di Erwin de Greef (erwindegreef@libero.it)
In sintesi
In prosa, la sua idea fu di scrivere in forma spontanea e aperta, a volte anche ignorando il rischio – molto spesso, senz’altro calcolato – di sconcertare il lettore oltre ogni limite. In Bukowski c’è una smisurata vena poetica e – come conseguenza per la tecnica che adopera – anche grande narrativa.
La prosa segue cronologicamente la sua attività di poeta. A spingerlo in quella direzione contribuirono, in diverso ordine e grado: l’urgenza di una comunicazione rapida, immediata, diretta, sempre disincantata, dissacrante, ironica, e moralizzante – proprio così. Oltre il cesellamento, la concisione, e la densità, che sono il senso della lirica. Bukowski è soprattutto un poeta prestato alla narrativa. Affermazione la mia che, in modo consapevole e civettuolo, gli avrebbe fatto storcere il muso: “non vi venga in mente che sono un poeta”, avrebbe ammonito in Un cavallo da 340 dollari e una puttana da cento, poesia rivisitata in chiave narrativa in Fior di cavallo.
“Poeta, no, grazie”, proclama lui – giocando a sottrarre come i poeti di razza. Di essere comunque uno scrittore ne era in qualche modo consapevole. Col tratto distinguibile della sua forte vena autoironica, quasi di autocensura, comunque in forma transitiva, in Altra storia di cavalli, uno dei tanti momenti narrativi in cui discute questa cosa con se stesso, in punta di piedi, la butta giù così:
“scrivere? a che diavolo serve? eppure c’è qualcuno che s’incazza o si preoccupa per quello che scrivo. mi guardo intorno, c’è una macchina da scrivere, come no, nella stanza. io sono dunque, in qualche modo, uno scrittore. e esiste anche un altro mondo, altre manovre, altri sistemi, altri gruppi, altri valori”.
Il mondo altro rispetto a quello bukowskiano, illusorio, tutto luci e neon, è il sogno americano in cui, annota in I lavoratori: “qualche volta uno muore/ o impazzisce/ e allora da Fuori/ ne arriva uno nuovo/ per sfruttare la sua/ grande occasione”.
Nel mondo straccione, pervertito, liquido, drogato e autentico di Bukowski – il poeta, lo scrittore, il narratore, l’uomo – a proposito di pazzia e di manicomi, in cui, detto per inciso, lui fu rinchiuso per un breve periodo, nel racconto Un brutto viaggio commenta: “e i recenti tagli ordinati dal nostro governatore al bilancio dei manicomi, in California, mi fanno capire che: la società non ritiene suo dovere curare quelli che la società stessa ha fatto impazzire, specie in periodi di strettezze e inflazione e supertasse”.
Bukowski è più interessato ad argomentare su tematiche forti e socialmente rilevanti piuttosto che su altro. È dalla parte dei perdenti, degl’indigenti, delle persone fuori del sistema, quelle come lui. In Animali in libertà descrive questo suo sentimento: “Desideravo solo un posto dove sdraiarmi e aspettare. Non provavo alcun rancore verso la società, poiché non ne facevo parte. A ciò mi ero da tempo adattato”.
A Carol, l’affascinate protagonista di Animali in libertà, fa dire: “Vedi… non so come esprimermi. È una cosa di cui sogno spesso. Il mondo è stanco. La sua fine è vicina. La gente ha perso il gusto della vita… si son fatti di sasso. Nulla conta più niente. Sono stufi di se stessi. Bramano la morte e la loro preghiera sarà esaurita”.
Il vero, unico, oggetto di osservazione di Bukowski è la società che vive al margine. I sistemi di potere preconfezionati, usa e getta, non lo intricano. Anzi, lo annoiano, gli fanno venire il nervoso. Non lo intricano neppure i poeti e la poesia. “c’è: ecco UNA COSA che non va – chiarisce in Quattro chiacchiere in pace – con gli intellettuali e gli scrittori: sono sensibili solo alle loro gioie e ai loro dolori. il che è normale ma schifoso”.
In Occhi come il cielo, tra i racconti più interessanti per capire la poetica di Bukowski, puntualizza: “la poesia costituisce ancora la più grossa “cosa snob” del settore artistico: piccoli gruppi di poeti lottano tra loro per il potere”.
