venerdì 7 agosto 2009

Identità

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Viviamo in un mondo profondamente mutato, in tutti i versanti, rispetto al recente passato; i cambiamenti, mai da intendersi come momenti d'approdo a posizioni definitive, cristallizzate, ma come anelli di una catena potenzialmente infinita, per generare conseguenze positive, devono essere compresi da chi (volente o nolente) si trova a viverli; i brevi testi, le citazioni e le proposte di lettura seguenti, vogliono essere un piccolo contributo in tal senso.

"Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che "vivere vuol dire essere partigiani". Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

L'indifferenza è il peso morto della storia. E' la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica.
L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E' la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all'intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all'iniziativa dei pochi che operano, quanto all'indifferenza, all'assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell'ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un'epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell'ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch'io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.
I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.
Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l'attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti."

Antonio Gramsci, Indifferenti

"Le identità ormai svolazzano liberamente e sta ai singoli individui afferrarle al volo usando le proprie capacità e i propri strumenti.
La voglia di identità nasce dal desiderio di sicurezza, esso stesso un sentimento ambiguo. Per quanto esaltante possa essere sul breve periodo, per quanto colmo di promesse e di vaghe premonizioni di esperienze ancora inedite, questo sentimento, lasciato libero di fluttuare all'interno di uno spazio dai contorni indefiniti, in un ambiente ostinatamente e fastidiosamente "né carne né pesce", diventa sul lungo periodo una condizione sfibrante e ansiogena. D'altra parte, una posizione fissa fra un'infinità di possibilità non è una prospettiva molto più allettante. Nella nostra epoca di modernità liquida in cui l'eroe popolare è l'individuo libero di fluttuare senza intralci, l'essere "fissati", "identificati" inflessibilmente e senza possibilità di ripensamento, diventa sempre più impopolare."


Zygmunt Bauman, Intervista sull'identità

Soltanto il sapere che esita conta. Questo è ciò che, più di ogni alta cosa, manca ai computer: l'esitazione
E. Canetti, Un regno di matite

Quando certe abitudini secolari crollano, quando certi tipi di vita scompaiono, quando certe vecchie solidarietà rovinano, certamente capita con frequenza che si produca una crisi d'identità
C. Levi-Strauss, L'identità

Siamo di fronte a un'identità mescolata e variopinta, cosmopolita e nello stesso tempo provinciale
U. Beck, Lo sguardo cosmopolita

L'identità dell'individuo, sempre intrecciata a identità collettive, può stabilizzarsi solo in una rete culturale: di questa, come della madrelingua, non ci può appropriare in senso privatistico
J. Habermas, Multiculturalismo

M. Augé, Il senso degli altri

Z. Bauman, L'enigma multiculturale

F. Remotti, Contro l'identità

A. Sen, Globalizzazione e libertà e La democrazia degli altri

P. A. Taguieff, Cosmopolitismo e nuovi razzismi

A. Touraine, Libertà, uguaglianza, diversità

T. Todorov, La conquista dell'America

M. Walzer, Sulla tolleranza

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mercoledì 5 agosto 2009

Libertà e (Dis)Uguaglianza non come scopi in sé ma come mezzi di Giustizia

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

La libertà è (così come l’eguaglianza) uno dei valori fondamentali della democrazia, cui essa si ispira e che tenta di concretizzare, è allora interessante ricordare come Norberto Bobbio distingua nel concetto di libertà due diverse sfumature, definite come "libertà negativa" e "libertà positiva". Secondo Bobbio, la libertà negativa è quella in cui un soggetto ha la possibilità di agire senza essere impedito e/o costretto da altri soggetti, è la libertà d’azione, è definibile come "libertà da", è la forma di libertà dei moderni, ha il suo prototipo nelle libertà civili, e nasce da autori quali Thomas Hobbes, John Locke e Charles de Secondat Montesquieu; la libertà positiva è quella in cui un soggetto ha la possibilità di orientare il proprio volere verso uno scopo senza essere determinato dal volere altrui, è la libertà della volontà, è definibile come “libertà di”, è la forma di libertà degli antichi, e nasce da autori quali Jean-Jacques Rousseau, Immanuel Kant e G. W. F. Hegel. Il punto di contatto fra queste due forme di libertà risiede nel fatto che l’una implica sempre l’altra, infatti

La ‘libertà da’ e la ‘libertà di’ si implicano nel senso che, essendo due aspetti della stessa situazione, l’uno non può stare senza l’altro o, in altre parole, in una situazione concreta nessuno può essere ‘libero da…’ senza essere ‘libero di…’ e viceversa […] non vi è ‘libertà da’ che non liberi una o più ‘libertà di’, così come non vi è una ‘libertà di’ che non sia una conseguenza di una o più ‘libertà da’(1)

