sabato 18 dicembre 2010

Presentazione de "Tra totalitarismo e democrazia: la funzione pubblica dell'etica"

Venerdì, 7 Gennaio '11
ore 18.30
Libreria Rinascita
Via Savoia, 30, Roma
Presentazione del volume e-book
(Tesi di PhD in "Filosofia e Teoria delle Scienze Umane")


Federico Sollazzo,
Tra totalitarismo e democrazia: la funzione pubblica dell'etica

Introduce, Miriam Iacomini (Dottore di Ricerca in "Filosofia e Teoria delle Scienze Umane")
Interviene l'Autore, Federico Sollazzo

Nuova edizione: Federico Sollazzo, Tra totalitarismo e democrazia. La funzione pubblica dell'etica, (coll. Pratica filosofica), Kkien Publishing International, Gorgonzola (MI) 2015.
Ebook scaricabile QUI
 
Patrocinio: "l'EstroVerso" lestroverso.it

(Dall'Introduzione)

Il concetto di totalitarismo richiama ineluttabilmente quello del suo, almeno apparente, opposto: la democrazia; sicché, il ragionamento sull’uno apparirebbe menomato senza quello sull’altra. A sua volta, la riflessione sulla democrazia apre il campo alle più recenti argomentazioni etiche, volte alla ricerca di una pacifica, armoniosa e soddisfacente convivenza umana, al punto tale che il passaggio dall’analisi dell’una (la democrazia) a quella delle altre (le nuove correnti etiche), appare come la declinazione dello stesso discorso, quello sulla convivenza umana, nei suoi due complementari versanti: quello politico e quello morale. Questo percorso fatto di categorie concettuali necessariamente inanellate le une alle altre, confluisce infine in una proposta filosofica, sinteticamente definibile con la formula di “sintesi disgiuntiva”, tesa all’individuazione di un possibile percorso di pacificazione sociale, basato su di una “moralità minima condivisibile”, affondante le sue radici nella biologia umana e nelle emozioni.

(Dalla recensione di Miriam Iacomini)

Come l’autore ci ricorda, l’esprienza disumanizzante del totalitarismo impone la riconquista di una nuova dimensione del pensiero obbligandoci “a trascendere le (...) limitazioni individuali, l’isolamento, la solitudine, in direzione del riconoscimento della presenza degli altri”.

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lunedì 13 dicembre 2010

La filosofia e la società tecnologica avanzata

Seminari di Filosofia
La filosofia e la società tecnologica avanzata

Programma

Antropologia e tecnica in Arnold Gehlen
Martedì, 21 Dicembre ’10, ore 18.30

La questione della tecnica in Martin Heidegger
Martedì, 28 Dicembre ‘10, ore 18.30

Neutralità della tecnica e (ri)orientamento della tecnologia in Herbert Marcuse
Martedì, 4 Gennaio ’11, ore 18.30

Relatore, Federico Sollazzo
(Curatore di “CriticaMente” costruttiva-mente.blogspot.com ;
Dottore di Ricerca in “Filosofia e Teoria delle Scienze Umane”, Università Roma Tre;
Ricercatore di Filosofia Morale e Lettore, Università di Szeged – Ungheria – )

Libreria Rinascita Caffè,
Via Gasperina, 161
Roma

Ingresso libero

Patrocinio: “l’EstroVerso” lestroverso.it

Presentazione
di Federico Sollazzo

Consapevoli o meno, un certo tipo di modernità continua ad avanzare, rimodellandosi costantemente così da potersi insinuare in ogni spazio, fisico ed esistenziale.
Sia che la si voglia accettare, sia che la si voglia rifiutare, sia che si voglia operare una scelta selettiva, è preliminarmente necessario comprenderne la natura, ormai legata a filo doppio con la tecnica, o meglio, con un certo tipo di tecnologia, al punto tale che ormai la storia della società non si configura più come storia dell’uomo, ma come storia della tecnologia, rispetto alla quale l’uomo appare come un mero accessorio.

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lunedì 6 dicembre 2010

Tra totalitarismo e democrazia

di Luigi Carotenuto (luigicarotenuto@live.it)

http://www.kkienpublishing.it/wpcproduct/tra-totalitarismo-e-democrazia-federico-sollazzo/
Federico Sollazzo, Tra totalitarismo e democrazia. La funzione pubblica dell'etica, Nuova edizione (coll. Pratica filosofica), Kkien Publishing International, Gorgonzola (MI) 2015
Ebook scaricabile QUI

Come premessa al saggio di Federico Sollazzo, mi torna in mente una dichiarazione del regista Robert Bresson, in occasione dell'uscita del suo penultimo film, forse il più estremo, Le diable probablement: «Mi ha spinto a fare questo film lo sperpero che si fa di tutto, in questa civiltà di massa dove presto l'individuo non esisterà più. Questa immensa impresa di demolizione, dove noi periremo laddove abbiamo creduto di vivere, la si deve anche all'incredibile indifferenza di tutti, esclusi certi giovani d'oggi tra i più lucidi». Era il 1977 e il protagonista di quella pellicola, un giovane, muoveva il suo atto di accusa a una società già fortemente influenzata dalla nuova tecnologia e dalle sovrastrutture politico-sociali.
Oggi, Federico Sollazzo, ci propone un saggio critico fortemente lucido, forse mosso, anche inconsciamente, da ragioni simili a quelle del famoso cineasta, certo con la fiducia di chi crede nella filosofia non solo come mero strumento indagatore, speculativo, ma come mezzo per attuare cambiamenti sociali profondi e tangibili. Anche se, «Il mondo non ha mai ascoltato i suoi filosofi, le loro geremiadi», sentenzia Bauman, e, altrove sostiene che «non esistono soluzioni locali a problemi globali». In questo lavoro, Sollazzo tiene i fili di un serrato, rovente dialogo tra pensatori moderni e antichi, leit motiv il logos, bistrattato, strumentalizzato, usato spesso esclusivamente per brama di potere dall'uomo (come rileva Jonas citando l'Antigone sofocleo: «molte ha la vita forze tremende; eppure più dell'uomo nulla, vedi, è tremendo»). Un testo, (nello specifico, Tesi di Dottorato in “Filosofia e Teoria delle Scienze Umane”), che, come lo stesso autore tiene a precisare nell'introduzione, nasce da una prima ricerca riguardante il concetto di totalitarismo, andata ampliandosi man mano che il magma concettuale si apriva ad altre riflessioni, tutte comunque indirizzate alle umane sorti. Muovendosi, nella prima parte, soprattutto dalle considerazioni della Arendt e degli esponenti della Scuola di Francoforte, il testo si sofferma (ed è uno degli aspetti più interessanti) sulla crisi della ragione individuale prodotta dai governi totalitari che sfocia fino al tragico genocidio nazista. In ogni stato totalitario, sorretto sempre da ideologie asservite al sistema e create appositamente dallo stesso, si attua un processo di disumanizzazione e “desublimazione” dell'arte, il linguaggio si oggettivizza e via via prende forma quell'”uomo a una dimensione” descritto da Marcuse nel quale anche «la parola diventa cliché». Principale scudo di difesa il pensiero («Il pensare è già di per sé un segno di resistenza che sta ad indicare l'impegno a non lasciarsi più ingannare», Horkheimer); interrogativi inquietanti, come quello, per noi contemporanei, di trovarci nuovamente in un regime assolutizzante, tirannico, oltre alla messa in visione dei rischi che comporta la democrazia, molto spesso nome che maschera un sistema oligarchico, per nulla garante di equità dove l'apatia politica “indotta” è un modo per agire indisturbati. Difatti il cittadino viene “educato” a utilizzare il proprio voto soltanto come merce di scambio, nella logica del do ut des già denunciata nell'Ottocento da Tocqueville. Sollazzo insiste, come argine a questa deriva critica, su una filosofia pratica e una conciliazione tra ethos e logos, dato che, come sostenuto da Habermas, sempre più la vita privata si pubblicizza mentre la sfera pubblica si fa intima, segregandosi (e in proposito viene citato il bellissimo libro di Elias Canetti, Massa e potere). Inoltre, i luoghi detentori di cultura, quali università, musei, teatri, dovrebbero farsi voce, cassa di risonanza, della coscienza etico-civile laddove viene a mancare un'autocoscienza collettiva, per sfuggire a quella cultura industriale che annulla ogni capacità immaginativa e irrigidisce gli stili di vita.
L'autore, infine, dopo aver preso in esame i concetti di totalitarismo, democrazia e le varie possibili etiche pubbliche, nell'ultimo capitolo considera, senza illusorie concessioni utopistiche, le prospettive di una possibile pacificazione sociale. Qui parte dal “conosci te stesso” socratico per sottolineare come l'uomo moderno e contemporaneo sia il punto focale affinché non si riducano le questioni precedentemente trattate in banali semplificazioni. Si deve comprendere tutta la problematicità dell'uomo d'oggi e da qui partire per un atteggiamento risolutivo che tenga conto però di ogni contesto (e perfino di ogni uomo, come sottolinea Sollazzo a conclusione del suo lavoro) e cominci sul serio un processo di scambio tra culture differenti, nel reciproco rispetto delle proprie peculiarità che le rendono uniche e allo stesso tempo universali.