L’autore ritorna sul tema in Un uomo celebre: “ma non si tratta di competizione. La grande arte non è mai competizione, affatto. La grande arte è tutto quello che vi pare, che ne so, il governo o i bambini o pittori o finocchi, qualsiasi cosa”.
Poco più oltre, sempre in Occhi come il cielo, riflette sul valore della poesia. Riflessione, mi sa, molto utile anche al nostro sistema: “in sostanza, la poesia generalmente accettata, oggi, ha una specie di rivestimento di vetro, liscio e scivoloso: all’interno dell’involucro, consiste in una giustapposizione di parole, una dopo l’altra, una somma metallica e inumana di parole, semi-arcane. Si tratta di una poesia per milionari e gente grassa e oziosa, quindi ha i suoi fautori e sopravvive perché (qui sta il segreto) chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori e vada a farsi friggere”.
Il caso volle anche che l’amico e giornalista John Bryan lo invitasse a scrivere senza censura nel periodico underground “Open City” in una città, Los Angeles, in uno dei tanti centri metropolitani, dentro i confini fisici e culturali di una nazione, gli States, in fase di normalizzazione dopo la grande sbornia del movimento hippy.
Lui stesso, nella Premessa a Taccuino di un vecchio porco, ci ironizza su: “È tutto strano, molto strano. Pensate solo che se non avessero cancellato il pisellino e le palline a Gesù Bambino, non leggereste queste pagine. Così, allegria”.
Come una macchina fotografica, Bukowski immortala in vividi dagherrotipi di cellulosa a buon mercato quello che scorge camminando per le strade bagnate dal sole vespertino e dall’acqua piovana, spesso sporche, sempre povere, da dietro le tendine abbassate di una qualunque cucina o dalle finestre opache del bar dietro l’angolo.
Sono le strade di Mr. America, comprese quelle di London e Kerouac, raccontate in Crocifisso nel pugno d’un morto: “giù nella sabbia e tra i vicoli,/ questa terra trafitta, percossa, divisa,/ stretta come un crocifisso nel pugno d’un morto,/ questa terra comprata, rivenduta, ricomprata/ e ancora venduta, le guerre finite da un pezzo,/ tornati gli spagnoli nella Spagna lontana/ sempre nel bussolotto, e adesso/ agenti immobiliari, lottizzatori, proprietari terrieri, costruttori/ di autostrade che discutono”.
Il palcoscenico dove fare recitare se stesso, principalmente col suo vero nome o con lo pseudonimo di Henry Chinaski, e, con lui, i fuorilegge, le puttane, gli ubriaconi, i diseredati, i reietti, i subnormali, i pazzi, la tanta gente – la sua – dell’America clandestina è soprattutto L.A.
In questa città, una sera, ad una festa, nel racconto Il gran gioco dell’erba, Bukowski s’imbatte in un paio di adepti della streppa: “tutti costoro mi fanno pensare, in certo senso, a quelle vecchiette che, all’angolo della via, vendono “La Torre di Guardia.” questi adepti della streppa, LSD, marijuana, eroina, hascish e compagnia bella, hanno la stessa mentalità dei Testimoni di Geova: o sei con noi, amico, o sennò sei fuori, uomo, sei morto. questo è il credo di tutti gli utenti della droga. sfido che vengano arrestati di continuo. mica son buoni a drogarsi in silenzio, no, devono farlo sapere a tutti che loro fanno parte della consorteria. inoltre, tendono a collegare la streppa con l’Arte, con il Sesso, con l’ambiente d’avanguardia e del dissenso. il loro Acido Dio, Timothy Leary, gli dice: ‘lasciate tutto e seguitemi.’ poi lui prende in affitto un teatro e gli fa pagare 5 dollari a testa, per andarlo a sentire. poi arriva Ginsberg e si schiera al fianco di Leary. quindi Ginsberg proclama che Bob Dylan è un grande poeta. sanno farsi pubblicità, questi lupi della streppa. sempre a galla sulle cronache. oh America”.