Ora, la libertà, indipendentemente dalle sfumature di significato sopraesposte, risulta sempre soppressa dall’instaurazione di una qualsiasi forma di "potenza", come ad esempio (e sono queste per Bobbio quelle che hanno più profondamente segnato la storia dell’Occidente) la potenza ideologica (quella cioè delle grandi concezioni del mondo), la potenza economica (quella inerente al possesso delle ricchezze) e la potenza politica (quella relativa al controllo delle istituzioni); dunque, non c’è da meravigliarsi che le principali lotte di liberazione combattute, sia a livello teoretico che pratico, in Occidente, siano quelle contro ogni forma di dogmatismo, contro le soggezioni dell’economia e contro la monopolizzazione della politica da parte del/dei sovrano/i di turno. 
Si potrebbero addirittura schematizzare le suddette linee di tendenza come segue:

"Potenza":
ideologica.
"Mezzi di coercizione": 
idee, ideali, concezioni del mondo. 
"Lotta per la libertà come": 
liberazione dalla superstizione religiosa (libertà di pensiero contro la Chiesa e le Chiese).

"Potenza":
economica.
"Mezzi di coercizione":
possesso della ricchezza.
"Lotta per la libertà come":
liberazione dai vincoli di una struttura economica (libertà di disposizione dei beni e libertà di commercio contro il sistema feudale).

"Potenza":
politica.
"Mezzi di coercizione":
possesso della forza.
"Lotta per la libertà come":
liberazione da un sistema politico e legislativo concentrato in una ristretta cerchia di dominanti (libertà civili e libertà politica contro lo Stato assoluto).

"Summa della lotta per la libertà come": lotta contro il dispotismo sotto la triplice forma di dispotismo sacerdotale, feudale e principesco.

Ciò che invece sorprende Bobbio, è che l’Occidente, nel tentativo di liberarsi da quelle potenze, non sia pervenuto all’instaurazione di una forma di autentica libertà, bensì al liberalismo, che Bobbio considera come

Un certo modo d’intendere e di attuare la libertà che, nello stesso tempo in cui rompeva catene antiche, altre, e ancor più dure e forti, ne forgiava e ne ribadiva(2) 

E le nuove catene alle quali Bobbio si riferisce sono quelle della tecnica e della scienza, di quei fattori, cioè, che pur non provocando la perdita delle libertà civili e politiche, determinano la mancanza della libertà di sviluppare tutte le facoltà della natura umana; in tale modo, ciò che provocano non è un semplice processo di asservimento, ma una generale dinamica di disumanizzazione che si manifesta, a livello psicologico come conformismo di massa, a livello economico come mercificazione e reificazione di ogni relazione umana e a livello politico come disinteresse verso ogni forma di partecipazione attiva ai processi decisionali. E’ questo, per Bobbio, il totalitarismo (prodotto tipico della nostra epoca), il quale

non è soltanto un tipo di sistema politico (onde non è del tutto corretto parlare di "Stato totalitario") ma è un tipo di sistema sociale, nella sua globalità, o, se si vuole, è un tipo di Stato solo nel senso in cui, essendo cancellata la distinzione tra società civile e Stato da cui è stata contraddistinta la storia dello Stato moderno, la società intera si risolve nello Stato, è una società integralmente statalizzata […] Ma a differenza delle società sinora esistite […] (essa percepisce la sua mancanza di libertà) non più come una privazione ma come l’appagamento di un bisogno, il bisogno appunto di non essere liberi: quel che in altri tempi era la fuga dalla schiavitù si convertirebbe nel suo contrario, nella "fuga dalla libertà"(3)

Paradossalmente quindi, la sostanza dell’odierna (apparente) libertà, non è la libertà. 

A differenza di quest’ultima, l’eguaglianza non è una qualità od una proprietà di un soggetto (fisico e/o morale), ma è una relazione fra soggetti, il cui contenuto è storicamente condizionato; pertanto anche il suo contrario, la disuguaglianza, non è altro che una relazione che può essere riempita dei più diversi significati, sempre storicamente determinati(4)

Ma, prosegue Bobbio, esiste un punto di contatto fra questi due opposti, entrambi infatti devono essere tesi al raggiungimento della giustizia che, in senso lato, consiste nella possibilità di ciascuno di sviluppare le proprie capacità. Eguaglianza e disuguaglianza, insomma, sono solo delle modalità relazionali, e «ciò che dà a questo rapporto un valore, cioè ne fa un fine umanamente desiderabile, è l’essere giusto»(5). Conseguentemente, Bobbio rifiuta sia il liberalismo (sbilanciato a favore della disuguaglianza), tendente ad uno Stato limitato e garantista, che l’egualitarismo (sbilanciato a favore dell’eguaglianza), tendente ad uno Stato espansionista ed interventista, ritenendo invece la democrazia l’unico regime in grado di conciliare armonicamente la "qualità" della libertà con la "relazione" della (dis)eguaglianza.