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mercoledì 1 dicembre 2010

La poesia “pagana” di Yves Bergeret

di Francesco Barresi (ruutura@hotmail.it)

Parole, natura, uomo: una triade felice di Yves Bergeret, poeta francese e instancabile esploratore del mondo che ha esordito con varie pubblicazioni, in prosa e poesia, negli ultimi tempi, rivelandosi una novità emergente per le sue sperimentazioni poetiche.
Le sue recenti pubblicazioni contano opere come Si la montagne parle (Voix d’encre, Montélimar 2004), Montagne e parola (Gangemi, Roma 2005), La Maison des peintres de Koyo (Voix d’encre, Montélimar 2007), Il mare parla/La mer parle (“I Quaderni di Leggerete”, 2007, a cura di Biagio Guerrera e Giovanni Miraglia), confermando la sua attitudine al confronto con il paesaggio, e in particolar modo con quello montano; la montagna è infatti un privilegiato luogo delle sue mete e della sua ricerca poetica. Spesso i suoi viaggi prevedono performances particolari, servendosi della collaborazione di musicisti per valorizzare il significato evocativo della sua poesia, una felice comunione che sembra riproporre gli antichi rituali primitivi con cui si celebravano le forze della natura. Una semplice lettura a tavolino dei suoi testi sarebbe riduttiva perché la poesia di Bergeret non è fatta per essere letta e consumata nei luoghi dell’anima ma per essere esibita in ampi spazi aperti, per ristabilire un dialogo antico tra la natura e l’uomo in una ricerca inesauribile di tutte le forze primordiali del mondo e dell’uomo, riproponendo una sacralità antica con il veicolo della poesia. È un poeta che ha viaggiato molto (Mali, Cipro, Guyana, Martinica, Sahel): la sua professione di fede nella poesia lo pone come ricercatore in vari luoghi del mondo e tra questi la Sicilia, dove ha collaborato con il ceramista di Caltagirone Andrea Branciforti e, a Noto, con gli artisti Pia Scornavacca e Carlo Sapuppo. Il felice incontro con la ricca civiltà siciliana ha prodotto il suo “Poema dell’Etna”, un lungo componimento e insieme una celebrazione del grande vulcano, in cui Bergeret da prova della sua langue espanse, in una ricerca poetica in cui tutti i segni dello spazio appartengono alla lingua, quindi in un approccio teorico e pratico vissuto all’insegna di una forte relazione con il mondo.
La sua è una liturgia atea, contemporanea, pagana, che valorizza la natura come luogo sacrificale per la sua poesia e come unica deità da venerare, affinché le sue parole possano rivelare l’energia intrinseca e dimenticata della natura con l’ausilio della musica e in particolare degli strumenti a percussione. Proprio per questo Bergeret definisce la sua poesia “geologica”, perché la sua ricerca poetica mira a riproporre un’unità originaria tra la terra e il cielo, tra le forze primordiali della natura e la forza evocativa delle sua poesia-liturgia, come ben dimostra l’interpretazione metaforica dell’Etna. «Il vulcano – afferma Bergeret – è la violenza dell’origine, come se il dito di Dio si fosse impresso nella terra e la terra avesse cercato di trattenerlo e da qui è nato l’Etna, una forza di distruzione non pacificata come l’uomo che abita le sue pendici, tra lo stupore dei suoi fiotti di lava e la paura di una distruzione imminente». “Persona che pone un segno” si definisce Bergeret, proprio come i segni che ricerca e che ha impresso sulla pietra lavica con il pennello intinto nell’inchiostro durante la sua “escursione”, una chiara dimostrazione della sua ricerca di un dialogo tra la natura e la poesia in cui quest’ultima è un tramite privilegiato e una chiave d’accesso del suo itinerarium di poeta e di uomo nel mondo.

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domenica 21 novembre 2010

Imbarbarimenti

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

In una recente puntata di un noto programma televisivo ("Annozero"), si è parlato del crollo, da poco avvenuto, di alcune mura, della cosiddetta casa dei gladiatori, presso gli scavi di Pompei.
Come abitualmente avviene quando si tratta di tematiche culturali, si è teso a dividere tra "cattivi" e "buoni", tra coloro che non si curano di ciò che è culturale, emblematicamente rappresentati da un allevatore del nord che auspicava che le mura di Pompei venissero usate per costruire dighe ed argini nel nord Italia, che ha recentemente subito un allagamento, e coloro che si curano di ciò che è culturale, emblematicamente rappresentati dai turisti degli scavi pompeiani, costretti ad aggirarsi in un sito che si trova in condizioni penose.
Ora, tale prospettiva nell'affrontare simili questioni è, a mio parere, del tutto distorta. Quei turisti sono infatti colpevoli tanto quanto quell'allevatore, dell'annichilimento di ciò che ha un valore culturale. Entrambi infatti si pongono di fronte a ciò che ha un valore culturale, in un'ottica utilitarista, consumista, e non fa alcuna differenza se si voglia materialmente distruggere ciò che è culturalmente prezioso, al fine di costruire qualcosa di utile, o se si voglia materialmente mantenere ciò che è culturalmente prezioso, al fine di potersene impossessare consumisticamente; in entrambi i casi viene disconosciuto il senso di ciò che è culturale.
La questione essenziale non risiede allora nella distruzione o nella conservazione di un bene culturale: nel vigente orizzonte "(dis)valoriale", anche quando la cultura viene conservata in perfette condizioni, tale perfezione è posta al servizio di logiche utilitariste, commerciali, efficientiste, produttive, consumiste; questo, l'assoggettamento della Cultura a criteri strumentali che le sono estranei, ne determina l'autentico annichilimento.
La via da intraprendere dunque, non è affatto, come abitualmente si dice, quella della scelta di amministratori politici virtuosi, bensì, come abitualmente si tace, quella di un ri-orientamento del nostro paradigma valoriale: la liberazione dall'ideologia occidentale di dominio.

Di tutto conosciamo il prezzo, di niente il valore
F. Nietzsche

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sabato 20 novembre 2010

"Contro l'assoluto"

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Armando Zopolo, Contro l'assoluto, Progetto Cultura, Roma 2010 (pp. 234, € 15)

(Dalla prima di copertina)

Ammettere l'assoluto significa negare il tempo e, dunque, il divenire, insieme al valore dell'operare umano

Capitoli: 1) Le stagioni della filosofia; 2) Luoghi comuni; 3) L'aspettativa della felicità; 4) Lettura ideologica della felicità; 5) Religione e ateismo; 6) Laico, laicismo, laicità, clericalismo ed anticlericalismo; 7) Verità del relativo, del condizionato, dell'imperfetto, dell'incompiuto, del contingente

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giovedì 11 novembre 2010

La contraddizione assoluta del capitale

di Stefano Ulliana (ulliana1@tin.it)

E poiché uguali parti sono del grande e del piccolo, anche così in ogni cosa ci potranno essere tutte: non è possibile che esista separatamente, ma tutte partecipano a tutto
Anassagora (DK 59 B 6)

Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale
G.W.F. Hegel (Lineamenti di filosofia del diritto, Prefazione)