In Appunti sulla peste, in una giornata qualunque, aspettando il formarsi della società utopistica, marciando in macchina con sua figlia Tina – lei quattro anni, lui un po’ più vecchio – prende appunti per un pezzo profanante degno di Open Pussy (?), un racconto (?), o meglio, come spesso gli succede di fare, una poesia in prosa:
“per adesso dobbiamo fare i conti con ogni sorta di svitati e di fottuti, vaste zone di depressa umanità, orde di mortidifame, i neri e i bianchi e i rossi, le Bombe addormentate, i love-ins, gli hippies, i non-tanto-hippies, Johnson, scarafaggi ad Albuquerque, cattiva birra, lo scolo, editoriali di merda, questo e quello, e la Peste”.
Non c’è differenza, in una sortita nichilista, per lui. Appunta in La politica è come cercare di inculare un gatto: “la differenza tra Democrazia e Dittatura è che in Democrazia prima si vota e poi si prendono ordini; in una Dittatura non c’è bisogno di sprecare il tempo andando a votare”.
Bukowski racconta, in prosa in poesia, come poeta come narratore, la frantumazione di una società fatta di cartone, come la sua camera da un dollaro e 50 cent a settimana, dove la sua prospettiva, il punto di vista è sempre da dentro verso fuori, è quella di un EREMITA IN CITTÀ:
“Oziando nella foresta della mia stanza/ con alberi di tungsteno; la civetta del caffè bollente,/ ragnatele brinate d’oro sopra le finestre/ lo sguardo fisso all’inferno che c’è fuori”.
No, la gente, quella proprio non lo interessa, non gli piace. Lo scrive ogni quando se ne rammenta che potrebbe starsene da solo, neppure due soldi di sorca per sentirsi scorrere la vita dentro: “non è malvagia/ la gente nei musei delle cere congelata nella sua migliore/ sterilità, orribile ma non malvagia”, annota in Qualcosa per i soffietti, le suore, i garzoni dei droghieri e te… poi, ripreso e ambientato in un qualunque cortile di mattatoio in Kid polvere-di-stelle.
E quando sta seduto sul treno per raggiungere l’ippodromo per abbandonarsi all’ebbrezza della volata finale, lui lo sa, registra in vivere, che: “nessuno aveva altro da fare che guardare/ la mia faccia/ e io sono così stanco/ che lo sanno quando mi guardano in faccia/ che li/ odio/ e allora odiano me/ e vorrebbero/ ammazzarmi/ ma non lo fanno”.
Questo pensiero di essere ucciso, quasi un’ossessione, ritorna con estrema lucidità in La mia pazzia, un racconto confessione molto intenso: “Ero confuso, ma non infelice. Non ero cattivo. Solo che non riuscivo a ricavarne niente da quello che avevo intorno. La mia violenza si contrapponeva all’evidenza del tranello, io gridavo e loro non capivano. E anche nelle risse più furibonde, guardavo il mio avversario e pensavo: perché è arrabbiato? Vuole uccidermi. Allora dovevo tirare pugni per liberarmi dalla bestia che avevo dentro. La gente non ha senso dell’umorismo, si prendono tutti così cazzutamente sul serio”.
Se il mondo fuori è quello là, Bukowski preferisce starsene rintanato nel suo cantuccio (povero e di periferia) a bere le sue birre e quant’altro, a farsi una sana scopata, o almeno ci prova, e a rimanere dentro il letto, sfatto, con le lenzuola sporche di sbroda, il più delle volte. In altre, Bukowski sogna e non sempre – prende nota in CHE UOMO ERO – i suoi risvegli sono i più graditi:
“mi sono disteso e ho sognato/ di quand’ero bambino/ e giocavo con la mia pistola giocattolo/ e battevo tutti alle biglie,/ e quando mi sono svegliato/ le mie armi erano sparite/ e io ero legato mani e piedi/ proprio come se qualcuno/ avesse paura di me/ e mi stavano passando/ un cappio intorno al collo/ proprio come se avessero/ deciso d’impiccarmi,/ e un tizio mi stava attaccando/ alla camicia/ proprio un bel cartello:/ c’è una legge per te/ e una legge per me/ e una legge che vale/ anche quando non c’è”.
