martedì 22 dicembre 2009

Bloch vs. Anders, speranza vs. pessimismo


di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Il pensiero di Ernst Bloch e quello di Günter Anders (conosciutisi a New York negli anni Quaranta, entrambi in fuga dalla Germania nazista) si trovano in evidente contrapposizione, eppure, a ben guardare, è presente un significativo punto di contatto fra i due; ma procediamo con ordine.
Anders, discepolo di Heidegger e studioso di Husserl, lo si può considerare come un “profeta” dell’autodistruzione dell’umanità. In Della pseudoconcretezza della filosofia fenomenologica di Heidegger, infatti, il progresso viene caratterizzato nella sua essenza come autodistruzione, come una strategia di sterminio che può verosimilmente trovare il suo apice in un’apocalisse nucleare, e che ha già lasciato delle significative tracce nella storia con fatti quali Auschwitz e la bomba nucleare, la cui messa a punto segna, come scrive in Hiroshima è dappertutto, l’inizio dell’era apocalittica. Per lui, il Novecento è il secolo della III rivoluzione industriale, producente degli esiti disumanizzanti: il dominio dell’uomo da parte della tecnica, come scrive ne L’uomo è antiquato; in questo scenario, qualsiasi prospettiva di miglioramento appare ai suoi occhi come uno “sperantismo gratuito”, così infatti definisce il pensiero di Bloch. Quella di Anders è, insomma, un’antropologia negativa, nella quale l’uomo viene caratterizzato a partire dai suoi limiti contingenti, primo fra tutti, a maggior ragione in un’epoca “tecnologicamente disumanizzante”, quello di ignorare il significato e le conseguenze delle proprie azioni. Per questo egli etichetta il pensiero di Bloch come una forma di “speranza gratuita”: un’umanità che non comprende il presente, non è in grado di costruire un futuro consapevole.
Il principio speranza di Bloch, è sia una critica a chi diffonde una “paura paralizzante” del futuro, sia un progetto definibile come una docta spes: a partire dalla comprensione del presente, si può elaborare una filosofia della prassi finalizzata a generare dei cambiamenti concreti e realistici, che cancellino tutte le situazioni umilianti l’uomo. In altri termini, il blochiano principio speranza è un liberamento delle potenzialità umane, teso al superamento di tutto ciò che mortifica l’uomo stesso, e (e in ciò risiede la sua concretezza) tale progetto deve basarsi sulle potenzialità realisticamente presenti in una situazione contingente, pertanto, se si vuole definire il pensiero di Bloch come un’utopia, la si deve intendere non come una visione dell’irrealizzabile, bensì come un sguardo sul non ancora realizzato (ma non per questo impossibile da realizzare), ed i contenuti di tale “utopia” vanno sviluppati in un tempo che, ad un’analisi superficiale può sembrare di passiva attesa, ma che è invece di attiva progettazione, costruzione, come scrive in Experimentum mundi.
Ora, come si diceva, queste prospettive così divergenti, hanno però una significativa convergenza: la necessità (implicita in Anders, esplicita in Bloch) della resistenza verso qualsiasi forma di annichilimento delle potenzialità, facoltà umane.

("Periodico Italiano webmagazine", 21/11/2009)

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lunedì 21 dicembre 2009

La vita di “A Serious Man”