La forma e la sostanza dell'egemonia (ideologica e pratica) sostenuta dal Capitale (finanziario, speculativo e produttivo) attuale sono date, offerte e rese stabili dal modo e dalla struttura della contraddizione assoluta. La contraddizione assoluta è infatti la determinazione e la definizione della struttura e del modo propri del dominio e del potere esercitati dall'ideologia capitalistica presente.
La ricerca e le volontà comuni all'ideologia capitalistica, tese alla massimizzazione del profitto – nelle opere d'ingegno, nelle produzioni artistiche in senso lato, nelle produzioni tecnico-pratiche – hanno infatti stabilito la necessità irremovibile ed ineliminabile di un forma sintetica a priori, che raccolga interamente, completamente e totalmente il pensiero, l'arte e la prassi dell'infinito (umanamente inteso e rappresentato). Come nel caso della prima filosofia idealistica tedesca – J.G. Fichte – il pensiero, l'arte e la prassi della reazione – il Congresso di Vienna è del 1815 – pretende di bloccare, di negare ed annientare in anticipo qualsiasi apertura di relazione che ricordi l'abissale profondità dell'infinito liberamente creativo, viva ed espressa attraverso la relazione doppiamente dialettica sussistente fra libertà ed eguaglianza.
Nello sviluppo successivo del pensiero idealistico tedesco la posizione fichtiana venne in tal modo superata dalla ripresa schellinghiana dell'infinito creativo e doppiamente dialettico di origine bruniana – Giordano Bruno da Nola – prima di venire di nuovo piegata e trasferita su un piano esistenziale di tipo tradizionalmente neo-assolutistico. Il riorientamento poi operato dalla filosofia hegeliana doveva conservare l'astrazione e la separazione operata dai due precedessori, rafforzandone la carica e la volontà di alienazione. Solamente la speculazione critica di L. Feuerbach e quella dialettica di K. Marx sarebbero poi riuscite a rovesciare il rovesciamento inizialmente attuato da quella astrazione, separazione ed alienazione, ripristinando il concetto, l'arte e la prassi dell'infinito creativo e doppiamente dialettico.
Come allora, oggi la reazione attuata dal Capitale – nella sua forma e sostanza dittatoriale – pretende di bloccare, negare ed annientare in anticipo qualsiasi apertura di relazione che ripristini questo concetto, quest'arte e questa prassi. Per farlo blocca, nega ed annienta – in anticipo nell'immaginario collettivo o a posteriori con la propria attività repressiva – qualsiasi riferimento all'idea e all'ideale d'eguaglianza. In ciò pretende infatti di arrestare insieme alla relazione dialettica fondamentale – quella tra libertà ed eguaglianza – quella relazione verticale, che si riferisce così all'abisso creativo come all'orizzonte aperto d'infinito. L'inscindibilità di libertà ed eguaglianza apportata da questo orizzonte viene infatti ora capovolta e rovesciata nella loro divisione, separazione e subordinazione. Il concetto e la prassi di una libertà identica ed individuale conquista per sé la categoria superiore della qualità, lasciando in posizione subordinata ed inferiore il concetto e la prassi di un'eguaglianza quantitativa e di massa. In questo contesto – il contesto del cosiddetto glocale – la libertà di poter diversificare – attività, finalità, produzioni, investimenti materiali o speculativi, lavori specialistici – ordina quella di dover al contrario uniformare determinazioni e definizioni di soggezione, legate al territorio. Nelle situazioni che in tal modo vengono a costituirsi – dove l'operaio ed il tecnico mediamente od altamente specializzato sono liberi di essere assunti (e vengono ricercati) unicamente in relazione alle proprie capacità e competenze, mentre il precario-massa (dequalificato dalle proprie mansioni segmentate) viene costretto alla pura e semplice schiavitù strumentale – l'orizzonte puramente formale della libertà – di movimento dei capitali e delle merci e di qualificazione degli ideali e dei soggetti operanti – stabilisce una nuova servitù del e nel territorio – una rivisitazione della feudale servitù della gleba – come espressione negativa della libertà ed eguaglianza originarie.
Con questa divisione, separazione e subordinazione della libertà e dell'eguaglianza tramite le due categorie della qualità e della quantità il Capitale instaura la propria dittatura a metà. Attraverso quella negazione – la negazione del creativo e doppiamente dialettico dell'infinito (naturale e razionale) – il Capitale afferma se stesso come infinito immediatamente, completamente e totalmente positivo. Il Capitale fa dunque di se stesso un assoluto. L'Assoluto o l'Essere rispetto al quale il divenire temporale deve essere considerato come una forma già precompresa ed organizzata.
Separando ed astraendo il tempo reale e concreto il Capitale fonda ed erige la radice, la causa ed il principio della violenza.
L'annichilimento – preteso e voluto – della radice creativa e libera della natura razionale, infinita ed universale, si trasferisce e converte (capovolge) allora nella legittimazione per diritto separato della violenza (il potere dello Stato), come difesa dall'offesa naturale e razionale. In questo modo il Capitale – portando a termine il processo iniziato dalle prime forme di civilizzazione occidentale e poi proseguito con l'affermarsi dell'ideologia classica (orfico-pitagorica, platonica od aristotelica) – attua il distacco definitivo dall'originario.
In questo modo la pace e la giustizia naturale e razionale si tramutano e capovolgono nella guerra e nella sopraffazione umana, nella preistoria della lotta fra le classi. Separare il diritto all'uso della forza e renderlo monopolio del potere statuale ha quindi significato nella storia dell'uomo isolare l'esistenza secondo l'ordine e la gerarchia delle classi sociali, stratificate e coordinate secondo la convergenza delle funzioni sacrali e politiche e la subordinazione di quelle produttive e conservative.
Il Capitale porta ora finalmente a termine e a compimento lo sviluppo e l'evoluzione della storia umana, nell'illusione fantastica e fantasmatica della medesima, creata e sostenuta dalla missione civilizzatrice iniziata con la classicità greca (la sostituzione dell'immagine ordinata alla realtà caotica). Mentre dunque vita, esistenza e libertà entravano ad abitare lo spazio ed il tempo ordinato della polis, a prezzo di separazioni e discriminazioni, vita, esistenza e libertà attuali paiono ingigantire e globalizzare quelle separazioni e discriminazioni, costituendo il termine finale della volontà di potenza dell'intera civiltà occidentale.

Con la separazione e l'astrazione del tempo reale e concreto il Capitale fonda dunque ed erige la radice, la causa ed il principio della violenza legalizzata ed istituzionalizzata. È questa l'origine della volontà di potenza che ha animato l'evoluzione della civiltà ideologica occidentale. Nello stesso tempo con questa medesima separazione ed astrazione il Capitale instaura il modo e la struttura della contraddizione assoluta.
Negando la radice creativa e doppiamente dialettica dell'infinito, la forma reazionaria e dittatoriale del Capitale annulla l'idea e l'ideale d'eguaglianza, abbattendo nel contempo l'orizzonte comune e collettivo della libertà. In questo modo l'ideologia capitalistica odierna nega non solo tutte le forme di democrazia radicale e totale (la democrazia sic et simpliciter), ma anche la stessa idealità teorica presente nel principio liberale proposto da A. Smith (l'equilibrio del e nel commercio planetario), recuperando tutta la propria dimensione categoriale storicamente realizzatasi nei secoli XIX e XX. Economia che si fa progressivamente e sempre più Stato, ne assume via via i poteri e la potenza generale, espropriandone il fondamento di diritto, di legittimazione, di orientamento ed ordinamento. Si assiste così alla scomparsa dello Stato, non per mano della vittoria delle rivoluzioni socialiste od anarchiche, ma in virtù della reazione indotta dai procedimenti di crisi causati dalla stessa modalità produttiva capitalistica (svalorizzazione dei beni, dei diritti e dei salari dei lavoratori; iper-valorizzazione delle merci, soprattutto finanziarie; potenziamento assoluto del comando d'impresa). In tal modo il comitato d'affari della borghesia ha consentito in ogni Stato ed internazionalmente la propria sostituzione con il comando diretto ed imperiale del Capitale (WTO, FMI, BM), piegando e coartando vieppiù le stesse istituzioni del diritto internazionale (ONU) alla difesa dei suoi particolari interessi (guerre imperialistiche come operazioni di pacificazione).
Per tale ragione al modo ed alla struttura della contraddizione assoluta si congiunge e si fonde la relazione stabilita dalla strumentalizzazione assoluta.