Sempre in quel letto, qualche volta gli butta meglio. Nel silenzio rarefatto c’è una donna che dorme: “di notte mi siedo sul letto e t’ascolto/ russare/ t’ho incontrata in un’autostazione/ e ora guardo con stupore la tua schiena/ bianca fino alla nausea e macchiata/ di lentiggini infantili/ mentre il lume rovescia l’insolubile/ dolore del mondo/ sul tuo sonno”.
“Era un vecchio straccione e rabbioso/ con le spalle appoggiate alla morte”, lo dice chiaro e tondo lui in Poesie Per I Direttori del Personale. Non gli andava molto di lavorare, anche se la sua opera è perennemente percorsa da inutili tentativi di rimanere entro i margini del sistema. Gli piaceva di starsene nei bar a bere e conoscere la gente, più che altro le donne che avrebbero popolato la sua scrittura. Il resto del tempo, al di là del lavoro, lo spendeva in casa ad ascoltare alla radio Mahler, Hayden, Beethoven, le arie della Carmen, sempre tanta musica classica.
Da un certo momento in poi, smise anche di leggere, come spiega in La coperta: “Sono un debole è evidente. Ho provato ad aggrapparmi alla bibbia, alla filosofia, ai poeti, ma, secondo me, tutti costoro sono fuori tema. Parlano completamente d’altro. Quindi ho smesso ormai da tempo di leggere. Ho trovato un po’ d’aiuto nel bere, nel gioco d’azzardo e nel sesso, e in questo mi sono comportato come tanti altri nel consorzio civile: l’unica differenza, che a me non importava di ‘arrivare’, aver successo, farmi una famiglia, una casa, aver un lavoro rispettabile e così via”.
Tra i suoi interessi principali, lo sappiamo tutti, c’erano anche i cavalli, che doveva amare per davvero, tanto che in un brano di Donne, una sorta di epitaffio, scrive: “Seppellitemi vicino all’ippodromo così che possa sentire l’ebbrezza della volata finale”.
In Fior di cavallo, sulle gradinate dell’ippodromo, in un momento d’intimità, Bukowski fa i conti con se stesso: “5,60 moltiplicato 5. un guadagno di 18 dollari, con la prima corsa. non avrei voluto trovarmi all’ippodromo. non avrei voluto trovarmi da nessuna parte. tante volte uno deve lottare così duramente per la vita che non ha tempo di viverla. dopo il caffè, mi sedetti su una gradinata, per non svenire. malato, uno straccio”.
A tenergli compagnia insieme alle angosce, al dolore, alle malattie, al perenne richiamo della morte, c’erano le sue donne. Erano tante e di tutte le risme. Alcune le ha amate per davvero, altre le ha soltanto maltrattate, quasi tutte le ha usate. In sintesi, chiudendo questa breve riflessione intorno all’opera di Buk, c’è una poesia, dove amore e morte s’incontrano simbolicamente, intitolata Amore. Comincia con questi versi:
amore, disse, gas
dammi un bacio d’addio
baciami le labbra
baciami i capelli
le dita
gli occhi il cervello
fammi dimenticare
io non ero un gran genio, ma ero lontano da Atlanta, non ero ancora un cadavere, avevo delle belle mani e molta strada da fare.
Ch. Bukowski, Taccuino di un vecchio porco
Ch. Bukowski, Taccuino di un vecchio porco
In sintesi
le mie uniche gioie erano mangiare, bere birra e andare a letto con Sarah. Non quel che si dice una gran vita, ma tocca accontentarsi.
Ch. Bukowski, Sei pollici
Ch. Bukowski, Sei pollici
In prosa, la sua idea fu di scrivere in forma spontanea e aperta, a volte anche ignorando il rischio – molto spesso, senz’altro calcolato – di sconcertare il lettore oltre ogni limite. In Bukowski c’è una smisurata vena poetica e – come conseguenza per la tecnica che adopera – anche grande narrativa.