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

A Serious Man; regia di Ethan e Joel Coen; interpreti Richard Kind, Fred Melamed, Sari Lennick, Adam Arkin, Aaron Wolff, Jessica McManus, Brent Braunschweig, David Kang, Benjy Portnoe, Jack Swiler, Andrew S. Lentz, Jon Kaminski Jr, Ari Hoptman, George Wyner, Fyvush Finkel, Katherine Borowitz, Steve Park, Amy Landecker, Allen Lewis Rickman, Raye Birk, Peter Breitmayer, Stephen Park, Simon Helberg, Alan Mandell; 105 min ca.
La trama di questo ultimo film dei fratelli Coen è abbastanza semplice, non lo è però la sua interpretazione; procediamo con ordine.
Trama. Nel 1967 a St. Louis Park (Minnesota) vive Larry Gopnik, di origini ebraiche, professore di fisica presso l’università del Midwest, dove è in lizza per diventare di ruolo. Il film narra una fase particolare della vita di Larry, la fase in cui una serie di vicissitudini gli mostrano che nella sua vita nulla è come lui credeva che fosse: la moglie Judith gli chiede improvvisamente il divorzio, un divorzio rituale cosicché essa possa risposarsi nella fede con l’amico di famiglia Sy Ableman (vedovo da tre anni, ed in cerca di chi possa sostituire la fu moglie), costringendolo, inoltre, a trasferirsi in un motel, insieme al fratello maggiore (disoccupato e un po’ disadattato e, come Larry inaspettatamente scoprirà, con il vizio del gioco d’azzardo e probabilmente omosessuale) che, in attesa di una sistemazione, dorme nel salone dello stesso Larry; i figli gli alleggeriscono il portafogli, il maschio per acquistare marijuana, la femmina per farsi una rinoplastica; un suo studente coreano (apparentemente integerrimo) cerca di corromperlo e poi lo minaccia di denunciarlo per diffamazione (il tutto con il supporto del padre), per indurlo a promuoverlo, modificando il verbale di un esame al quale era stato bocciato; il vicino di casa (apparentemente una brava persona) è invadente e scontroso, ed ha una moglie che turba il già precario equilibrio interiore di Larry; e così via in un turbine di eventi vari, l’ultimo dei quali, per ragioni interpretative, sarà opportuno citare successivamente.
(Una possibile) Interpretazione. Mentre la serie delle suddette vicissitudini si abbatte sulla sua vita, Larry ripete continuamente “io non ho fatto niente”, volendo così esprimere quella che lui ritiene essere l’ingiustizia di un fato che si accanisce contro chi non ha nessuna colpa, poiché “non ha fatto niente”. Quello che però a Larry sfugge, è che evidentemente lo stesso “non far niente” è di per sé una colpa, ed anche grande, poiché è un’accettazione passiva del mondo (quali che siano i suoi contenuti), una rinuncia al tentativo di dare il proprio contributo, mettendosi così in discussione, alla (ri)costruzione del mondo, e quando, passivamente, non ci si mette in gioco, è inevitabile che non si sia noi, ma qualcun altro (il prossimo o il caso) a determinare il nostro futuro. E’ interessante, infine, l’ultima delle vicissitudini di Larry: proprio quando compie un gesto non da uomo serio, gli arriva una telefonata risolutiva, come a dire che, stante la precarietà della vita, spendere la propria per cercare di calarsi nel cliché di “un uomo serio”, non significa altro che sprecarla.

("Periodico Italiano webmagazine", 19/12/2009)



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mercoledì 16 dicembre 2009

Marcuse, "Eros e civiltà"

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Herbert Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi

Il pensiero di Freud contiene una “teoria della civiltà”, secondo cui quest’ultima inizia quando gli uomini sostituiscono al “principio del piacere” il “principio della realtà”, e con esso un “principio di prestazione”, in base al quale si opera una repressione istintuale e un differimento dei piaceri (che vengono sublimati), in favore di un’ordinata convivenza. Marcuse, pur essendo d’accordo con tale teoria, ritiene però che in questa specifica civiltà in cui viviamo vi sia un surplus di repressione, che colpisce particolarmente l’Eros; non mero impulso sessuale, ma istinto vitale e creativo per eccellenza.

("Periodico Italiano", 15/12/2009)

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sabato 12 dicembre 2009

Moravia, "1934"

di Francesco Barresi (ruutura@hotmail.it)

Invito alla lettura.


Un romanzo esemplare di appena sedici capitoli in cui Moravia parla della disperazione come unica legge di vita, descrivendo e denunciando implicitamente lo spirito della borghesia degli anni ’80 “suicida a sé stessa”.

La vicenda è ambientata nell’Italia fascista e troverà il suo sviluppo a Capri quando Lucio, un giovane intellettuale, anti-fascista solo perché odia il conformismo e la massa, amante di Kleist e di Nietzsche, spera di trovare lì l’ispirazione per scrivere un libro portando con sé nell'isola una condizione di profonda melanconia: il compito dei suoi pensieri sembra difatti essere quello di "stabilizzare la disperazione", cioè di porsi nella condizione di convivere con la propria disperazione esistenziale senza cadere nel buio richiamo del suicidio.

