prosecuzione e la trasformazione delle strutture esistenti all’interno dei singoli Paesi). Per i post-scettici la globalizzazione è un fenomeno nuovo ma non senza precedenti. L’ultima ondata teorica è costituita dalla prospettiva ideativa. Secondo questa visione l’elemento cruciale non è ciò che accade nel mondo ma la globalizzazione in quanto discorso. Insomma ciò che pensiamo della globalizzazione è più significativo della globalizzazione stessa: se pensiamo di vivere in un mondo globalizzato ci comportiamo come se lo fosse realmente (anche se non lo è).  
Dunque il quadro ricostruito da Martell indica chiaramente che tra gli addetti ai lavori non esiste una sola teoria della globalizzazione ma addirittura quattro correnti di pensiero che messe a confronto presentano diverse contraddizioni interne e su punti cruciali sono in netto disaccordo. Ma non sono solo i sociologi ad accapigliarsi. Anche tra gli storici c’è profonda discordia sull’origine della globalizzazione. Si pensi solo allo studio di Hirst e Thompson, i quali affermano che tra il 1870 e il 1914 l’economia era più internazionalizzata di quella attuale.
Se da un lato questo ginepraio di tesi spiega perché la stampa è ancora oggi bloccata alla spiegazione più facile (ma largamente superata), dall’altro, la ridda di opinioni non esime dalla ricerca di una definizione universalmente accettata. E allora per Martell un fenomeno è globale quando presenta tre caratteristiche: regolarità, continuità nel tempo, interdipendenza. Tuttavia, analizzando dimensioni  quali la cultura, l’economia, la politica ci si rende conto che è molto difficile parlare di globalizzazione. Sul piano economico ad esempio l’Asia si arricchisce mentre l’Africa impoverisce. Il che significa ché le distanze sociali aumentano e l’interdipendenza diminuisce a favore degli Stati più forti venendo così meno il presupposto fondamentale della globalizzazione: l’integrazione. Altro esempio: la Coca-Cola. Per Martell questo mito del consumismo è senz’altro un prodotto globale, ma ha a che fare più con l’internazionalizzazione che con la globalizzazione perché la casa-madre non ha affatto un’identità sovranazionale ma marcatamente nazionale (quella USA). E questo discorso vale per quasi tutte le multinazionali. Le quali appartengono ai Paesi ricchi del pianeta determinando così un’asimmetria inconciliabile con le tesi più diffuse sulla globalizzazione. Un ultimo esempio: il turismo. E’ sufficiente dare un’occhiata alle statistiche per rendersi conto che la circolazione delle persone non è un fenomeno regolare: circa l’80% del movimento turistico internazionale si svolge all’interno di Paesi europei  e nord-americani e solo il 20% in altre regioni. Dunque il carattere globale del turismo è limitato perché non ha apporti da tutto il mondo ma solo da alcune aree.
E’ chiara a questo punto la direzione che prende la riflessione di Martell: la globalizzazione è osservata attraverso le prospettive più classiche della sociologia quali il potere, la disuguaglianza, il conflitto. Tale approccio, accantonato da troppi sociologi, si spiega per due motivi: 1) la sociologia non è scienza se non esercita una funzione critica nei confronti delle idee di senso comune – e la globalizzazione è una delle più divulgate idee di senso comune; 2) la globalizzazione è incomprensibile se ci si limita ad analizzarla solo sul piano culturale, se ci si concentra principalmente sulle migrazioni, se la si presenta come pura esaltazione del nuovo rispetto al vecchio. Filtrate dal setaccio di Martell delle teorie sulla globalizzazione resta molto poco. E due dei risultati più interessanti del suo libro consistono nell’aver individuato una globalizzazione per pochi privilegiati e nell’essere questi stessi privilegiati un ostacolo alla globalizzazione intesa come integrazione. Martell infatti mostra che le nazioni ricche si aprono al commercio mondiale solo quando possono trarne vantaggio per le proprie industrie mentre lo ostacolano quando non riescono a trarne benefici. Ed è un dato incontrovertibile che il 60% della popolazione mondiale viva con un reddito che oscilla tra uno e due dollari al giorno. Il ché per molti significa la fame. Insomma la globalizzazione è più un’ideologia che una realtà.

VIAPO», 01/10/2011)

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domenica 27 novembre 2011

Anthropology and Human Rights

by Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

The existence of one basic anthropological constitution is not incompatible with the phenomenon, now more than ever visible, of the cultural pluralism (in front of which the ethical pluralism appears to be nothing more than a degeneration); but how reconcile the existence of one essential anthropological constitution with the presence of the cultural pluralism? There is, in other words, an universal ethical substratum that acts as a bridge between these two poles?
If we want prevent the merely commercial exploitation of the diversity and avoid the clash of cultures that occurs when diversity feeds fear and rejection, we must to assign a positive value to [...] influences and [...] meetings, helping each of us to broaden own experience, thus making us more creative in our culture [...] (for this) cosmopolitanism, understood realistically, means [...] to accept others as different and equal. This will reveal at the same time the falsity of the alternative between different hierarchies and universal equality. And so are exceeded two positions, the racism and the apodictic universalism (A. Touraine, it. tr. 2002, p. 197, my en. tr., and after my brackets, U. Beck, it. tr. 2005, p. 82, my en. tr.)