La prosa segue cronologicamente la sua attività di poeta. A spingerlo in quella direzione contribuirono, in diverso ordine e grado: l’urgenza di una comunicazione rapida, immediata, diretta, sempre disincantata, dissacrante, ironica, e moralizzante – proprio così. Oltre il cesellamento, la concisione, e la densità, che sono il senso della lirica. Bukowski è soprattutto un poeta prestato alla narrativa. Affermazione la mia che, in modo consapevole e civettuolo, gli avrebbe fatto storcere il muso: “non vi venga in mente che sono un poeta”, avrebbe ammonito in Un cavallo da 340 dollari e una puttana da cento, poesia rivisitata in chiave narrativa in Fior di cavallo.
“Poeta, no, grazie”, proclama lui – giocando a sottrarre come i poeti di razza. Di essere comunque uno scrittore ne era in qualche modo consapevole. Col tratto distinguibile della sua forte vena autoironica, quasi di autocensura, comunque in forma transitiva, in Altra storia di cavalli, uno dei tanti momenti narrativi in cui discute questa cosa con se stesso, in punta di piedi, la butta giù così:
“scrivere? a che diavolo serve? eppure c’è qualcuno che s’incazza o si preoccupa per quello che scrivo. mi guardo intorno, c’è una macchina da scrivere, come no, nella stanza. io sono dunque, in qualche modo, uno scrittore. e esiste anche un altro mondo, altre manovre, altri sistemi, altri gruppi, altri valori”.
Il mondo altro rispetto a quello bukowskiano, illusorio, tutto luci e neon, è il sogno americano in cui, annota in I lavoratori: “qualche volta uno muore/ o impazzisce/ e allora da Fuori/ ne arriva uno nuovo/ per sfruttare la sua/ grande occasione”.
Nel mondo straccione, pervertito, liquido, drogato e autentico di Bukowski – il poeta, lo scrittore, il narratore, l’uomo – a proposito di pazzia e di manicomi, in cui, detto per inciso, lui fu rinchiuso per un breve periodo, nel racconto Un brutto viaggio commenta: “e i recenti tagli ordinati dal nostro governatore al bilancio dei manicomi, in California, mi fanno capire che: la società non ritiene suo dovere curare quelli che la società stessa ha fatto impazzire, specie in periodi di strettezze e inflazione e supertasse”.
Bukowski è più interessato ad argomentare su tematiche forti e socialmente rilevanti piuttosto che su altro. È dalla parte dei perdenti, degl’indigenti, delle persone fuori del sistema, quelle come lui. In Animali in libertà descrive questo suo sentimento: “Desideravo solo un posto dove sdraiarmi e aspettare. Non provavo alcun rancore verso la società, poiché non ne facevo parte. A ciò mi ero da tempo adattato”.
A Carol, l’affascinate protagonista di Animali in libertà, fa dire: “Vedi… non so come esprimermi. È una cosa di cui sogno spesso. Il mondo è stanco. La sua fine è vicina. La gente ha perso il gusto della vita… si son fatti di sasso. Nulla conta più niente. Sono stufi di se stessi. Bramano la morte e la loro preghiera sarà esaurita”.
Il vero, unico, oggetto di osservazione di Bukowski è la società che vive al margine. I sistemi di potere preconfezionati, usa e getta, non lo intricano. Anzi, lo annoiano, gli fanno venire il nervoso. Non lo intricano neppure i poeti e la poesia. “c’è: ecco UNA COSA che non va – chiarisce in Quattro chiacchiere in pace – con gli intellettuali e gli scrittori: sono sensibili solo alle loro gioie e ai loro dolori. il che è normale ma schifoso”.
In Occhi come il cielo, tra i racconti più interessanti per capire la poetica di Bukowski, puntualizza: “la poesia costituisce ancora la più grossa “cosa snob” del settore artistico: piccoli gruppi di poeti lottano tra loro per il potere”.
L’autore ritorna sul tema in Un uomo celebre: “ma non si tratta di competizione. La grande arte non è mai competizione, affatto. La grande arte è tutto quello che vi pare, che ne so, il governo o i bambini o pittori o finocchi, qualsiasi cosa”.