Si è dunque già compresa la completa coincidenza fra volontà di potenza e contraddizione assoluta. L'immagine dell'una rende la realtà e la struttura dell'altra: nata dall'opposizione all'azione naturale e razionale della realtà (potenza autentica e spontanea), essa si tende e si concentra attorno alla costruzione di una polarità assoluta, posta a difesa del proprio diritto separato all'esistenza, alla vita ed alla libertà. Soggetto infinito che si pone, si apre nella relazione ed agisce, esso vale per la libertà che è capace di conservare, ampliare e moltiplicare (in modo ordinato e per se stesso) nel proprio mondo. Ogni finalità e scopo dell'azione umana viene così distolto dalla radice, dall'orizzonte e dall'ideale che danno espressione, ordine e composizione alla natura ed alla razionalità, per essere coinvolto in una sorta di rovesciamento e di contrapposizione dialettica, dove la causalità naturale si rende artificiale, per sottomettersi ai principi stabiliti da un'istituzione oggettiva, un potere umano che chiede per se stesso un riconoscimento ed un'obbedienza assoluti. In questo luogo metafisico la signoria del pensiero astratto occidentale costituisce la realtà della propria alienazione, sottoponendo prima ciò che è libero, spontaneo e creativo a strumento per l'acquisizione di scopi eterodeterminati, eterodefiniti ed eterodiretti; poi assogettandolo a tutte quelle nature in seconda (nature seconde) che l'orizzonte e l'ordine di composizione ideologico capitalista crea come strumenti privilegiati e primi dell'organizzazione di valorizzazione del Capitale stesso.
In questo modo il lavoratore-precario-massa si vede prima rovesciato nel suo contrario ed opposto – libero, creativo e spontaneo, diviene coartato e costretto secondo mansioni e segmenti d'azione predeterminati dall'economia degli sforzi e dei costi – poi ulteriormente schiavizzato a tutto ciò che per definizione si costituisce come strumento eterodeterminato, eterodefinito ed eterodiretto (prima l'organizzazione di fabbrica, poi la dislocazione delle medesime, infine la valorizzazione data alle merci ed alla speculazione finanziaria).
È in questo modo dunque che il lavoratore-precario-massa subisce una duplice violenza, una violenza che pare sdoppiarsi. E che attualmente pare accentuarsi sino all'estremo della negazione della stessa libertà vitale (per se stesso e per l'ambiente nel quale è chiamato a vivere).
Al capo opposto del lavoratore-precario-massa stanno i prestatori d'opera specializzati, organizzati ed ordinati secondo le loro specifiche mansioni e finalità, integrati nel sistema, e gli elementi direttivi ed amministrativi. Con la finanziarizzazione estrema dell'economia la catena di comando del Capitale si è però allungata ed è entrata in crisi: alla difesa ed alla reazione – soprattutto preventiva (si noti l'estrema analogia fra gli anni '20/'30 del secolo XX e quelli '80/'90) – alla reazione duplice del naturale-e-razionale ridotto a schiavo in prima e seconda battuta è dovuta subentrare una difesa ed una reazione allo squilibrio sussistente fra Capitale speculativo e Capitale investito e produttivo. Il recupero di questo squilibrio viene così attualmente pagato da un ulteriore incremento nel livello dell'alienazione imposta e nella grandezza della violenza economica, sociale, politica e giuridica impiegata. L'interconnessione fra gruppi bancarii e aziende multinazionali dimostra l'alto livello di questa necessaria composizione (necessaria per e nel sistema), capace di stabilire infine la stessa definitiva strumentalità al Capitale della medesima organizzazione e potere statuale ed internazionale.

Diventa quindi evidente come vi sia stato un incremento assoluto del potenziale di violenza e come si sia passati dalla consapevolezza della violenza-sfruttamento all'interno del sistema organizzato di fabbrica o di impresa capitalistica, alla presa di coscienza dell'atto di violenza radicale, antropica e naturale (bene compreso e fronteggiato dai movimenti del '77/'78), quando la contrapposizione di classe è diventata contrapposizione di genere e di orientamento ideologico generale. Ora pare di assistere ad un terzo e definitivo livello di violenza: alla contrapposizione dialettica di classe ed alla contrapposizione ideologica generale, capace di recuperare la radice creativa e doppiamente dialettica dell'infinito, si è aggiunta infatti una violenza che pretende di piegare a se stessa la stessa libertà vitale. Prima meccanizzata ed ordinata, ora essa dovrebbe essere totalmente negata e capovolta – una volta e per sempre – nel e dal meccanismo speculativo di unificazione mondiale del Capitale (globalizzazione).
Per questo la serie duplice delle contrapposizioni dialettiche si sta ora ampliando e potenziando in modo assoluto in una sorta di contraddizione assoluta del Capitale, dove l'iper-astratto della speculazione borsistica pompa inesauribilmente ed inesorabilmente la necessità ed il fato della violenza totale, dell'espropriazione naturale ed antropica, ridisegnando territori, riorganizzando inter-comunità umane con lo strumento degli spostamenti di massa ed i genocidi mascherati, pianificando la separazione e la contrapposizione fra un livello superiore di movimento e d'ordine ed uno inferiore e territoriale di immobilità, immodificabilità e feroce subordinazione ai progetti di continua trasformazione che piovono dall'alto, secondo le decisioni interessate e complici degli investitori economici mondiali e dei rappresentanti politici locali (nazionali, regionali, provinciali).

La contraddizione assoluta del Capitale si conserva attraverso una spinta intrinseca, che introflette ogni espressione vitale e libera della natura, così come ogni espressione sensibile ed immaginativa della ragione. Per essa il creativo e dialettico originario – l'unità oppositiva e di movimento, di trasformazione e rivoluzione della natura e della ragione – viene piegato e coartato secondo una logica completamente opposta ed astrattamente metafisicizzante. La divisione, la separazione e la scissione che costituisce la potenza alienata ed astratta del potere umano (religiosa, d'ordine o di classe) cerca il sostegno ed il consenso – la propria alimentazione – in uno spirito reazionario e di massa, sollecitato ed evocato, organizzato, istituito e compartito, comunicato e contagiato socialmente attraverso il possesso, il controllo e l'indirizzo dei mezzi comunicativi e formativi di massa (radio, televisioni, scuole ed università). In questo modo ogni positiva estroflessione viene ripiegata e chiusa in una logica del negativo e della negazione (della distinzione e discriminazione).
L'immediatamente e spontaneamente positivo viene allora incanalato, piegato e capovolto da una logica reale (astratta), nella quale e per la quale il principio della selezione per affinità negatrice – della libertà spontanea e vitale degli impulsi naturali e razionali – diviene criterio operativo della comunità ordinata ed organizzata dei soggetti comunitari. In tal modo l'orizzonte e la realtà apertamente comune e collettiva dei soggetti vitalmente in azione (creativa e reciprocamente dialettica), per la ricerca e l'attuazione di un bene ideale, si rovescia e capovolge nella determinazione identitaria e definitiva di quello stesso bene, assolutamente, interamente, completamente e totalmente deprivato dell'originaria azione creativa e reciprocamente dialettica (territorialismo indotto dalla globalizzazione).
Con questa filosofia sociologica reattiva e reazionaria il Capitale si mette quindi al riparo, in modo tendenzialmente perenne, da ogni possibile impulso rivoluzionario, deviandone la sensibilità, l'immaginazione ed il ragionamento verso forme opposte di determinazione individuale e collettiva. Edificando una nuova natura ed un nuova ragione, che possano insieme confortare e dare rassicurazione, offrendo benessere e soddisfazione, combattendo quelle determinazioni di paura e pericolo, che vengono innestate dal sistema in crisi per cause proprie nei soggetti oggettivamente o soggettivamente indisponibili a questa presa reazionaria. Con questo distacco e separazione di massa il sistema riesce pertanto a rendere la propria comunità di soggetti (effettivamente e disumanamente) inaffettiva ed anaffettiva, così organizzandola e governandola come vera e propria massa preventivamente (inconsapevolmente e/o consapevolmente) contro-rivoluzionaria e reazionaria. I sentimenti umani di reciproco riconoscimento, di mutuo aiuto e di vicendevole costruzione delle proprie esistenze vengono allora autonomamente repressi, perché immediatamente e progressivamente (sino alla loro totalità) sostituiti da un'educazione autoritaria alla distinzione, discriminazione e selezione ordinata (nuovo razzismo istituzionale, rivolto ai comportamenti di etnie, nazioni o parti politiche della società).
Il risultato evidente di questo rovesciamento e capovolgimento è la considerazione e valutazione della violenza come normalità dell'esercizio della forza e dell'autorità civile e della normalità dell'originario creativo e doppiamente dialettico come violenza consapevolmente esercitata contro l'ordine naturale e razionale delle cose. In questa volontà di sradicamento dell'originario – della sua realtà, del suo movimento e della sua idealità – il sistema retorico, pedagogico e culturale (ideologico) del Capitale pretende di colpire ed affossare per prima l'affettività generale e particolare dei soggetti, nella loro umanità, individuale e collettiva. Così – soprattutto per chi lavori con le giovani generazioni, nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado – diventa facile vedere come questa negazione annulli la sensibilità dei e nei rapporti individuali ed il suo senso razionale (la produttività creativa e dialetticamente immaginifica). Di qui il drammatico e generalizzato impoverimento delle abilità e delle capacità operative e conoscitive dei discenti, con l'instaurazione di schemi di comportamento e di apprendimento autoreferenziali e idiomatici.
L'affermazione identitaria sorregge poi l'impossibile annullamento dell'affettività stessa, trasferendone il portato in una sorta di distacco e repulsione anaffettiva, presente ed operante soprattutto nelle generazioni dei giovani e dei giovani adulti. L'inaffettività e l'anaffettività si trasformano poi nel motore principale del progressivo smantellamento (piuttosto inconsapevole) delle sensibilità operative degli adulti, destinato ad incrementare progressivamente tutti gli errori vitali, definiti dal reciproco rispetto delle relazioni esistenziali (in ogni ambito della sicurezza, individuale e collettiva).