Is thus evident that the irreducibility of one person to another, of one culture to another, does not involves the impossibility of the comparison, on the contrary, it would be possible thanks to a sort of "universalism of difference" and "disjunctive synthesis", in which the irreducibilty of a singularity to another is the trait d'union among themselves; this can all be done on the ground of a universal Ethics, anthropologically founded.

The civilized world can not be other than the global coalition of cultures, each of which preserves its originality differences do not identify with being, but they always distinguish him. And only thus the differences produce the phenomenon of becoming of life [...] Only in this way, only saying this passage, we can do detonate the device of metaphysics, that is one with the device of power: the idea of One as unit of differences (C. Lévi-Strauss, it. tr. 1967, p. 139, my en. tr., and, G. Marramao, 2003, p. 215, my en. tr.) 

But how these arguments can find concrete application in today's society? 
The justice (which in a theoretical perspective can be defined "justness") is certainly the central question around which revolves the Ethics, we could say that the justice represents the "engine" of the Ethics, to answer to which the Ethics borns; therefore cultures can be considered as different solutions to the same question.
In order to implement the justice, has given rise to its institutionalization: the right, within which human rights are placed, therefore, although they occur in institutionalized forms, also arise from an ethical question. In this scenario, politics can be the "filter" through which happens the transition from the dimension of ethical values to that of practical and institutional forms, that are infrastructures needed to gain and maintain power, which in turn is the primary tool for the realization/institutionalization of values. Thus, the development of conceptual and practical status of the "Justness", Justice, Law and Human Rights, stands as one of the primary and essential tasks that every human association must meet, without ever having to exhaust the claim because, although the clarification of these questions is essential because it offers a peaceful human coexistence (since those concepts are universal and legitimate custodians of human needs, arising from the basic anthropological constitution), should not be forgotten how their specific definition is constantly precarious, because "historically" determined.
Now, with this reasoning, it is perhaps worth repeating, I don’t want to deny the existence of universal human needs (on the contrary, they exist and are anthropologically based), but, I would like to say that through these universal needs, arise specials arrangements: the Human Rights, "the protection of these rights [...] means the fulfillment of basic needs" (G. Harrison, it. tr. 2001, p. 165, my en. tr.), and the protection which should manifest itself today is no more through their simple development and/or review (processes, these, already widely available), but through their application, indeed

The basic problem relating to Human Rights today is not so much to justify them, but rather to protect them. It is not a philosophical problem, but political: it is not important to know which and how these rights are, what’s their nature and their principles, whether are natural or historical rights, absolute or relative, but what is the way to ensure them, to prevent that, despite the solemn declarations are continually violated (N. Bobbio, 2006, p. 16, my en. tr.)

So, if is true that today the crucial issue of Human Rights is not their philosophical foundation, but their political application, is equally true that this question currently occurs in a different way than in the Twentieth century, in which the violation of Human Rights was tied hand in glove with the category of citizenship and the phenomenon of Statelessness (as Hannah Arendt has amply shown). Indeed, binding Human Rights to the category of citizenship, they are to coincide with the rights bestowed by the State, as civil rights (that care the existence of each citizen), social rights (that care the existence of ethnic and cultural groups and minorities) and political rights (that care the freedom of action for individuals and groups), so they seems to belong to a State and not to men, now instead, Human Rights are unrelated at the membership to a State, allowing them to be recognized without a national citizenship as well (in the name of what, increasingly, global citizenship is called, like if without an official-burocratic status of citizen could not be granted rights), in other words, they are considered today, rights "to humans without further specification, without borders or boundaries, without more social definitions" (A. Touraine, it. tr. 1993, p. 376, my en. tr.). But then, if is not the category of deprivation of citizenship (with the related phenomenon of Statelessness) the carrier through which is perpetrate the violation of Human Rights today, it remains to think that the reason of this breach is the lack of understanding that

There is a relationship between Human Rights and human needs [...] (that) The idea of "basic needs" is built around this: on the other side of their satisfaction there is suffering […] "have a right" means, first, that there is an aspect of the human being that must somehow be respected and protected in the conduct of social and political life (J. Galtung, it. tr. 1998, p. 290, my en. tr., and after my brackets, F. Viola, 2000, p. 97, my en. tr.)

In conclusion, the purpose of this short paper was not only the intent to draw the reader's attention on the most urgent ethical and political issues, which require a pre-clarification for to reach their solution, but rather the desire to frame these issues through a particular perspective, that is the essential anthropological structure, which has in its very elementary and simplicity, its universality, and that needs of context in context (and even of man in man), to find specific forms of application.

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Bibliography

-) U. Beck, Lo sguardo cosmopolita, Carocci, Roma 2005.

-) N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 2006.
-) J. Galtung, Lo stato nazionale e la cittadinanza: e la cittadinanza globale?, in AA. VV., Educare alla pace, Esperia, Milano 1998.
-) G. Harrison, I fondamenti antropologici dei diritti umani, Meltemi, Roma 2001.
-) C. Lévi-Strauss, Razza e Storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino 1967.
-) G. Marramao, Passaggio a Occidente, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
-) A. Touraine, Critica della modernità, il Saggiatore, Milano 1993.
-) A. Touraine, Libertà, uguaglianza, diversità, il Saggiatore, Milano 2002.
-) F. Viola, Il carattere morale della pratica sociale dei diritti, in Etica e metaetica dei diritti umani, Giappichelli, Torino 2000.

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