Poco più oltre, sempre in Occhi come il cielo, riflette sul valore della poesia. Riflessione, mi sa, molto utile anche al nostro sistema: “in sostanza, la poesia generalmente accettata, oggi, ha una specie di rivestimento di vetro, liscio e scivoloso: all’interno dell’involucro, consiste in una giustapposizione di parole, una dopo l’altra, una somma metallica e inumana di parole, semi-arcane. Si tratta di una poesia per milionari e gente grassa e oziosa, quindi ha i suoi fautori e sopravvive perché (qui sta il segreto) chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori e vada a farsi friggere”.
Il caso volle anche che l’amico e giornalista John Bryan lo invitasse a scrivere senza censura nel periodico underground “Open City” in una città, Los Angeles, in uno dei tanti centri metropolitani, dentro i confini fisici e culturali di una nazione, gli States, in fase di normalizzazione dopo la grande sbornia del movimento hippy.
Lui stesso, nella Premessa a Taccuino di un vecchio porco, ci ironizza su: “È tutto strano, molto strano. Pensate solo che se non avessero cancellato il pisellino e le palline a Gesù Bambino, non leggereste queste pagine. Così, allegria”.
Come una macchina fotografica, Bukowski immortala in vividi dagherrotipi di cellulosa a buon mercato quello che scorge camminando per le strade bagnate dal sole vespertino e dall’acqua piovana, spesso sporche, sempre povere, da dietro le tendine abbassate di una qualunque cucina o dalle finestre opache del bar dietro l’angolo.
Sono le strade di Mr. America, comprese quelle di London e Kerouac, raccontate in Crocifisso nel pugno d’un morto: “giù nella sabbia e tra i vicoli,/ questa terra trafitta, percossa, divisa,/ stretta come un crocifisso nel pugno d’un morto,/ questa terra comprata, rivenduta, ricomprata/ e ancora venduta, le guerre finite da un pezzo,/ tornati gli spagnoli nella Spagna lontana/ sempre nel bussolotto, e adesso/ agenti immobiliari, lottizzatori, proprietari terrieri, costruttori/ di autostrade che discutono”.
Il palcoscenico dove fare recitare se stesso, principalmente col suo vero nome o con lo pseudonimo di Henry Chinaski, e, con lui, i fuorilegge, le puttane, gli ubriaconi, i diseredati, i reietti, i subnormali, i pazzi, la tanta gente – la sua – dell’America clandestina è soprattutto L.A.
In questa città, una sera, ad una festa, nel racconto Il gran gioco dell’erba, Bukowski s’imbatte in un paio di adepti della streppa: “tutti costoro mi fanno pensare, in certo senso, a quelle vecchiette che, all’angolo della via, vendono “La Torre di Guardia.” questi adepti della streppa, LSD, marijuana, eroina, hascish e compagnia bella, hanno la stessa mentalità dei Testimoni di Geova: o sei con noi, amico, o sennò sei fuori, uomo, sei morto. questo è il credo di tutti gli utenti della droga. sfido che vengano arrestati di continuo. mica son buoni a drogarsi in silenzio, no, devono farlo sapere a tutti che loro fanno parte della consorteria. inoltre, tendono a collegare la streppa con l’Arte, con il Sesso, con l’ambiente d’avanguardia e del dissenso. il loro Acido Dio, Timothy Leary, gli dice: ‘lasciate tutto e seguitemi.’ poi lui prende in affitto un teatro e gli fa pagare 5 dollari a testa, per andarlo a sentire. poi arriva Ginsberg e si schiera al fianco di Leary. quindi Ginsberg proclama che Bob Dylan è un grande poeta. sanno farsi pubblicità, questi lupi della streppa. sempre a galla sulle cronache. oh America”.
In Appunti sulla peste, in una giornata qualunque, aspettando il formarsi della società utopistica, marciando in macchina con sua figlia Tina – lei quattro anni, lui un po’ più vecchio – prende appunti per un pezzo profanante degno di Open Pussy (?), un racconto (?), o meglio, come spesso gli succede di fare, una poesia in prosa:
“per adesso dobbiamo fare i conti con ogni sorta di svitati e di fottuti, vaste zone di depressa umanità, orde di mortidifame, i neri e i bianchi e i rossi, le Bombe addormentate, i love-ins, gli hippies, i non-tanto-hippies, Johnson, scarafaggi ad Albuquerque, cattiva birra, lo scolo, editoriali di merda, questo e quello, e la Peste”.
