mercoledì 24 ottobre 2018

I versi di Oliviero Amandola

di Chiara Taormina (chiara.taormina@gmail.com)

Le parole tradotte in poesia racchiudono sensazioni intime ed esternazioni di un vissuto. Il poeta Amandola ha uno scrigno di valori che interpreta stoicamente, negando il vuoto intorno a sé e rappresentando l’universo come un grande contenitore omogeneo, alimentato dal soffio vitale che genera emozioni. I suoi versi propendono verso la visione romantica in cui la natura “è la veste vivente della divinità”: 
Qui, l’autunno muove le montagne, le prime nebbie 
nascondono i suoni delle campane, altre volte, invece,
fuori dalla finestra si alzano occhi di alberi.
La sua poesia è il silenzio dell’anima, il luogo della meditazione interiore, il viaggio verso la libertà di essere interprete e filosofo della vita.
L’archè dei versi è l’amore per le cose semplici, per la famiglia e gli affetti, vivendo nostalgicamente i ricordi che fanno di ogni vero poeta un attento ascoltatore della propria anima.
Tagore diceva: Il fiore si nasconde nell’erba, ma il vento sparge il suo profumo. 
Così Amandola sparge il profumo di ogni piccolo bocciolo del cuore e non dimentica di dipingere i contorni di una poesia legata alla natura, alle vibrazioni di un animo nobile.
Le radici della propria appartenenza sono importanti nel percorso dell’introspezione e così  in una lirica per il padre, il poeta recita: 
solo perché il giorno è finito
e mi fa paura pensare che tu stia ordinando le tue cose
per far spazio ad altre ben più grandi di un semplice trasloco.
L’immensità dei legami di sangue, la paura del destino e della perdita sono la chiave di lettura di questi versi così intensi, ma equilibrati e delicati, in armonia con il tutto che regola questo mondo e le leggi dell’esistenza.
Ed è l’incertezza e la mancanza di prevaricazione del sapere che rendono grandi questi versi, nel loro dolore amaro e dolce allo stesso tempo, nutriti di autenticità e spogli di malizia, concatenati in una musica costante e straripante, come un suono che si propaga senza esitazione dal centro dell’Io. Nel chiudere con la frase celebre di un grande del passato, posso solo auguravi una buona lettura alla scoperta di un poeta contemporaneo di valore e dalle grandi qualità umane.
Sfiderà il destino, disprezzerà la morte e spingerà le sue speranze oltre la grazia, la saggezza e la peritanza. Voi lo sapete, esser troppo sicuri è il nemico peggiore degli uomini.
(William Shakespeare)

giovedì 11 ottobre 2018

Su Heidegger, Novalis e l’arte

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Ho recentemente intrattenuto una corrispondenza estremamente piacevole con un giovane dalla mentalità genuinamente filosofica, Michele Ragno. 
Lui mi ha sollecitato sul valore dell’arte in Heidegger e Novalis. Sulla delusione, del primo, per un’arte che non è più percepita come espressione del vero e l’auspicio, del secondo, ad una interazione poetica con il mondo, e se queste due prospettive possano ritenersi affini.
Di seguito, un estratto della mia risposta.

***

La questione che poni è assolutamente affascinante – e certamente non esauribile in una corrispondenza come questa.
Come credo che pensi anche te, rispondono subito: sì, si può dire che la posizione di Heidegger sia vicinissima a quella di Novalis. D’altronde Heidegger era un lettore di Novalis, lo cita nell’Introduzione alla Metafisica: “Novalis afferma: La filosofia è propriamente nostalgia (…). Colui che non conosce la nostalgia non sa filosofare”. 
Quel che cambia è la prospettiva da cui osservano la questione, ma la osservano con la stessa sensibilità.
Ovvero. Heidegger ha uno sguardo più “sistemico”, rileva il distanziamento, l’espulsione dell’arte e del pensiero autentici dal mondo (discorso che nel secolo successivo verrà sviluppato nella critica francofortese alla cultura di massa, all’industria dell’intrattenimento, al kitsch, insomma alla falsa arte e al falso pensiero). In sintesi, se L’essenza dell’opera d’arte riposa sulla fidatezza (Verlässigkeit), che a sua volta dischiude L’essenza della verità, che non è un mero essere presente della verità (affermativamente), ma un non-esser-nascosto, allora l’oblio dell’Essere significa non riuscire a percepire quel non-esser-nascosto, quindi la verità (a-letheia), quindi la fidatezza che proprio su una simile verità riposa e dunque, infine, l’arte.
Novalis direi che ha uno sguardo più “poetico”, rileva lo stesso problema, ma lo osserva da dentro la poesia.