1) N. Bobbio, (voce) Libertà, in «Enciclopedia del Novecento», 1979, vol. 3, ristampata in N. Bobbio, Democrazia Totalitarismo Populismo, Nuova Cultura, Roma 2003, pp. 60 e 61, esemplificando: «Quando io dico […] che sono ‘libero di’ esprimere le mie opinioni, dico, e non posso non dire, nello stesso tempo che sono ‘libero da’ una legge che istituisce la censura preventiva. Così come quando io dico che sono ‘libero da’ qualsiasi norma che limiti il mio diritto di voto, dico e non posso non dire nello stesso tempo che, sono ‘libero di’ votare», Ivi; su ciò cfr. M. Ravelli (cura), Norberto Bobbio: maestro di democrazia e di libertà, Cittadella, Assisi 2005.
2) N. Bobbio, Democrazia Totalitarismo Populismo, cit., p. 83.
3) Ibidem, pp. 87 e 90, seconda parentesi mia.
4) Ecco perché, anche nel campione dell’egualitarismo, Jean Jacques Rousseau, si trova uno spunto a favore delle disuguaglianze, quelle naturali che, in quanto tali, vengono considerate benefiche o, perlomeno, moralmente indifferenti, cfr. J. J. Rousseau, Discorso sull’origine delle disuguaglianze fra gli uomini, Feltrinelli, Milano 1997; cfr. J. Carter (cura), L’idea di uguaglianza, Feltrinelli, Milano 2001.
5) N. Bobbio, Democrazia Totalitarismo Populismo, cit., p. 10.

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lunedì 3 agosto 2009

Per Bukowski Topolino è un nazista


di Erwin de Greef (erwindegreef@libero.it)

io non ero un gran genio, ma ero lontano da Atlanta, non ero ancora un cadavere, avevo delle belle mani e molta strada da fare.

Ch. Bukowski, Taccuino di un vecchio porco

In sintesi

le mie uniche gioie erano mangiare, bere birra e andare a letto con Sarah. Non quel che si dice una gran vita, ma tocca accontentarsi.

Ch. Bukowski, Sei pollici

In prosa, la sua idea fu di scrivere in forma spontanea e aperta, a volte anche ignorando il rischio – molto spesso, senz’altro calcolato – di sconcertare il lettore oltre ogni limite. In Bukowski c’è una smisurata vena poetica e – come conseguenza per la tecnica che adopera – anche grande narrativa.

La prosa segue cronologicamente la sua attività di poeta. A spingerlo in quella direzione contribuirono, in diverso ordine e grado: l’urgenza di una comunicazione rapida, immediata, diretta, sempre disincantata, dissacrante, ironica, e moralizzante – proprio così. Oltre il cesellamento, la concisione, e la densità, che sono il senso della lirica.
Bukowski è soprattutto un poeta prestato alla narrativa. Affermazione la mia che, in modo consapevole e civettuolo, gli avrebbe fatto storcere il muso: “non vi venga in mente che sono un poeta”, avrebbe ammonito in Un cavallo da 340 dollari e una puttana da cento, poesia rivisitata in chiave narrativa in Fior di cavallo.
“Poeta, no, grazie”, proclama lui – giocando a sottrarre come i poeti di razza. Di essere comunque uno scrittore ne era in qualche modo consapevole. Col tratto distinguibile della sua forte vena autoironica, quasi di autocensura, comunque in forma transitiva, in Altra storia di cavalli, uno dei tanti momenti narrativi in cui discute questa cosa con se stesso, in punta di piedi, la butta giù così:
“scrivere? a che diavolo serve? eppure c’è qualcuno che s’incazza o si preoccupa per quello che scrivo. mi guardo intorno, c’è una macchina da scrivere, come no, nella stanza. io sono dunque, in qualche modo, uno scrittore. e esiste anche un altro mondo, altre manovre, altri sistemi, altri gruppi, altri valori”.
Il mondo altro rispetto a quello bukowskiano, illusorio, tutto luci e neon, è il sogno americano in cui, annota in I lavoratori: “qualche volta uno muore/ o impazzisce/ e allora da Fuori/ ne arriva uno nuovo/ per sfruttare la sua/ grande occasione”.

