di Patrizio Paolinelli (patrizio.paolinelli@gmail.com)
Un
imperdibile saggio di Luke Martell: segna una svolta negli studi su questo tema
Da molto tempo si avvertiva l’esigenza di
uno studio che facesse luce sulla globalizzazione e la mitologia che ne è seguita
sin dalla comparsa di tale categoria interpretativa nei primi anni ’80 del
secolo scorso. Finalmente questo studio è arrivato. Era ora! Davvero non se ne
poteva più di leggere e ascoltare tanta approssimazione su un fenomeno che
riguarda la vita di tutti gli abitanti del pianeta. E così, ad un anno dalla
sua edizione inglese, Einaudi ha appena pubblicato un lavoro di Luke Martell, Sociologia della
globalizzazione, 404 pagg., 26,00 euro. Si tratta di
un’opera che segna una svolta negli studi su questo tema.
Pur
avendo un taglio accademico il volume è scritto con un linguaggio facilmente
comprensibile e per di più ogni capitolo può essere letto come uno studio a sé stante.
Sociologia della globalizzazione
affronta gran parte dei temi sulle trasformazioni del mondo contemporaneo dibattuti
negli ultimi trent’anni: dalle metamorfosi culturali all’impatto sociale della
tecno-scienza; dalle nuove disuguaglianze alle migrazioni; dall’economia finanziaria
al nuovo ruolo dello Stato; dai movimenti per una giustizia globale al declino
dell’impero americano; dalla formazione di una coscienza globale alla guerra.
E’
necessario aggiungere che il lavoro di Martell costituisce un’esauriente
rassegna delle teorie sulla globalizzazione dagli anni ’80 ad oggi. Perciò il
volume possiede anche un valore per così dire enciclopedico. Il ché non guasta.
Ma è soprattutto la metodologia adottata a fare di quest’opera un punto di
riferimento per gli anni a venire. In poche parole, Martell restituisce alla
sociologia la sua funzione originaria: indagare la realtà analizzando la
coerenza teorica delle sue interpretazioni sottoponendole a verifica empirica.
Funzione largamente smarrita proprio da numerosi sociologi che si sono occupati
della globalizzazione (per non parlare della vulgata giornalistica che da tempo
costituisce ormai un vero e proprio ostacolo alla comprensione del fenomeno).
Sembrerà
sconcertante ma il sociologo inglese si limita semplicemente a fare il proprio mestiere:
sottoporre al confronto con i fatti le diverse teorie della globalizzazione applicate
alle tematiche sopra indicate (economia, immigrazione, ecc.). Ne viene fuori un
quadro non così inclusivo come appare a prima vista. Un quadro per nulla
semplice e ancor meno coerente rispetto a quello che la maggioranza di noi ha
in testa. A nostra discolpa va detto che l’informazione mainstream ha fissato nell’opinione
pubblica mondiale un’idea radicale della globalizzazione. Idea ferma alla prima
ondata teorica degli anni ‘80 e che da lì non si è più mossa mentre il dibattito
è andato molto, molto più avanti. Tale ondata va sotto il nome di globalismo e a suo tempo ha fornito alcuni
concetti-chiave per interpretare la globalizzazione: un fenomeno mondiale
ineluttabile secondo il quale le economie nazionali hanno perso di importanza,
gli Stati cedono progressivamente terreno, le culture si vanno omologando e
ibridizzando. Negli anni ’90 a mettere in discussione l’omogeneità e la
generalità di simili processi è proprio la seconda ondata dei teorici della
globalizzazione: gli scettici. I
quali ritengono che le identità nazionali si evolvono ma non si dissolvono,
mentre la rinascita dei nazionalismi è di per sé un’evidenza che confuta le
scorciatoie sull’estinzione dello Stato. Insomma, la globalizzazione non si
diffonde in modo uniforme e provoca risposte differenti. Agli scettici seguono
i post-scettici o trasformazionalisti (chiamati così
perché ritengono che la globalizzazione comporti la prosecuzione e la
trasformazione delle strutture esistenti all’interno dei singoli Paesi). Per i
post-scettici la globalizzazione è un fenomeno nuovo ma non senza precedenti. L’ultima
ondata teorica è costituita dalla prospettiva
ideativa. Secondo questa visione l’elemento cruciale non è ciò che accade
nel mondo ma la globalizzazione in quanto discorso. Insomma ciò che pensiamo
della globalizzazione è più significativo della globalizzazione stessa: se
pensiamo di vivere in un mondo globalizzato ci comportiamo come se lo fosse
realmente (anche se non lo è).