Nella stessa pensione dove pernotta, Lucio avrà modo di conoscere Beate, una malinconica e riservata attrice tedesca che sembra volergli comunicare con un gioco di sguardi, turbamenti, silenzi allusivi, ammiccamenti appena accennati, quelle stesse inquietudini che pervadono l'animo del giovane. Quando a poco a poco Lucio si innamorerà di lei e del mistero che racchiude, Beate lascerà Capri senza che nulla sia avvenuto e al suo posto arriverà la sua gemella, Trude, identica a Beate ma più spregiudicata e accattivante. La vicenda sembra complicarsi perché Lucio comincerà a chiedersi se Trude e Beate siano veramente gemelle o se siano la stessa persona, investigando in un gioco complesso di conturbante sessualità e perfetta mistificazione, che Beate sembra proporgli fino al tragico epilogo del suicidio della ragazza.

Il titolo è dedicato all’anno in cui il discorso di Hitler (30 Giugno del, appunto, 1934) diede il via ad una notte di sangue, “la notte dei lunghi coltelli”. Moravia difatti non rinuncia a calare i propri personaggi negli eventi politici del tempo, nonostante il vero tema sia l’idea che il protagonista chiarisce, a sé stesso e al lettore, di rendere culturale la disperazione, di integrarla nella vita. Di fronte al furore suicida di Beate, Lucio pensa che sia necessario fare della disperazione una condizione normale, vissuta stoicamente, di sentirla come una legge di vita perché la ritiene l'unica maniera possibile per vivere.
Lucio ha ventisette anni nel romanzo e colpisce il fatto che proprio nel 1934 Moravia aveva la stessa età del protagonista, come se lo scrittore volesse dichiarare la paternità di tutta quella schiera di intellettuali di cui si sente parte, utilizzando una narrazione in prima persona che rivela unanimità di idee e sentimenti che accomunano scrittore e protagonista. Inoltre la storia e la società fanno da cornice all’analisi psicologica anche se lo scrittore non li pone sullo stesso piano bensì li amalgama. Ma il vero tema di 1934 consiste nel far gravitare intorno agli interrogativi sulla disperazione e sul suicidio tutto il romanzo, e il posto d’onore viene lasciato a quella storia costruita sugli sguardi, sulle parole non dette, sui pensieri carpiti, sugli indizi che Beate lascia trovare a Lucio.

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giovedì 10 dicembre 2009

Filosofia e pratica medica

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Gli sviluppi della tecnologia e della scienza medica, ci pongono di fronte a delle nuove questioni etiche (tra cui, addirittura, anche un’eventuale ridefinizione del concetto di vita), con le quali siamo tutti chiamati ad avere a che fare. Fra i pensatori che in età contemporanea si sono dedicati alla riflessione su tali questioni, risultano essere particolarmente significativi i contributi di Hans Jonas, Karl Jaspers e Hans-Georg Gadamer.
Jonas, in opere come Dalla fede antica all’uomo tecnologico, Il principio responsabilità, La filosofia alle soglie del Duemila, Organismo e libertà, Scienza come esperienza personale, Tecnica, medicina ed etica, pone la libertà come il fondamentale modus essendi di ogni forma di vita, da questa semplice considerazione derivano delle enormi responsabilità per l’uomo contemporaneo. Quest’ultimo infatti, a causa delle enormi conseguenze che può produrre nel tempo e nello spazio, tramite le nuove tecnologie, che lo rendono, nelle parole dello stesso Jonas, un “Prometeo scatenato”, diviene responsabile non solo della propria libertà ma anche di quella degli altri viventi. La definizione di nuovi diritti e doveri nei confronti di tutti i viventi e dell’ambiente che ci ospita, diviene allora prioritaria per tale Prometeo scatenato: ad una nuova ontologia deve corrispondere una nuova morale.
Jaspers, in testi quali Psicopatologia generale e Il medico nell’era della tecnica, fa notare come la pratica medica sia sostanzialmente ambigua: essa è infatti al contempo una scienza (indubbiamente) ed un’”arte” che ha un suo scopo, la guarigione come ripristino della naturalità, un suo oggetto, l’organismo vivente, un suo luogo, l’interno dell’organismo, ed una sua specifica prospettiva, quella di affrontare ogni caso, ergo ogni organismo, come unico, mettendo in campo una mescolanza di sapere, esperienza e intuizione. Il medico risulta così essere un “creatore” di salute, con tutte le responsabilità che ne derivano, accresciute, oggi, dalle nuove potenzialità di una medicina tecnologicamente supportata.
In cosa consistano queste, dilatate, responsabilità, viene da Gadamer focalizzato in Dove si nasconde la salute. L’etica della responsabilità rifiuta gli estremi dell’accettazione rassegnata dello status quo e dell’elaborazione presuntuosa di un futuro perfetto; essa è sì critica costruttiva allo status quo e tensione verso il futuro, ma verso un futuro non precostituito, aperto a molteplici possibilità, molteplici contenuti, che siano però sempre il frutto di un’unione consapevole fra necessità e libertà, finalizzata al raggiungimento di una “salute”, che altro non è che una condizione di equilibrio, armonia, senso della misura, nel rapporto con se stessi, gli altri ed il mondo in cui siamo inseriti.