Non c’è differenza, in una sortita nichilista, per lui. Appunta in La politica è come cercare di inculare un gatto: “la differenza tra Democrazia e Dittatura è che in Democrazia prima si vota e poi si prendono ordini; in una Dittatura non c’è bisogno di sprecare il tempo andando a votare”.
Bukowski racconta, in prosa in poesia, come poeta come narratore, la frantumazione di una società fatta di cartone, come la sua camera da un dollaro e 50 cent a settimana, dove la sua prospettiva, il punto di vista è sempre da dentro verso fuori, è quella di un EREMITA IN CITTÀ:
“Oziando nella foresta della mia stanza/ con alberi di tungsteno; la civetta del caffè bollente,/ ragnatele brinate d’oro sopra le finestre/ lo sguardo fisso all’inferno che c’è fuori”.
No, la gente, quella proprio non lo interessa, non gli piace. Lo scrive ogni quando se ne rammenta che potrebbe starsene da solo, neppure due soldi di sorca per sentirsi scorrere la vita dentro: “non è malvagia/ la gente nei musei delle cere congelata nella sua migliore/ sterilità, orribile ma non malvagia”, annota in Qualcosa per i soffietti, le suore, i garzoni dei droghieri e te… poi, ripreso e ambientato in un qualunque cortile di mattatoio in Kid polvere-di-stelle.
E quando sta seduto sul treno per raggiungere l’ippodromo per abbandonarsi all’ebbrezza della volata finale, lui lo sa, registra in vivere, che: “nessuno aveva altro da fare che guardare/ la mia faccia/ e io sono così stanco/ che lo sanno quando mi guardano in faccia/ che li/ odio/ e allora odiano me/ e vorrebbero/ ammazzarmi/ ma non lo fanno”.
Questo pensiero di essere ucciso, quasi un’ossessione, ritorna con estrema lucidità in La mia pazzia, un racconto confessione molto intenso: “Ero confuso, ma non infelice. Non ero cattivo. Solo che non riuscivo a ricavarne niente da quello che avevo intorno. La mia violenza si contrapponeva all’evidenza del tranello, io gridavo e loro non capivano. E anche nelle risse più furibonde, guardavo il mio avversario e pensavo: perché è arrabbiato? Vuole uccidermi. Allora dovevo tirare pugni per liberarmi dalla bestia che avevo dentro. La gente non ha senso dell’umorismo, si prendono tutti così cazzutamente sul serio”.
Se il mondo fuori è quello là, Bukowski preferisce starsene rintanato nel suo cantuccio (povero e di periferia) a bere le sue birre e quant’altro, a farsi una sana scopata, o almeno ci prova, e a rimanere dentro il letto, sfatto, con le lenzuola sporche di sbroda, il più delle volte. In altre, Bukowski sogna e non sempre – prende nota in CHE UOMO ERO – i suoi risvegli sono i più graditi:
“mi sono disteso e ho sognato/ di quand’ero bambino/ e giocavo con la mia pistola giocattolo/ e battevo tutti alle biglie,/ e quando mi sono svegliato/ le mie armi erano sparite/ e io ero legato mani e piedi/ proprio come se qualcuno/ avesse paura di me/ e mi stavano passando/ un cappio intorno al collo/ proprio come se avessero/ deciso d’impiccarmi,/ e un tizio mi stava attaccando/ alla camicia/ proprio un bel cartello:/ c’è una legge per te/ e una legge per me/ e una legge che vale/ anche quando non c’è”.
Sempre in quel letto, qualche volta gli butta meglio. Nel silenzio rarefatto c’è una donna che dorme: “di notte mi siedo sul letto e t’ascolto/ russare/ t’ho incontrata in un’autostazione/ e ora guardo con stupore la tua schiena/ bianca fino alla nausea e macchiata/ di lentiggini infantili/ mentre il lume rovescia l’insolubile/ dolore del mondo/ sul tuo sonno”.