Nel mondo straccione, pervertito, liquido, drogato e autentico di Bukowski – il poeta, lo scrittore, il narratore, l’uomo – a proposito di pazzia e di manicomi, in cui, detto per inciso, lui fu rinchiuso per un breve periodo, nel racconto Un brutto viaggio commenta: “e i recenti tagli ordinati dal nostro governatore al bilancio dei manicomi, in California, mi fanno capire che: la società non ritiene suo dovere curare quelli che la società stessa ha fatto impazzire, specie in periodi di strettezze e inflazione e supertasse”.

Bukowski è più interessato ad argomentare su tematiche forti e socialmente rilevanti piuttosto che su altro. È dalla parte dei perdenti, degl’indigenti, delle persone fuori del sistema, quelle come lui. In Animali in libertà descrive questo suo sentimento: “Desideravo solo un posto dove sdraiarmi e aspettare. Non provavo alcun rancore verso la società, poiché non ne facevo parte. A ciò mi ero da tempo adattato”.
A Carol, l’affascinate protagonista di Animali in libertà, fa dire: “Vedi… non so come esprimermi. È una cosa di cui sogno spesso. Il mondo è stanco. La sua fine è vicina. La gente ha perso il gusto della vita… si son fatti di sasso. Nulla conta più niente. Sono stufi di se stessi. Bramano la morte e la loro preghiera sarà esaurita”.

Il vero, unico, oggetto di osservazione di Bukowski è la società che vive al margine. I sistemi di potere preconfezionati, usa e getta, non lo intricano. Anzi, lo annoiano, gli fanno venire il nervoso. Non lo intricano neppure i poeti e la poesia. “c’è: ecco UNA COSA che non va – chiarisce in Quattro chiacchiere in pace – con gli intellettuali e gli scrittori: sono sensibili solo alle loro gioie e ai loro dolori. il che è normale ma schifoso”.

In Occhi come il cielo, tra i racconti più interessanti per capire la poetica di Bukowski, puntualizza: “la poesia costituisce ancora la più grossa “cosa snob” del settore artistico: piccoli gruppi di poeti lottano tra loro per il potere”.

L’autore ritorna sul tema in Un uomo celebre: “ma non si tratta di competizione. La grande arte non è mai competizione, affatto. La grande arte è tutto quello che vi pare, che ne so, il governo o i bambini o pittori o finocchi, qualsiasi cosa”.