Questa sorta di fenomenologia patologica indotta dal Capitale trova la propria spiegazione strutturale in una serie di scelte ideologiche fondamentali, che hanno a che vedere con le dimensioni umane dello spazio e del tempo.
Lo spazio può infatti essere determinato e definito come il sorgere ed emergere della dimensione creativa, specificandosi poi come la sua propria apertura di relazione (in congiunzione con la tensione temporale, da essa stessa evolutivamente predisposta); oppure può essere al contrario considerato come un principio di inertizzazione e di omogeneizzazione, dove la radice creativa viene preventivamente annichilita e l'apertura di relazione negata e capovolta nella prioritaria e gerarchica disposizione d'ordine. È qui che la dimensione umana del tempo viene raccorciata ed infine alienata in una disposizione concentrativa, di concentrazione (tramite un'integrazione continua e successiva, che vale nient'altro che la stessa trasmissione del potere e della potenza alienata nella storia di lunghissima durata della civiltà occidentale). Oppure, al contrario, la dimensione umana del tempo può accompagnare il sorgere, l'emergere e l'aprirsi di quella spaziale, come sua tensione realizzativa ideale. Capace di protendere una molteplicità inesauribile ed infinita di scopi e di finalità, insieme naturali e razionali. Dove il tempo può – al contrario dell'esempio precedente – essere dilatato, per ridivenire il tempo dell'umano reimpossessamento, dell'umana autonomia e libertà (predisposizione d'eternità o conservazione eterna dell'ideale).

Nel contesto stabilito dalla premessa che congiunge, combina ed esprime le due dimensioni umane ed originarie del tempo e dello spazio, addivengono quindi a ricalibrazione anche le differenti ed ordinate categorie teoriche e pratiche della quantità, qualità, relazione e modalità.
Mentre nell'ipotesi voluta fortemente dalla concentrazione polare del Capitale finanziario la quantità è soggetta, come massa informe (corpo sociale) alla realtà negativa e limitante – alla qualità – delle predisposizioni tecniche ed accademiche orientate alla valorizzazione delle merci e del Capitale stesso, nell'ipotesi che tiene insieme in modo radicale ed ideale libertà ed eguaglianza la quantità ridiviene il modo infinitamente aperto della qualità, la continua produzione e trasformazione (rivoluzione) dei modi liberi e democratici di posizione creativa e relazione dialettica.
Allo stesso modo, mentre nell'ipotesi capitalistica questa posizione creativa e relazione dialettica vengono rovesciate e capovolte nella sostanza di una relazione produttiva (causale) che assorbe sul lato del principio dell'accumulazione e della massimizzazione dei profitti la totalità integrale dell'umanità su questo pianeta, garantendo attraverso la predisposizone ideologica lo sfruttamento e l'alienazione della potenza non solo umana, ma bensì universalmente naturale e razionale (crisi ambientale, sociale e politica globale), nell'ipotesi opposta, possibilità reale e necessità ideale si ricompongono e si ordinano di nuovo, per riprodurre ancora quella tensione spazio-temporale, che è la disposizione e l'immagine umana viva dell'unità fra Natura e Ragione. Così l'infinito creativo e doppiamente dialettico riapre finalmente la dimensione della democrazia assoluta (esistenziale, economico-sociale, politico-ambientale) planetaria.
Data questa opposizione irriducibile, che sarà il luogo e il motivo di scontro fra l'ideologico e l'ideale in questo nuovo secolo (il XXI), è conseguentemente facile osservare la contrapposizione insanabile che sussisterà fra le due opposte mentalità (e direi quasi le due opposte nature antropologiche).
La mentalità capitalistica nella sua fase finale infatti accumula su di sé tutto il portato ideologico delle tradizioni egemoni e separate del potere presenti nell'intera storia della civiltà occidentale (secondo il criterio dell'Uno necessario e d'ordine): essa assorbe, affina e seleziona, potenzia e diffonde sensibilità, sentimenti e passioni adatti ai propri scopi di alienazione e negazione (del creativo e dialettico originario). Valorizza gli atteggiamenti aggressivi, distruttivi ed autoritariamente ricompositivi (perché comunque funzionali ad una ricomposizione autoritaria).
Al contrario la mentalità democratica radicale ed ideale riapre il respiro dello spirito dello spazio e del tempo, della posizione creativa e dell'espressione dialettica, del movimento ideale continuo.
Tanto la prima estrinseca, estende e controlla, uno spazio di alienazione dal potere effettivo e dallo stesso, progressivo, godimento dei diritti umani essenziali, quanto all'opposto la seconda include immediatamente e totalmente l'intera umanità e naturalità all'interno del godimento dei propri diritti razionali.
È e sarà dunque questo il vero e proprio scontro di civiltà al quale assisteremo in questo secolo e che ci dirà se questo pianeta si sbarazzerà della specie umana o se, al contrario, umanità, natura e razionalità potranno ritrovarsi ed insieme godere della comune, universale ed infinita, felicità.

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domenica 31 ottobre 2010

Renoir: la passione per l’arte e la vita


di Francesco Barresi (ruutura@hotmail.it)


“A me piacciono i dipinti che mi fanno desiderare di passeggiarvi dentro, di rappresentarne paesaggi, di accarezzarli se rappresentano donne”, Renoir