“Era un vecchio straccione e rabbioso/ con le spalle appoggiate alla morte”, lo dice chiaro e tondo lui in Poesie Per I Direttori del Personale. Non gli andava molto di lavorare, anche se la sua opera è perennemente percorsa da inutili tentativi di rimanere entro i margini del sistema. Gli piaceva di starsene nei bar a bere e conoscere la gente, più che altro le donne che avrebbero popolato la sua scrittura. Il resto del tempo, al di là del lavoro, lo spendeva in casa ad ascoltare alla radio Mahler, Hayden, Beethoven, le arie della Carmen, sempre tanta musica classica.
Da un certo momento in poi, smise anche di leggere, come spiega in La coperta: “Sono un debole è evidente. Ho provato ad aggrapparmi alla bibbia, alla filosofia, ai poeti, ma, secondo me, tutti costoro sono fuori tema. Parlano completamente d’altro. Quindi ho smesso ormai da tempo di leggere. Ho trovato un po’ d’aiuto nel bere, nel gioco d’azzardo e nel sesso, e in questo mi sono comportato come tanti altri nel consorzio civile: l’unica differenza, che a me non importava di ‘arrivare’, aver successo, farmi una famiglia, una casa, aver un lavoro rispettabile e così via”.
Tra i suoi interessi principali, lo sappiamo tutti, c’erano anche i cavalli, che doveva amare per davvero, tanto che in un brano di Donne, una sorta di epitaffio, scrive: “Seppellitemi vicino all’ippodromo così che possa sentire l’ebbrezza della volata finale”.
In Fior di cavallo, sulle gradinate dell’ippodromo, in un momento d’intimità, Bukowski fa i conti con se stesso: “5,60 moltiplicato 5. un guadagno di 18 dollari, con la prima corsa. non avrei voluto trovarmi all’ippodromo. non avrei voluto trovarmi da nessuna parte. tante volte uno deve lottare così duramente per la vita che non ha tempo di viverla. dopo il caffè, mi sedetti su una gradinata, per non svenire. malato, uno straccio”.
A tenergli compagnia insieme alle angosce, al dolore, alle malattie, al perenne richiamo della morte, c’erano le sue donne. Erano tante e di tutte le risme. Alcune le ha amate per davvero, altre le ha soltanto maltrattate, quasi tutte le ha usate. In sintesi, chiudendo questa breve riflessione intorno all’opera di Buk, c’è una poesia, dove amore e morte s’incontrano simbolicamente, intitolata Amore. Comincia con questi versi:
amore, disse, gas
dammi un bacio d’addio
baciami le labbra
baciami i capelli
le dita
gli occhi il cervello
fammi dimenticare
Bologna, 03.08.2009
Erwin de Greef
Erwin de Greef
Questa opera è pubblicata sotto una Licenza Creative Commons.
…”sconcertare il lettore oltre ogni limite”… limite varcato, bevuto, profanato, disteso - poi - su lemmi che son poesia. quella che lui non vorrebbe fosse, quella che lo rende grande. Bukowski in “sei pollici” & altro ancora, raccontato - qui - con maestria dentro una sbornia di parole, ingollate dal calice di lettura. (eccelso!)
RispondiEliminaLeggendo Erwin de Greef mi sono spesse volte chiesta se avrebbe voluto essere Buk.
RispondiEliminaIn questo breve saggio, l'autore condivide con il visitatore un commovente ritratto di un amico. Poesia sorprendente per la sua carica di umanità, presente e viva.
Grazie
Un poeta a nudo, schifo e disperazione per colui che più di altri ha saputo cantare la propria anima senza fronzoli e pretese.
RispondiEliminaIl tuo breve saggio, Erwin, é un perfetto e commovente ritratto da a un'amico scrittore.
In una parola:"OTTIMO". Come un pregevole artigiano, Erwin de Greef, ha generato un magistrale “lavoro ad intarsio” …
RispondiEliminaArguto e traboccante di sensibilità.
Invito tutti alla lettura !!!
g.c.
Leggere Bukowski vuol dire - per me ha voluto dire - stare seduto accanto ad un amico, ascoltarlo, seguirlo in molte cose. Mi ha fatto sentire a casa e, da persona gentile e generosa, per tutto quello che mi ha offerto, non ha mai chiesto il conto.
RispondiEliminaDavvero notevole Erwin,
RispondiEliminai miei complimenti.
Antonella Iannò