Poco più oltre, sempre in Occhi come il cielo, riflette sul valore della poesia. Riflessione, mi sa, molto utile anche al nostro sistema: “in sostanza, la poesia generalmente accettata, oggi, ha una specie di rivestimento di vetro, liscio e scivoloso: all’interno dell’involucro, consiste in una giustapposizione di parole, una dopo l’altra, una somma metallica e inumana di parole, semi-arcane. Si tratta di una poesia per milionari e gente grassa e oziosa, quindi ha i suoi fautori e sopravvive perché (qui sta il segreto) chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori e vada a farsi friggere”.
Il caso volle anche che l’amico e giornalista John Bryan lo invitasse a scrivere senza censura nel periodico underground “Open City” in una città, Los Angeles, in uno dei tanti centri metropolitani, dentro i confini fisici e culturali di una nazione, gli States, in fase di normalizzazione dopo la grande sbornia del movimento hippy.
Lui stesso, nella Premessa a Taccuino di un vecchio porco, ci ironizza su: “È tutto strano, molto strano. Pensate solo che se non avessero cancellato il pisellino e le palline a Gesù Bambino, non leggereste queste pagine. Così, allegria”.
Come una macchina fotografica, Bukowski immortala in vividi dagherrotipi di cellulosa a buon mercato quello che scorge camminando per le strade bagnate dal sole vespertino e dall’acqua piovana, spesso sporche, sempre povere, da dietro le tendine abbassate di una qualunque cucina o dalle finestre opache del bar dietro l’angolo.
Sono le strade di Mr. America, comprese quelle di London e Kerouac, raccontate in Crocifisso nel pugno d’un morto: “giù nella sabbia e tra i vicoli,/ questa terra trafitta, percossa, divisa,/ stretta come un crocifisso nel pugno d’un morto,/ questa terra comprata, rivenduta, ricomprata/ e ancora venduta, le guerre finite da un pezzo,/ tornati gli spagnoli nella Spagna lontana/ sempre nel bussolotto, e adesso/ agenti immobiliari, lottizzatori, proprietari terrieri, costruttori/ di autostrade che discutono”.
Il palcoscenico dove fare recitare se stesso, principalmente col suo vero nome o con lo pseudonimo di Henry Chinaski, e, con lui, i fuorilegge, le puttane, gli ubriaconi, i diseredati, i reietti, i subnormali, i pazzi, la tanta gente – la sua – dell’America clandestina è soprattutto L.A.
In questa città, una sera, ad una festa, nel racconto Il gran gioco dell’erba, Bukowski s’imbatte in un paio di adepti della streppa: “tutti costoro mi fanno pensare, in certo senso, a quelle vecchiette che, all’angolo della via, vendono “La Torre di Guardia.” questi adepti della streppa, LSD, marijuana, eroina, hascish e compagnia bella, hanno la stessa mentalità dei Testimoni di Geova: o sei con noi, amico, o sennò sei fuori, uomo, sei morto. questo è il credo di tutti gli utenti della droga. sfido che vengano arrestati di continuo. mica son buoni a drogarsi in silenzio, no, devono farlo sapere a tutti che loro fanno parte della consorteria. inoltre, tendono a collegare la streppa con l’Arte, con il Sesso, con l’ambiente d’avanguardia e del dissenso. il loro Acido Dio, Timothy Leary, gli dice: ‘lasciate tutto e seguitemi.’ poi lui prende in affitto un teatro e gli fa pagare 5 dollari a testa, per andarlo a sentire. poi arriva Ginsberg e si schiera al fianco di Leary. quindi Ginsberg proclama che Bob Dylan è un grande poeta. sanno farsi pubblicità, questi lupi della streppa. sempre a galla sulle cronache. oh America”.
In Appunti sulla peste, in una giornata qualunque, aspettando il formarsi della società utopistica, marciando in macchina con sua figlia Tina – lei quattro anni, lui un po’ più vecchio – prende appunti per un pezzo profanante degno di Open Pussy (?), un racconto (?), o meglio, come spesso gli succede di fare, una poesia in prosa:
“per adesso dobbiamo fare i conti con ogni sorta di svitati e di fottuti, vaste zone di depressa umanità, orde di mortidifame, i neri e i bianchi e i rossi, le Bombe addormentate, i love-ins, gli hippies, i non-tanto-hippies, Johnson, scarafaggi ad Albuquerque, cattiva birra, lo scolo, editoriali di merda, questo e quello, e la Peste”.
Non c’è differenza, in una sortita nichilista, per lui. Appunta in La politica è come cercare di inculare un gatto: “la differenza tra Democrazia e Dittatura è che in Democrazia prima si vota e poi si prendono ordini; in una Dittatura non c’è bisogno di sprecare il tempo andando a votare”.

Bukowski racconta, in prosa in poesia, come poeta come narratore, la frantumazione di una società fatta di cartone, come la sua camera da un dollaro e 50 cent a settimana, dove la sua prospettiva, il punto di vista è sempre da dentro verso fuori, è quella di un EREMITA IN CITTÀ:
“Oziando nella foresta della mia stanza/ con alberi di tungsteno; la civetta del caffè bollente,/ ragnatele brinate d’oro sopra le finestre/ lo sguardo fisso all’inferno che c’è fuori”.
No, la gente, quella proprio non lo interessa, non gli piace. Lo scrive ogni quando se ne rammenta che potrebbe starsene da solo, neppure due soldi di sorca per sentirsi scorrere la vita dentro: “non è malvagia/ la gente nei musei delle cere congelata nella sua migliore/ sterilità, orribile ma non malvagia”, annota in Qualcosa per i soffietti, le suore, i garzoni dei droghieri e te… poi, ripreso e ambientato in un qualunque cortile di mattatoio in Kid polvere-di-stelle.
E quando sta seduto sul treno per raggiungere l’ippodromo per abbandonarsi all’ebbrezza della volata finale, lui lo sa, registra in vivere, che: “nessuno aveva altro da fare che guardare/ la mia faccia/ e io sono così stanco/ che lo sanno quando mi guardano in faccia/ che li/ odio/ e allora odiano me/ e vorrebbero/ ammazzarmi/ ma non lo fanno”.

Questo pensiero di essere ucciso, quasi un’ossessione, ritorna con estrema lucidità in La mia pazzia, un racconto confessione molto intenso: “Ero confuso, ma non infelice. Non ero cattivo. Solo che non riuscivo a ricavarne niente da quello che avevo intorno. La mia violenza si contrapponeva all’evidenza del tranello, io gridavo e loro non capivano. E anche nelle risse più furibonde, guardavo il mio avversario e pensavo: perché è arrabbiato? Vuole uccidermi. Allora dovevo tirare pugni per liberarmi dalla bestia che avevo dentro. La gente non ha senso dell’umorismo, si prendono tutti così cazzutamente sul serio”.