Pierre-Auguste Renoir è uno degli artisti più amati del XIX secolo. Anche se visse in un’epoca travagliata e soffrì a lungo per gravi problemi di salute, manifestò sempre un grande ottimismo esaltando in tutta la sua opera la bellezza del mondo e la gioia di vivere.
Renoir era di umili origini e agli inizi – come gli altri Impressionisti – faticò duramente per guadagnarsi da vivere, ma a partire dai 40 anni la sua attività cominciò a prosperare tanto che negli ultimi anni di vita era ormai divenuto famoso e apprezzato in tutto il mondo. Nonostante il successo, però, restò sempre umile e modesto e anche quando era ormai vecchio e sofferente per i reumatismi continuò a lavorare per soddisfare il suo innato amore per l’arte. Nei primi lavori Renoir trasse ispirazione dalla vita parigina, mostrando giovani allegri e spensierati, mentre negli ultimi anni evocò una specie di paradiso terrestre, dipingendo nudi voluttuosi in una campagna incontaminata, riscaldata dal sole mediterraneo.
La lunga carriera artistica di Renoir può essere divisa in varie fasi. La prima corrisponde alla attività di decoratore di porcellane. Renoir acquisì una notevole capacità di “mestiere” che trasfonde ancora in molti lavori successivi, dal carattere puramente ornamentale. Dopo l’incontro con l’Impressionismo, Renoir cominciò a sentire il fascino e l’importanza della luce e questo caratterizzò tutti i quadri che dipinse dopo la metà del 1870. Al ritorno da un viaggio in Italia, negli anni Ottanta dell’Ottocento, si concentrò maggiormente sulla definizione delle forme. Nell’ultimo periodo, quando si trasferì in Provenza, il suo stile diventò più libero e la pennellata più indefinita.
Renoir determina una svolta importantissima nel corso della pittura europea, rivelando un nuovo modo di vedere e rappresentare la natura arricchendo la nostra conoscenza della realtà. Può essere considerato un naturalista tout court per il suo bisogno di sentire fisicamente la presenza vitale di ciò che dipinge e per il suo incontro diretto e immediato con il vero naturale; non c’è nessun gesto violento né una presa di possesso della realtà (come in Gustave Courbet) ma una carezza lieve, lirica e sensuale, perché Renoir ama tutto ciò che vive sulla terra. Il rapporto che instaura con la pittura è fatto di gioia e piacere, è un artista che ama ciò che vive, palpita e fa palpitare, per lui la sensibilità è divertimento. Nella rappresentazione di un fiore, ad esempio, dipingerebbe la vita insita dentro la natura, la linfa che fa crescere e germogliare le cose, la bellezza semplice ed eterna del mondo rinchiuso nel suo più infinitesimale frammento, sente le cose come partecipi di una unità indissolubile, un’unione di aria e luce, inserendosi così nel flusso della vita, in una concezione panteistica del mondo che traduce nei suoi dipinti in una rivelazione continua di colore e luce. Gli oggetti per Renoir sono spettacoli affascinanti di bellezza, in cui sono manifesti un’autentica gioia di vivere nei toni più luminosi e leggeri, una grazia squisita e delicata; si percepisce il calore umano dell’artista e un sentimento dolce, sognante, lirico teso verso la realtà.
Nelle sue opere si vede chiaramente come Renoir tenti di modellare continuamente la forma nella luce, inserendo i volumi degli oggetti in un’atmosfera fluida e diafana; c’è una palpitante armonia in cui le parti chiare e scure si fondono nella morbidezza delle gradazioni, nelle pennellate estremamente agili e leggere. Renoir dipinge un mondo fantastico e idillico che trova nella realtà, senza ricorrere alla mitologia: dipinti che hanno come soggetto una giovane su un’altalena, una donna sdraiata che legge il giornale, un ballo festoso al Moulin de la Galette, intime riunioni familiari e bagnanti nude. La sua pittura è spontanea, di una spontaneità sorgente da una conquista felice trovata dopo un lungo periodo di travaglio e ricerca, frutto della continua sperimentazione. Impiega dei modi disegnativi tradizionali nella larghezza di stesure e nella pienezza della materia (da qui l’influsso di Courbet). L’osservazione della realtà è ottica, atmosferica, pre-impressionista. Renoir cambia spesso i suoi strumenti stilistici, la dialettica stilistica che anima il suo percorso è in continuo mutamento, svolgendosi tra i termini di colore e forma offre una resa ottica e atmosferica del reale, tattile, plastica. Nei suoi dipinti non c’è una scelta assoluta ed esclusiva, c’è il tentativo di avvicinarsi alla verità della visione, alla verità dell’atmosfera sentimentale. Anche dopo le lezioni di Jean-Auguste-Dominique Ingres (diverso da Eugene Delacroix) sente di dover imparare molto tecnicamente. Nelle opere en plein-air sono presenti vibrazioni di luce, scintillii ed effetti quasi vaporosi che rivelano gli evidenti motivi dell’Impressionismo; tutti questi particolari però mancano nelle scene e nei ritratti di interni perché la forma è più plastica e il colore è più spesso. È importante ricordare anche l’amicizia e la comunione di vita che ebbe con gli Impressionisti: è determinate per la crescita di Renoir l’ammirazione per Courbet e Edouard Manet. L’Impressionismo non è una scuola, ma una naturale comunanza di artisti ansiosi di rinnovare una tradizione decaduta; Renoir si distingue per la libera disponibilità umana di fronte a qualsiasi tema e il calore della partecipazione al mondo contemporaneo. I suoi amici più vicini sono Monet, Camille Pissarro, Alfred Sisley, ma si distingue da loro per una più calda partecipazione sentimentale al motivo e una maggiore sontuosità cromatica. La verità ottica nella raffigurazione della realtà è fondamentale, sia per Renoir che per gli Impressionisti, essendo unita ad un sentimento che reinveste e filtra liricamente le immagini stesse della realtà, è un accordo tra occhio ed emozione, osservazione e trasfigurazione.