("Periodico Italiano webmagazine", 25/11/2009)

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mercoledì 9 dicembre 2009

Pittura e letteratura nell'archeologia di Michel Foucault

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Miriam Iacomini, Le parole e le immagini. Saggio su Michel Foucault, Quodlibet, Macerata 2008

(Dalla quarta di copertina)

Il volume indaga la prospettiva archeologica che orienta la ricerca foucaultiana degli anni ‘60. Si tratta di un tema che viene affrontato privilegiando l’analisi di tutta una serie di testi apparentemente marginali rispetto alle grandi questioni teoriche poste dalla ricostruzione storica delle pratiche del sapere. L’autrice, infatti, prende in considerazione quella serie di scritti sulla letteratura e la pittura che, avendo un carattere saggistico e d’occasione, superficialmente non sembrano avere una ricaduta sul lavoro archeologico. Però, se si leggono tali intereventi in riferimento al momento in cui Foucault nei sui principali scritti cita l’esemplarità dell’opera d’arte, allora emerge un quadro ben preciso: letteratura e pittura sembrano disegnare l’una la curva di movimento, l’altra il diagramma di stato di un’epoca storica archeologicamente determinata. Si profila, così, la possibilità di intendere la pittura e la letteratura come due pratiche che, ognuna nel suo specifico ruolo e attraverso la loro alternanza, il loro ritmo, ci restituiscono da un altro punto di vista – un’angolazione privilegiata – quel tipo di storia filosofica che Foucault ricostruisce adottando uno sguardo archeologico e alla quale dà il nome di “genealogia”.

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domenica 6 dicembre 2009

I “Miserabili” di Paolini

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Senza dei forti contrappesi culturali Economia e Politica non sono in grado di pianificare il nostro futuro

Marco Paolini, Note d’autore, in Jolefilm.it

Racconto del Vajont, Il Milione, Il Sergente, La macchina del capo, sono alcuni dei lavori di Marco Paolini passati sul piccolo schermo, sul quale l’attore, autore e regista bellunese ha recentemente inaugurato una nuova collaborazione con La7, il cui primo frutto è stato Miserabili. Io e Margaret Thatcher.
In questo testo teatrale, scritto insieme ad Andrea Bajani e costruito come un racconto in forma di ballata (con brani dei “Mercanti di Liquore”), Paolini descrive l’invadenza, quasi impalpabile nel suo insinuarsi ma palese nelle sue conseguenze, dell’economia sulle e nelle vite degli italiani a partire dagli anni Ottanta, e che ha fatto sì che oggi l’atto di spendere non sia più proposto come una possibilità, ma come un dovere. Non a caso, il luogo scelto per la rappresentazione televisiva è il molo-container di Taranto, adiacente all’Ilva. Questo luogo è infatti considerabile come una sorta di “metafora concreta” sia dei processi commerciali e consumistici tipici della società contemporanea: il muro di containers, abbattibile solo con la consumazione della merce che vi è dentro, ma subito rigenerantesi, e sostituente l’importanza e il significato del Muro di Berlino, poiché se prima era la politica a disporre della e determinare la vita degli uomini, ora sono i processi economici sovranazionali; sia dell’impatto ambientale che gli stessi processi economici determinano: emblematico l’impianto dell’Ilva.
Mutuando una tradizione tipica del rugby (del quale Paolini è un appassionato), la serata dei Miserabili si chiude con un “terzo tempo” nel quale gli spettatori sono invitati ad analizzare e commentare i temi rappresentati.