Se il mondo fuori è quello là, Bukowski preferisce starsene rintanato nel suo cantuccio (povero e di periferia) a bere le sue birre e quant’altro, a farsi una sana scopata, o almeno ci prova, e a rimanere dentro il letto, sfatto, con le lenzuola sporche di sbroda, il più delle volte. In altre, Bukowski sogna e non sempre – prende nota in CHE UOMO ERO – i suoi risvegli sono i più graditi:

“mi sono disteso e ho sognato/ di quand’ero bambino/ e giocavo con la mia pistola giocattolo/ e battevo tutti alle biglie,/ e quando mi sono svegliato/ le mie armi erano sparite/ e io ero legato mani e piedi/ proprio come se qualcuno/ avesse paura di me/ e mi stavano passando/ un cappio intorno al collo/ proprio come se avessero/ deciso d’impiccarmi,/ e un tizio mi stava attaccando/ alla camicia/ proprio un bel cartello:/ c’è una legge per te/ e una legge per me/ e una legge che vale/ anche quando non c’è”.
Sempre in quel letto, qualche volta gli butta meglio. Nel silenzio rarefatto c’è una donna che dorme: “di notte mi siedo sul letto e t’ascolto/ russare/ t’ho incontrata in un’autostazione/ e ora guardo con stupore la tua schiena/ bianca fino alla nausea e macchiata/ di lentiggini infantili/ mentre il lume rovescia l’insolubile/ dolore del mondo/ sul tuo sonno”.

“Era un vecchio straccione e rabbioso/ con le spalle appoggiate alla morte”, lo dice chiaro e tondo lui in Poesie Per I Direttori del Personale. Non gli andava molto di lavorare, anche se la sua opera è perennemente percorsa da inutili tentativi di rimanere entro i margini del sistema. Gli piaceva di starsene nei bar a bere e conoscere la gente, più che altro le donne che avrebbero popolato la sua scrittura. Il resto del tempo, al di là del lavoro, lo spendeva in casa ad ascoltare alla radio Mahler, Hayden, Beethoven, le arie della Carmen, sempre tanta musica classica.
Da un certo momento in poi, smise anche di leggere, come spiega in La coperta: “Sono un debole è evidente. Ho provato ad aggrapparmi alla bibbia, alla filosofia, ai poeti, ma, secondo me, tutti costoro sono fuori tema. Parlano completamente d’altro. Quindi ho smesso ormai da tempo di leggere. Ho trovato un po’ d’aiuto nel bere, nel gioco d’azzardo e nel sesso, e in questo mi sono comportato come tanti altri nel consorzio civile: l’unica differenza, che a me non importava di ‘arrivare’, aver successo, farmi una famiglia, una casa, aver un lavoro rispettabile e così via”.

Tra i suoi interessi principali, lo sappiamo tutti, c’erano anche i cavalli, che doveva amare per davvero, tanto che in un brano di Donne, una sorta di epitaffio, scrive: “Seppellitemi vicino all’ippodromo così che possa sentire l’ebbrezza della volata finale”.
In Fior di cavallo, sulle gradinate dell’ippodromo, in un momento d’intimità, Bukowski fa i conti con se stesso: “5,60 moltiplicato 5. un guadagno di 18 dollari, con la prima corsa. non avrei voluto trovarmi all’ippodromo. non avrei voluto trovarmi da nessuna parte. tante volte uno deve lottare così duramente per la vita che non ha tempo di viverla. dopo il caffè, mi sedetti su una gradinata, per non svenire. malato, uno straccio”.
A tenergli compagnia insieme alle angosce, al dolore, alle malattie, al perenne richiamo della morte, c’erano le sue donne. Erano tante e di tutte le risme. Alcune le ha amate per davvero, altre le ha soltanto maltrattate, quasi tutte le ha usate. In sintesi, chiudendo questa breve riflessione intorno all’opera di Buk, c’è una poesia, dove amore e morte s’incontrano simbolicamente, intitolata Amore. Comincia con questi versi:


amore, disse, gas

dammi un bacio d’addio
baciami le labbra
baciami i capelli

le dita

gli occhi il cervello

fammi dimenticare


Bologna, 03.08.2009
Erwin de Greef

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sabato 1 agosto 2009

Coltivare la democrazia per costruirne una

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

La
democrazia esiste solo idealmente, mentre di fatto esistono le democrazie; questa considerazione apre il problema della formazione di una, e della partecipazione ad una democrazia:


l’unico modo per fare di un suddito un cittadino è quello di attribuirgli quei diritti che gli scrittori di diritto pubblico del secolo scorso avevano chiamato activae civitatis, e l’educazione alla democrazia si svolge nello stesso esercizio della pratica democratica(1)