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domenica 17 ottobre 2010

Per una (ri)scoperta di Herbert Marcuse

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Cosa ha detto e cosa può ancora dirci oggi Herbert Marcuse (1898-l979)? Nonostante le sue opere risalgano ormai a diverse decine di anni fa, è auspicabile resistere alla tentazione di dichiararne l’obsolescenza poiché gli argormenti trattati (crisi delle ideologie; ruolo sociale della tecnica; dinamica degli istinti; rapporto arte-alta cultura) sono, per un verso, ancora attuali e necessitano di essere ulteriormente meditati (come dimostra il corrente smarrimento e disorientamento sociale) e, per l’altro, strettamente legati alla stessa natura dell’essere umano (non è un caso che nei maggiori pensatori occidentali ricorrano spesso temi affini(1)). Appare così comprensibile una sorta di ripresa di Marcuse, testimoniata da tutta una serie di recenti pubblicazioni(2).
Una delle tematiche marcusiane più note riguarda i legami tra politica e tecnica, o meglio, un determinato aspetto della tecnica, ovvero il suo impiego in chiave consumistica da cui deriva il suo aspetto falsamente razionale (razionale cioè nei procedimenti ma non negli scopi) che fa perdere alla tecnica il suo carattere di neutralità, ponendola esplicitamente al servizio di una determinata impostazione sociale. Da qui la nascita del noto “sistema” che dà luogo ad una modificazione del concetto di dominio.
Già nel saggio del 1942
Stato e individuo sotto il nazionalsocialismo(3) i1 totalitarismo hitleriano viene collegato a tre pietre angolari: industria, partito, esercito; è infatti la loro unione ad assicurare alla nazione un elevato grado di efficienza produttiva, la massimizzazione delle prestazioni; quindi, è della massima efficienza che si va in cerca: «Gli attuali gruppi al potere non credono nelle ideologie e nel potere misterioso della razza, ma seguiranno il Führer fintantoché egli resterà ciò che è stato fino ad ora, il simbolo vivente dell’efficienza(4)»; ma una mentalità che eleva l’efficienza produttiva a valore di vita non potrà che essere una mentalità pragmatico-calcolante: «Questa razionalità funziona secondo criteri di efficienza e precisione, ma nello stesso tempo è separata da tutto ciò che la lega ai bisogni umani e ai desideri individuali [che in Eros e civiltà verranno chiamati “bisogni autentici”], ed è interamente adattata ai bisogni di un apparato di dominio onnicomprensivo. I soggetti umani e il loro lavoro organizzato in modo burocratico sono solo mezzi per un fine oggettivo: il mantenimento dell’apparato con un grado sempre crescente d’efficienza(5)».
È sulla scia di tale impostazione che attualmente si assiste ad una nuova forma di totalitarismo consumistico tecnologicamente supportato: «Di fronte ai tratti totalitari di questa società, la nozione tradizionale della “neutralità” della tecnologia non può più essere sostenuta. La tecnologia come tale non può più essere isolata dall’uso cui è adibita: la società tecnologica è un sistema di dominio che tende ad operare sin dal momento in cui le tecniche sono concepite ed elaborate(6)» ed ancora «Il termine “totalitario”, infatti, non si applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione politico-tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti. Essa preclude per tal via l’emergere di una opposizione efficace contro l’insieme del sistema. Non soltanto una forma specifica di governo o di dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e di distribuzione, sistema che può essere benissimo compatibile con un “pluralismo” di partiti, di giornali, di “poteri controbilanciantesi”, ecc»(7). Ora, se la tecnica è, come Marcuse sostiene, asservita al sistema, come può questa liberarsi, contribuendo alla liberazione degli uomini? Come può, insomma, avere delle potenzialità di miglioramento delle condizioni di vita se è completamente assorbita dall’apparato di dominio? Per rispondere è necessario tenere a mente che per Marcuse la tecnica è sostanzialmente ambigua e neutrale, ovvero, è sprovvista di un telos(8), di un fine ultimo, essa è soltanto un’abilità che necessita di una razionalità esterna che la guidi. Dunque l’attuale modus essendi repressivo della tecnica deriva unicamente dall’attuale, “storico”, modo in cui gli uomini vivono la tecnica e, soprattutto, da ciò deriva che sia possibiIe un’altra forma storica della relazione uomo-tecnica. Concretamente, le possibilità per un nuovo utilizzo della tecnica poggiano sul concetto di “automazione”, che può, per la prima volta nella storia del genere umano, offrire un esonero dalla lotta per la sopravvivenza, favorendo il recupero di energie, spazi e tempi da destinare all’espansione delle facoltà psico-fisiche umane(9).
Probabilmente alcune critiche mosse a tale proposta muovono da una lettura troppo (o esclusivamente) politica di Marcuse(10): «Non si capisce infatti come una tecnica tutta fusa con il dominio possa riscattarsi e ricostruirsi libera; ovvero come si possa prima – con l’adialettica totalità di un mondo unidimensionale che fonde tecnica e dominio – mettersi contro Marx per poi evocare la prospettiva marxiana di un’organizzazione razionale (e dunque per Marx umana) del regno della necessità.
Ma non si comprende neppure come sia possibile governare politicamente una tecnica liberata. ll giomo infatti che essa fosse tutta permeata di fini liberatori si costituirebbe un altro universo unidimensionale; interventi orientativi e correttivi della politica sarebbero impotenti o superflui, essendo la tecnica già di per sé politica (...) Preoccupante risulta lo spazio della politica perché rimane in ombra tutto l’aspetto istituzionale (...) I temi si ritroveranno in parte in
One-Dimensional Man: ma a me sembra – prosegue Cerruti – che lì Marcuse abbia perduto la capacità di saldare aperture utopiche e sobrietà analitiche, sostituite invece da una visione olisticamente pessimistica della società e dalla rinuncia a dare alla prospettiva utopica una fondazione argomentativa anziché di rivolta morale od estetica»(11). Ma il progetto marcusiano, nonostante abbia profonde implicazioni politiche, è essenzialmente pre-politico, poiché poggia sulla possibilità di un nuovo stile di vita, emblematicamente rappresentato nei concetti di “negazione determinata” e “Grande Rifiuto”(12), sottointendendo che il sistema abbia dei limiti ampliabili, costituiti dai non integrati in esso. Infatti, ad esempio, il pericolo del rigenerarsi dell’unidimensionalità anche in una futura società liberata è scongiurato dalla (speranza della) presenza, in quella stessa futura società, di una forma mentis radicalmente diversa da quella attuale, esemplificata tramite il ruolo dell’arte che, anche in una futura società liberata, non smetterà mai di esercitare la funzione di quella “alienazione artistica”, di quello sguardo al non ancora, che assicurerà potenzialmente in eterno la bidimensionalità. Tutto ciò è stato definito con la felice espressione de La pemanenza della dimensione estetica(13). Ed è sempre per questo motivo che Marcuse non ha mai definito con esattezza le possibili istituzioni politiche future: per ora si può solo notare che il sistema ha delle “crepe” che potrebbero rappresentare l’origine di una nuova società, la quale può essere ricercata, fantasticata, immaginata, ma non ancora puntualmente definita: ogni periodo storico ha le proprie istituzioni perciò la concreta caratterizzazione di quelle future spetta a chi vivrà nel futuro, alle nuove generazioni. Inoltre, l’“anticapitalismo romantico” e la “ragione estetica” non esprimono in Marcuse degli aneliti spiritualistici e vaghi, bensi disegnano un progetto profondamente realistico: «I belive, in fact, that the ideas you have come here to examine today are in fact realistic; profoundly realistic, and in fact much more so than what we hear from many of our more “mature” political leaders today (...) My father belived in the unity of theory and praxis»(14); non si spiegherebbero altrimenti le parole di Benjamin con le quali Marcuse chiude L’uomo a una dimensione: «Nur um der Hoffnungslosen willen ist uns die Hoffnung gegeben (È solo a favore dei disperati che ci è data la speranza)»(15).Eros e civiltà(16), una delle opere più note al grande pubblico, segna l’incontro di Marcuse con le categorie proprie del pensiero freudiano; tale incontro non è solo culturalmente interessante, ma si rivela gravido di conseguenze in quanto, nell’interpretazione marcusiana, la psicoanalisi (al pari delle categorie filosofiche fondamentali del marxismo) è intesa come la conoscenza delle condizioni che rendono possibile la felicità, riconciliandola con la ragione, attraverso lo smascheramento della repressione degli istinti(17). Non è un caso se d’ora in poi Marcuse rivolgerà le sue critiche non tanto nei confronti della società capitalistica bensì verso il sistema, inteso come sua evoluzione: esso rappresenta una forma di dominio dell’uomo sull’uomo in cui una determinala impostazione economico-politica, che poggia sulla repressione delle fàcoltà umane si pone (e si impone) come diretta conseguenza dell’interiorizzazione psicologica dei modelli di dominio. Da tutto ciò nasce un nuovo ed originale modo d’interpretare l’origine della società contemporanea, le sue problematiche e le possibili soluzioni.
Il confronto di Marcuse con Freud è, fin dall’inizio, non lineare («La concezione dell’uomo che emerge dalla teoria freudiana, è il più irrefutabile atto di accusa della civiltà occidentale – ed è al tempo stesso, la difesa più incrollabile di questa civiltà»(18)) poiché se da un lato entrambi ritengono che per edificare una civiltà sia indispensabile una repressione istintuale («La civiltà comincia quando si è rinunciato efficacemente all’obiettivo primario alla soddisfazione integrale dei bisogni»(19)), dall’altro i due si allontanano quando Marcuse afferma che la repressione istintuale in atto in
questa specifica società è enormemente maggiore di quella che sarebbe sufficiente al mantenimento della società stessa. Dunque, se è vero che la società nasce con un atto di rinuncia alla soddisfazione istintuale integrale, è pur vero che nella società attuale è presente un surplus di repressione che trasforma la soddisfazione immediata in soddisfazione differita, il piacere in limitazione dello stesso, la gioia (gioco) in fatica (lavoro), la libertà e l’assenza di repressione in sicurezza garantita dal sistema, e ciò avviene in virtù dell’annientamento delle facoltà psico-fisiche umane, assimilate dal sistema e da questo ridotte all’unidimensionalità. «Freud ha descritto questo cambiamento come la trasformazione del principio del piacere in principio della realtà»(20), in un modo tale che principio di realtà ed establishment capitalistico coincidono.
Quanto alle motivazioni che inducono gli individui ad accettare ciò, è sufficiente ricordare come il regime hitleriano li ricompensava per i sacrifici richiesti e per la perdita della propria libertà: «Il nazionalsocialismo ha offerto due compensazioni: una nuova sicurezza economica ed una nuova
libertà di costumi (...) La sicurezza economica, se mai può essere considerata una forma di compensazione, deve essere integrata da una qualche forma di libertà, e il nazionalsocialismo ha garantito questa libertà abolendo alcuni fondamentali tabù sociali»(21). Pertanto, per Marcuse, questa non è la società ma una (storicamente) determinata società, nella quale la cultura borghese-capitalistica e l’industrializzazione hanno annullato l’antagonismo ratio-status quo.
Per Freud la formazione psicologica del singolo individuo (ontogenesi) è assimilabile a quella della civiltà tutta (filogenesi), ovvero, non vi è diversità fra psicologia individuale e psicologia sociale, quindi, cosi come l’individuo si forma a seguito di rinunce istintuali allo stesso modo si origina la civiltà; Marcuse, invece, separa l’ontogenesi dalla filogenesi poiché la prima dipende unicamente da fattori permanentemente connessi alla natura umana, mentre la seconda è influenzata anche da elementi esogeni che la modellano storicamente. Ma da Freud, Marcuse non trae solo un’innovativa visione del “disagio della civiltà” ma anche un’innovativa possibilità di superamento dello stesso. Se per Freud, Eros e Thanatos sono due istinti (rispettivamente di vita e di morte) inscindibili in ogni individuo, quindi nella società tutta, sono cioè due forze opposte ma entrambe necessarie all’uomo, per Marcuse il Thanatos potrebbe essere limitato al punto tale da mutare la sua stessa natura, rendendo necessario l’utilizzo di un altro termine per descrivere questo nuovo istinto di morte, quello di Nirvana: esso rappresenta la morte intesa ora non come sofferenza ma come conclusione serena di un’esistenza soddisfacente perché pacificata e tale pacificazione sarebbe il frutto dell’espansione dell’Eros che andrebbe ad occupare tutti gli spazi ed i tempi sottratti all’ormai inesistente Thanatos. «Se l’obiettivo fondamentale dell’istinto non è la fine della vita ma la fine del dolore – la mancanza di tensione – paradossalmente, in termini di istinto, il conflitto tra vita e morte si riduce tanto più quanto più la vita si avvicina allo stato di soddisfazione. In questo caso, principio del piacere e principio del Nirvana convergono (...) Non coloro che muoiono, ma coloro che muoiono prima di quanto debbano o vogliano morire, coloro che muoiono in agonia e tra sofferenze, costituiscono il grande atto di accusa contro la civiltà»(22); ed il veicolo di tale mutazione istintuale (e quindi forse anche antropologica) dell’intero stile di vita(23) sarebbe l’arte (inglobando in essa anche l’alta cultura). «
L’idea utopica di una realtà effettuale (Wirklichkeit) estetica deve resistere al senso del ridicolo, oggi necessariamente connesso ad essa. Poiché forse proprio in essa va mostrata la differenza qualitativa tra libertà e ordine stabilito»(24). Il fatto che Marcuse parli di una convergenza fra arte e tecnica non deve indurre a credere che, per l’autore, un’autentica liberazione si avrà solo quando la realtà sarà perfetta come l’arte: quest’ultima rappresenta un universale anelito di felicità il cui contenuto si articola storicamente di volta in volta; la ricchezza dell’arte non risiede né nelle opere né nei loro contenuti, risiede invece nei presupposti stessi dell’arte, dei presupposti meta-estetici secondo i quali solo il bello può veicolare la liberazione materiale e la felicità. La bellezza artistica, insomma, non contiene dei traguardi dati che devono essere ottenuti, bensi essa designa “solamente” una precondizione (mentale e, probabilmente, emozionale) indispensabile per mutare radicalmente la Weltanschauung dominante, ed un segno evidente di tale mutazione si avrebbe allorché lo strumento politica fosse utilizzato con finalità liberatrici, superando quindi sia i connotati palesemente repressivi tipici di un regime, sia la “tolleranza repressiva”(25) capitalistico-consumistica: «L’attività dell’arte deve, nel suo punto di rottura, svelare la povertà estrema dell’esistenza umana (e della natura), spogliata di tutti i parafernali della cultura di massa monopolistica; in tutto e per tutto sola, nell’abisso della distruzione, della disperazione e della libertà. L’attività più rivoluzionaria dell’arte deve essere nello stesso tempo la più esoterica, la più anticollettivistica, perché l’obiettivo della rivoluzione è la libertà individuale»(26). Dunque in prima analisi, liberazione = libertà individuale, per raggiungere la quale «L’abolizione del modo di produzione capitalistico, la socializzazione, la liquidazione delle classi sono solo le pre-condizioni per la liberazione dell’individuo»(27), ecco perché «Il resto non spetta all’artista. La realizzazione, il cambiamento reale che libererebbero uomini e cose, rimangono come compiti dell’azione politica; l’artista non vi partecipa come artista»(28). E nel tentativo di dare una definizione esauriente dell’idea di liberazione risulta evidente come in Marcuse arte, politica, psicologia e filosofia si fondano nell’ambito di un progetto unitario, infatti la liberazione, di cui l’arte è ancella, è raggiungibile «solo quando ognuno ha secondo secondo i suoi bisogni (...) Solo il vero contenuto materialistico della 1ibertà nega ogni repressione, sublimazione, internalizzazione, della società di classe. Questa libertà è la realizzazione del pieno sviluppo dei bisogni, dei desideri e delle potenzialità dell’uomo e, nello stesso tempo, la sua liberazione dall’apparato onnipervasivo di produzione, distribuzione e amministrazione che oggi irreggimenta la sua vita»(29).