("Periodico Italiano webmagazine", 03/12/2009)

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giovedì 3 dicembre 2009

Ce ne ricorderemo di lui?

di Francesco Barresi (ruutura@hotmail.it)

A vent’anni dalla sua scomparsa è ancora vivo il ricordo di uno degli intellettuali più statuari che il Novecento abbia potuto partorire e cullare nelle sue atrocità e misfatti.
Il ricordo di Leonardo Sciascia torna vivo nella mente dei lettori italiani quando, per ricordare lo scrittore di Racalmuto, il 30 ottobre 2008 viene lanciato ufficialmente a Firenze un manifesto dal titolo “Ce ne ricorderemo di questo maestro”, che è stato firmato da decine di uomini di cultura in varie parti del mondo: il Nobel 2006 per la Letteratura, Orhan Pamuk, il direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, Salvatore Settis, scrittori come Andrea Camilleri, Dacia Maraini, Mario Andrea Rigoni e Vincenzo Consolo, filosofi come Fernando Savater e Massimo Piattelli-Palmarini, uomini politici come Marco Pannella ed Emanuele Macaluso, l'editore Elvira Sellerio, pittori come Piero Guccione e Bruno Caruso e molti altri.
Celebri sono i film tratti dai suoi romanzi come Il giorno della civetta, diretto dal regista Damiano Damiani nel 1968, con il quale lo scrittore indica nel giallo il genere di riferimento delle sue opere, oppure A ciascuno il suo diretto da Elio Petri nel 1966, tratto dall’omonimo romanzo.
Potremmo parlare di tutta la copiosa e fortunata produzione di questo grande scrittore ma è doveroso ricordare anche il suo impegno nella lotta al terrorismo, alla mafia, che coraggiosamente Sciascia denunciò nei suoi romanzi e nella sua prassi politica, assumendo l’incarico di componente della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro ( che darà i natali al fortunato libro, L’affaire Moro) e sul terrorismo in Italia.
Torna sempre più attuale la sua ironica e pungente denuncia delle connivenze tra Stato e mafia, che nelle sue parole scorre fluida con allusive osservazioni e ammiccamenti che incredibilmente sembrano alludere all’Italia di oggi.
La sua figura di uomo di lettere e intellettuale impegnato sembra contraddire quelle ombrose figure di intellettuali moraviani sempre più dediti ad una acerba speculazione, mentre la sua voce è una voce critica garante delle sua coerenza morale, che lo portò persino a dimettersi nel 1977 dalla carica di consigliere del P.C.I. dopo scontri molto duri con la dirigenza del partito, sempre più ancorata ad una retorica populista e ormai svuotata di quel generoso movimento rivoluzionario che ben lo esaltò ad alfiere di giustizia. E in quello stesso anno la critica acuta di Sciascia ritorna, pubblicando Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia (dove è chiaro il riferimento al Candido di Voltaire) in cui rivela, sempre in un sottile gioco di allusioni e immagini, l’amarezza della sua esperienza politica.
Ma ciò che rimane veramente impresso è il lapidario commento lasciato, alla fine della sua vita, davanti il cimitero di Racalmuto: «Ce ne ricorderemo di questo pianeta» desunto da un manoscritto conservato dalla famiglia, in cui Sciascia scrive: «Ho deciso di farmi scrivere sulla tomba qualcosa di meno personale e di più ameno, e precisamente questa frase di Villiers de l'Isle-Adam: "Ce ne ricorderemo di questo pianeta". E così partecipo alla scommessa di Pascal e avverto che una certa attenzione questa terra, questa vita, la meritano».
Potremmo forse dire, come sintetica conclusione, che Sciascia non aveva intuito una cosa: se la nostra memoria, spezzata dalla morte, probabilmente ci impedirà di ricordarci di questa Terra proprio come recita il suo epitaffio, sicuramente non abbiamo mancato all’appuntamento di ricordarci di lui, un grande modello di intellettuale da porre come esempio nostalgico, uomo che fece del dubbio il lume della sua speculazione critica, icona di uno scrittore profondamente radicato nella sua amatissima terra, la Sicilia, luogo affascinante e contraddittorio che lo portò ad assurgerla come metafora della vita mentre lui, Sciascia, continuava ad indagare la realtà con gli occhi di un uomo vissuto all’insegna della propria coerenza morale, virtù che dopo vent’anni dovrebbe essere gridata a calda voce a chi tale virtù la dichiara a parole solo durante le campagne elettorali per il proprio tornaconto.
Speriamo allora di poterci ricordare di lui, di leggerlo, di interiorizzarlo, di capire il messaggio profondo che traspare dalle sue pagine, perché lasciare Leonardo Sciascia negli scaffali del dimenticatoio non sarebbe uno scandalo in senso stretto, ma solo la conferma di una società italiana che attende da tempo una rigenerazione morale, troppo a lungo rimandata.

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