Dunque
il quadro ricostruito da Martell indica chiaramente che tra gli addetti ai
lavori non esiste una sola teoria della globalizzazione ma addirittura quattro correnti
di pensiero che messe a confronto presentano diverse contraddizioni interne e
su punti cruciali sono in netto disaccordo. Ma non sono solo i sociologi ad
accapigliarsi. Anche tra gli storici c’è profonda discordia sull’origine della
globalizzazione. Si pensi solo allo studio di Hirst e Thompson, i quali
affermano che tra il 1870 e il 1914 l’economia era più internazionalizzata di quella
attuale.
Se
da un lato questo ginepraio di tesi spiega perché la stampa è ancora oggi
bloccata alla spiegazione più facile (ma largamente superata), dall’altro, la
ridda di opinioni non esime dalla ricerca di una definizione universalmente
accettata. E allora per Martell un fenomeno è globale quando presenta tre
caratteristiche: regolarità, continuità nel tempo, interdipendenza. Tuttavia, analizzando
dimensioni quali la cultura, l’economia,
la politica ci si rende conto che è molto difficile parlare di globalizzazione.
Sul piano economico ad esempio l’Asia si arricchisce mentre l’Africa
impoverisce. Il che significa ché le distanze sociali aumentano e l’interdipendenza
diminuisce a favore degli Stati più forti venendo così meno il presupposto
fondamentale della globalizzazione: l’integrazione. Altro esempio: la
Coca-Cola. Per Martell questo mito del consumismo è senz’altro un prodotto
globale, ma ha a che fare più con l’internazionalizzazione che con la
globalizzazione perché la casa-madre non ha affatto un’identità sovranazionale
ma marcatamente nazionale (quella USA). E questo discorso vale per quasi tutte
le multinazionali. Le quali appartengono ai Paesi ricchi del pianeta
determinando così un’asimmetria inconciliabile con le tesi più diffuse sulla
globalizzazione. Un ultimo esempio: il turismo. E’ sufficiente dare un’occhiata
alle statistiche per rendersi conto che la circolazione delle persone non è un
fenomeno regolare: circa l’80% del movimento turistico internazionale si svolge
all’interno di Paesi europei e
nord-americani e solo il 20% in altre regioni. Dunque il carattere globale del
turismo è limitato perché non ha apporti da tutto il mondo ma solo da alcune aree.
E’
chiara a questo punto la direzione che prende la riflessione di Martell: la
globalizzazione è osservata attraverso le prospettive più classiche della sociologia
quali il potere, la disuguaglianza, il conflitto. Tale approccio, accantonato
da troppi sociologi, si spiega per due motivi: 1) la sociologia non è scienza
se non esercita una funzione critica nei confronti delle idee di senso comune –
e la globalizzazione è una delle più divulgate idee di senso comune; 2) la
globalizzazione è incomprensibile se ci si limita ad analizzarla solo sul piano
culturale, se ci si concentra principalmente sulle migrazioni, se la si
presenta come pura esaltazione del nuovo rispetto al vecchio. Filtrate dal
setaccio di Martell delle teorie sulla globalizzazione resta molto poco. E due dei
risultati più interessanti del suo libro consistono nell’aver individuato una
globalizzazione per pochi privilegiati e nell’essere questi stessi privilegiati
un ostacolo alla globalizzazione intesa come integrazione. Martell infatti mostra
che le nazioni ricche si aprono al commercio mondiale solo quando possono
trarne vantaggio per le proprie industrie mentre lo ostacolano quando non riescono
a trarne benefici. Ed è un dato incontrovertibile che il 60% della popolazione
mondiale viva con un reddito che oscilla tra uno e due dollari al giorno. Il
ché per molti significa la fame. Insomma la globalizzazione è più un’ideologia
che una realtà.
(«VIAPO», 01/10/2011)
Nessun commento:
Posta un commento