Allora, praticando attivamente la democrazia ci si (auto)educa alla democrazia stessa. Per questo la passività dei cittadini è uno dei principali ostacoli per la realizzazione della democrazia, per questo ogni forma di regime autoritario ha bisogno di "passivizzare" politicamente i cittadini, mentre la democrazia necessita di cittadini attivi che, in vari modi, partecipino alla formazione delle decisioni(2). A questo proposito è interessante notare come quello invece a cui, secondo Norberto Bobbio, si assiste oggi, è il dilagare del fenomeno dell’apatia politica, per la quale le persone sono «semplicemente disinteressate per quello che avviene, come si dice in Italia, con felice espressione, nel "palazzo"»(3). L’apatia politica non conduce solo ad un generale disinteresse nei confronti della dimensione politica, ma anche ad una deresponsabilizzazione nell’uso del proprio voto (del quale anche i politicamente passivi, apatici dispongono) utilizzato come una merce di scambio, in base a quel do ut des, già denunciato alla propria Camera dei deputati da Alexis de Tocqueville, che in pieno Ottocento (ma con una sorprendente somiglianza con i giorni nostri) si chiedeva


se non fosse aumentato il numero di coloro che votano per interessi personali e non sia diminuito il voto di chi vota sulla base di un’opinione politica […] (sicché) chi gode dei diritti politici ritiene di farne un uso personale nel proprio interesse(4)


Se quello della mercificazione del voto è il problema che (troppo) spesso caratterizza i votanti, quello del cosiddetto "potere invisibile" è invece il male che altrettanto (troppo) spesso caratterizza i votati (e, più in generale, chiunque detenga il potere). Il potere invisibile è quel potere che nasce con le teorie della Ragion di Stato, in base alle quali allo Stato è lecito ciò che non è lecito ai cittadini: secretare(5) determinate questioni. Ma, afferma Bobbio, quando si è costretti a tenere segreta un’azione, vuol dire che quella azione non sarebbe possibile da compiere (almeno in quegli stessi termini) se fosse resa pubblica e, per Bobbio, nessuno Stato che voglia essere democratico (ovvero che voglia dare ai cittadini la possibilità di compartecipare alle decisioni politiche) può agire in tale modo. Deriva da qui l’obbligo, per uno Stato democratico, della pubblicità degli atti di governo, poiché essa, la pubblicità, è già di per sé una forma di controllo. A tale proposito Bobbio ricorda come


Nell’Appendice alla Pace perpetua Kant enunciò e illustrò il principio fondamentale secondo cui «Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini la cui massima non è suscettibile di pubblicità, sono ingiuste»(6)


Insomma, il governo della democrazia è il governo del potere pubblico in pubblico, cosa che, nota Bobbio, ha significativamente colto Jürgen Habermas mostrando come la trasformazione dello Stato moderno consista nel graduale emergere della "sfera privata del pubblico" (ovvero, della rilevanza pubblica della sfera privata), cioè di quell’opinione pubblica che, nella modernità, pretende di discutere gli atti del potere esigendone, pertanto, la pubblicizzazione(7).
Inoltre, anche Gustavo Zagrebelsky fa notare come Bobbio ne Il futuro della democrazia annoveri lo "spirito democratico" fra le "promesse non mantenute della democrazia". Per Bobbio infatti, così come per Zagrebelsky, l’attaccamento alla democrazia non si sviluppa da solo, spontaneamente, bensì esso va sollecitato costantemente poiché, quando tale sollecitazione viene meno

Invece dell’attaccamento cresce l’apatia politica. In Italia, e forse non solo, si è democratici non per convinzione, ma per assuefazione e l’assuefazione può portare alla noia, perfino alla nausea e al rigetto(8)

A tal proposito, Zagrebelsky si spinge fino a codificare i passaggi civici fondamentali ai fini dell’edificazione di un’autentica democrazia:

1) La fede in qualcosa che vale. La democrazia è relativistica, non assolutistica […] 2) La cura delle individualità personali. La democrazia è fondata sugli individui, non sulla massa […] 3) Lo spirito del dialogo. La democrazia è discussione, ragionare insieme; è, socraticamente, filologia […] 4) Lo spirito dell’uguaglianza. La democrazia è basata sull’uguaglianza; è insidiata dal privilegio […] 5) Il rispetto delle identità diverse. In democrazia le identità particolari sono ininfluenti sul diritto di stare in società […] 6) La diffidenza verso le decisioni irrimediabili. La democrazia implica la rivedibilità di ogni decisione (sempre esclusa quella sulla democrazia stessa) […] 7) L’atteggiamento sperimentale. La democrazia è orientata da principi ma deve imparare quotidianamente dalle conseguenze dei propri atti […] 8) Coscienza di maggioranza e coscienza di minoranza. In democrazia, nessuna deliberazione si interpreta nel segno della ragione e del torto […] 9) L’atteggiamento altruistico. La democrazia è forma di vita di esseri umani solidali […] 10) La cura delle parole. Essendo la democrazia dialogo, gli strumenti del dialogo, le parole, devono essere oggetto di cura particolare, come non è in nessun’altra forma di governo(9)


E’ interessante notare come, nonostante le ovvie somiglianze, i precetti individuati da Zagrebelsky, si differenzino dalle regole pro democrazia di Karl Popper, nella loro essenza; queste ultime, infatti, descrivono un possibile modo di realizzazione di una democrazia, mentre il Decalogo descrive lo spirito della democrazia. E non potrebbe essere altrimenti dato che, per Bobbio e Zagrebelsky, la democrazia non è una rigorosa formula scientifica, ma è un valore che può essere realizzato in molteplici (forse infinite) modalità, a patto che queste non ne alterino l’essenza, lo spirito. Insomma, nell’analisi della democrazia è presente la duplice possibilità d’intenderla come un particolare evento o come una categoria filosofica. Ora, a mio parere, solo intendendola in quest’ultimo modo è possibile chiarire lo spirito della democrazia, ed è questo l’unico modo per evitare che essa si trasformi nel suo contrario: il totalitarismo. Quest’ultimo ne rappresenta, infatti, il contrario, ma non necessariamente l’opposto: il totalitarismo è un rischio insito all’interno della stessa democrazia (basti ricordare la felice espressione tocquevillina di "dispotismo democratico"), ed il rispetto di specifiche regole procedurali non mette al riparo da tale pericolo. E’ invece necessaria una generale comprensione dell’essenza della democrazia, intesa non come una determinata forma di governo politico, bensì come un valore. Solo comprendendo lo spirito della democrazia, si può realizzare una democrazia. 


1) N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1995, p. 20.
2) Le condizioni preliminari perché ciò accada sono essenzialmente due: a) che i cittadini possano usufruire di una libera ed onesta informazione, b) che la politica non venga ridotta agli arcana imperii, accessibili solo ai "tecnici".
3) N. Bobbio, Il futuro della democrazia, cit., p. 21.
4) A. de Tocqueville, Discorso sulla rivoluzione sociale, in Scritti politici, UTET, Torino 1968-1969, 2 voll., p. 271, parentesi mia. 
5) «Al pari di Dio, il potente tende a rendersi inaccessibile: gli arcana dominationis sono una imitazione degli arcana naturae (o degli arcana Dei). Elias Canetti ha scritto pagine memorabili sul "segreto", come essenza del potere, che meritano di essere meditate (come del resto l’intero libro, Massa e potere): il potere deve essere imperscrutabile, appunto come i decreti di Dio. Non deve essere visto perché ciò gli consente di vedere meglio quello che fanno gli altri: "Il detentore del potere conosce le intenzioni altrui, ma non lascia conoscere le proprie. Egli deve essere sommamente riservato: nessuno può sapere ciò che egli pensa, ciò che si propone"» N. Bobbio, Il futuro della democrazia, cit., p. 216, Bobbio cita da E. Canetti, Massa e potere, Adelphi, Milano 1981, p. 353. 
6) N. Bobbio, Il futuro della democrazia, cit., p. 18, la citazione, che è tratta da I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, UTET, Torino 1956, p. 330, rappresenta l’applicazione, operata dallo stesso Kant, del già formulato "imperativo categorico", al diritto, in quanto Per la pace perpetua risale al 1795, mentre la Critica della ragion pratica è del 1788. 
7) Bobbio si riferisce a J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Bari 1971, opera alla quale imputa però il limite di non distinguere tra un uso del termine "pubblico" inteso come ciò che pertiene allo Stato, alla res publica, allo ius publicum, e un uso di "pubblico" inteso come manifesto, palese. 
8) G. Zagrebelsky, Decalogo contro l’apatia politica, in «la Repubblica», 04/03/05. Pubblicazione dell’intervento tenuto in occasione del Convegno "Una scuola per la cultura, il lavoro, la democrazia", svoltosi nel 2005 presso l’Università Roma Tre.
9) Ivi.

(«Filosofi per Caso: area di discussione metropolitana», 21/08/2009)

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