1) Ad esempio è significativo notare come il concetto di Eros, centrale in tutta l’opera di Freud, fosse già stato "esplorato’’ da Platone nel Simposio.
2) Cfr. H. Marcuse, Davanti al nazismo, Laterza, Roma-Bari 2001. Contiene: La filosofia tedesca nel ventesimo secolo (1940), Stato e individuo sotto il nazionalsocialismo (1942), La nuova mentalità tedesca (1942), Presentazione del nemico (1942-1943), Note su Aragon. Arte e politica nell’era totalitaria (1945), 33 tesi (1947), Carteggio con Heidegger (1947-1948). Ed ancora, sono stati ultimamente pubblicati gli Atti del Convegno su Marcuse tenutosi al Roma nel 1998, in occasione del centenario della nascita dell’Autore, ed ora raccolti in: L. Casini (a cura di), Eros, utopia e rivolta, FrancoAngeli, Milano 2004. Contiene: Linke rontantik. Motives eines romantischen Antikapitalismus bei Herbert Marcuse di R. Wiggershaus, La critica dell’organizzazione industriale del mondo moderno di G. Bedeschi, Tecnica e politica, un problema del Novecento di F. Cerruti, Istituzioni e trascendenza in Herbert Murcuse di G. Palombella, La società come opera d’arte di L. Casini, Ontologia e libertà. Una rilettura di Herbert Marcuse di G. Marramao, ‘‘Disaggio della civiltà’’ o vittoria dell’eros? Marcuse e Freud di F. S. Trincia, Marcuse e i classici tedeschi di R. Ascarelli, Felicità e ragione. ll contributo di Marcuse all’idea di teoria critica di S. Petrucciani, Estetica e rivoluzione: la funzione politica dell’ arte in Herbert Marcuse (1945-1955) di E. Tebano, Der subversive Leib und die Frage nach einer ästhetischen Vernunft. Überlegungen in Anschluss an Herbert Marcuse di B. Brick.
3) H. Marcuse, Stato e inviduo sotto il nazionalsocialismo in Davanti al nazismo, Laterza, Roma-Bari, 2001.
4) Ibidem, p.23.
5) Ibidem, p. 24, parentesi quadra mia.
6) H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999, p. 14.
7) Ibidem, p. 17.
8) Cfr. M. T. Pansera, La critica della ragione tecnica in Marcuse, in L’uomo e i sentieri della tecnica, Armando, Roma 1998.
9) Cfr. H. Marcuse, La catastrofe della liberazione, in L’ uomo a una dimensione, cit.
10) «Se c’è un progetto “massimo” dunque, che scaturisce dalla lezione marcusiana, questo non era e non è semplicemente un caduco prograrnma politico, ma innanzitutto, un programma meta-filosofico» G. Palombella, Istituzioni e trascendenza in Herbert Marcuse, in L. Casini (a cura di), Eros, utopia e rivolta, cit. p. 60.
11) F. Cerruti, Tecnica e politica, un problema del Novecento, in L. Casini (a cura di), Eros, utopia e rivolta, cit., pp. 43-46.
12) Cfr. H. Marcuse, Ragione e rivoluzione, Il Mulino, Bologna 1997.
13) L. Casini, La permanenza della dimensione estetica, in Eros e utopia, Carocci, Roma 1999.
14) P. Marcuse, Saluto di Peter Marcuse (apertura del Convegno su Marcuse tenutosi a Roma nel 1998), in L. Casini (a cura di), Eros, utopia e rivolta, cit., p. 16.
15) H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 260.
16) H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1967.
17) Non si deve però dimenticare che in Marcuse esiste anche una critica del marxismo ridottosi in ideologia positiva (Soviet Marxism, Guanda, Parma 1968) e del freudismo inteso come teoria dell’integrazione psicologica dell’individuo nello status quo, a causa della scissione tra “teoria” e “terapia” psicoanalitica (Epilogo: Critica del revisionismo neofreudiano, in Eros e civiltà, cit.)
18) H. Marcuse, Eros e civiltà, cit., p. 59.
19) Ivi.
20) lbidem, p. 60.
21) H. Marcuse, Stato e inviduo sotto il nazionalsocialismo, in Davanti al nazismo, cit., p. 32.
22) H. Marcuse, Eros e civiltà. cit., p. 247.
23) A proposito delle dinamiche di Eros, Thanatos e Nirvana si veda La trasformazione della sessualità in Eros, e Eros e Thanatos, in Ibidem.
24) H. Marcuse, Die Gesellschaft als Kunstwerk, in L. Casini (a cura di), Eros, utopia e rivolta, cit., p. 85.
25) Cfr. H. Marcuse, Tolleranza repressiva, in La dimensione estetica e altri scritti, Guerini, Milano 2002.
26) H. Marcuse, Note su Aragon. Arte e politica nell’era totalitaria, in Davanti al nazismo, cit., p. 95, corsivo mio.
27) Ivi.
28) H. Marcuse, L’ arte nella società a una dimensione, in Critica della società repressiva, Feltrinelli, Milano 1968, p. 148.
29) H. Marcuse, Note su Aragon. Arte e politica nell’era totalitaria, in Davanti al nazismo, cit., pp. 95-96.

(«Prospettiva persona», n. 49/50, 2004)

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