lunedì 29 giugno 2009

La morte della Bellezza

di Roberta Carlesimo (a.carlesimo@libero.it)

Ma ecco, il Kitsch è la menzogna che tradisce, uccide la Bellezza. Eppure oltre questa bugia si nasconde alla fine del tutto quell'incomprensibile Verità che io credo sia la vita stessa. E se Milan Kundera fa dire a Sabina "Io non sono nemica del comunismo, io sono nemica del Kitsch" ciò sta a dire esattamente questo: che il nemico ultimo dell'esistenza e della Bellezza medesima è la pienezza barocca e altisonante, tronfia insomma, di un'idealizzazione. La vita, la vita autentica ignora il Kitsch, che è finzione, che è velo sulla Bellezza dell'esistenza e ricerca di una perfezione estranea alla contingenza stupenda del nostro vivere. La vita si nutre, invece, di quella Bellezza che conosce il vuoto e che, nella mancanza del vivere, si forgia e si fortifica. La vita è mancanza e l'uomo vive solo se riesce a conoscere, a sentire, ad esperire la Bellezza di quella mancanza.

"Sabina, che allora aveva vent'anni, studiava all'Accademia di Belle Arti. Il professore di marxismo spiegava a lei e ai suoi compagni la seguente tesi dell'arte socialista: la società sovietica è arrivata tanto avanti che in essa il conflitto fondamentale non è più fra il bene e il male, ma fra il bene e il meglio. La merda (vale a dire ciò che è essenzialmente inaccettabile) poteva quindi esistere solo dall'alta parte (per esempio in america) e solo da lì, da fuori e solo come un corpo estraneo (per esempio sottoforma di spie) poteva penetrare nel mondo dei buoni e dei migliori. E in effetti, i film sovietici che invadevano i cinema di tutti i Paesi comunisti in quell'epoca ferocissima fra tutte le epoche erano impregnati di un'incredibile innocenza. Il conflitto maggiore che potesse aver luogo tra due russi era un malinteso d'amore: lui pensa che lei non lo ami più, lei pensa la stessa cosa di lui. Alla fine cadono uno tra le braccia dell'altra e dai loro occhi scendono lacrime di felicità. Oggi, la spiegazione convenzionale che si dà di quei film è la seguente: essi mostrano l'ideale comunista, mentre la realtà comunista era peggiore. Sabina si ribellava contro questa spiegazione. L'idea del mondo del Kitsch sovietico che sarebbe potuto diventare realtà e che lei avrebbe potuto viverci dentro le faceva venire i brividi. Avrebbe preferito senz'alcuna esitazione la vita in un regime comunista autentico pur con tutte le persecuzioni e le code per la carne. Nel mondo comunista reale è ancora possibile vivere. Nel mondo dell'ideale comunista realizzato, in questo mondo di idioti sorridenti, con i quali lei non riuscirebbe a scambiare una sola parola, morirebbe di orrore in una settimana... Il sogno di terza smaschera la vera funzione del Kitsch: il Kitsch è un paravento che nasconde la morte. Nel regno del Kitsch totalitario, le risposte sono già date in precedenza ed escludono qualsivoglia domanda. Una domanda è come un coltello che squarcia la tela di un fondale dipinto per permetterci di dare un'occhiata a ciò che si nasconde dietro... Davanti c'è la menzogna comprensibile e dietro l'incomprensibile verità... L'origine del Kitsch è l'accordo categorico con l'essere."

Milan Kundera, L'insostenibile leggerezza dell'essere



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venerdì 26 giugno 2009

Discorso di Pericle agli ateniesi


di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Al termine del primo anno della guerra del Peloponneso (che vedrà contrapposte Atene e Sparta, con le rispettive coalizioni, dal 431 al 404 a.C.) Pericle, secondo la tradizione ateniese, pronuncia un epitaffio per commemorare i caduti ateniesi. Da questa commemorazione, giunta sino a noi grazie a Tucidide, emerge l'ethos della pòlis di Atene. Se ne riportano di seguito i passaggi più significativi.

"Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo
viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.

Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro
dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.

Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di
altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una
ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.

Qui ad Atene noi facciamo così.

La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non
siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro
prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.
Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia
siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.

Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle
proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici
affari per risolvere le sue questioni private.

Qui ad Atene noi facciamo così.

Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato
anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo
proteggere coloro che ricevono offesa.

E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che
risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è
buon senso.

Qui ad Atene noi facciamo così.

Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo,
ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una
politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.

Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della
democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà
sia solo il frutto del valore.

Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni
ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso,
la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la
nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.

Qui ad Atene noi facciamo così."


Tucidide, La guerra del Peloponneso

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martedì 23 giugno 2009

Pensieri (im)politici

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Gli uomini dei secoli democratici amano le idee generali, perché queste li dispensano dallo studiare i casi particolari
A. de Tocqueville, La democrazia in America

La politica e la conseguente attività di politico è oggi considerata una professione, al pari di altre; è un bene considerarla tale, o forse la politica dovrebbe essere, di fatto, accessibile a chiunque (avendo le basilari conoscenze dei meccanismi civici, ormai indispensabili nell’amministrazione di un Paese) desideri accedervi? Cosa succederebbe se scomparisse la figura del "politico di professione"?

Egli, insieme ai partiti, rappresenta la causa della trasformazione della politica, da azione ad amministrazione, la quale si esplica non tramite la condivisione di parole e azioni, ma attraverso delle precise tecniche, note solo ai professionisti della politica. L’agorà si muta così in "Palazzo", testimoniando il fatto che il primo pericolo che ogni regime politico corre è quello di una degenerazione dall’interno. Tale disintegrazione del sistema politico ne mina la legittimità, poiché dilata le distanze fra i cittadini e gli amministratori del potere, ponendo a quelli dei dubbi sull’autorità governativa di questi; si generano così delle tensioni sociali che, non di rado, sfociano in episodi di violenza. Ma, come ha notato Hannah Arendt, per contestare e contrastare la degenerazione della politica esiste un’alternativa alla violenza: la disobbedienza civile(1).

La disobbedienza civile esprime la posizione di un gruppo di persone accomunate da una medesima opinione che, nonostante sia, o proprio in quanto è un’opinione minoritaria, sentono il desiderio di manifestare. La disobbedienza civile nasce da un accordo reciproco fra coloro che la praticano e tale accordo non è assimilabile né ad una sorta di patto religioso né laico. Nel primo caso infatti, i partecipanti dovrebbero obbedire ad ogni cosa che venisse loro rivelata da un’autorità superiore; nel secondo, dovrebbero rinunciare ai propri diritti, affidandosi ad un potere politico assoluto; in entrambi i casi stipulerebbero un patto verticale. La disobbedienza civile è invece assimilabile, per la Arendt, ad una sorta di contratto sociale orizzontale, simile a quello descritto da John Locke nei Due trattai sul governo. Esso infatti produce un accordo fra pari, che si impegnano reciprocamente fra loro, originando una societas (nel senso latino di alleanza) orizzontale che costituisce la base per l’istituzione di un governo, base che, anche qualora il governo dovesse sciogliersi, rimarrebbe intatta(2). Inoltre, la disobbedienza civile, rappresenta una possibilità di azione politica diretta in un mondo in cui tale possibilità è limitata all’elezione di rappresentanti; disobbedendo civilmente si può (ri)assaporare il gusto di una vita pubblica fatta di condivisione di esperienze e di relazioni con gli altri. La disobbedienza civile offre, insomma, la possibilità di fare attivamente politica, trascendendo i limiti della rappresentatività della quale, però, la Arendt riconosce la necessità, dovuta alle ampie dimensioni delle società attuali. Quello di cui, infatti, ella va in cerca è un modo per unire le esigenze della politica contemporanea, con lo spirito della Grecia classica, ovvero «un principio di organizzazione completamente diverso, che ha inizio dal basso, continua verso l’alto e alla fine porta a un Parlamento»(3).
E’ per queste ragioni che la Arendt, fin dagli anni Quaranta, ha proposto una soluzione politica della disputa israelo-palestinese. Non è però uno Stato binazionale, ebraico ed arabo, ciò di cui la filosofa tedesca auspica l’avvento, esso infatti continuerebbe a propinare l’idea di un “blocco” israeliano contrapposto ad uno palestinese, costituendo così la trasposizione parlamentare di quegli scontri extra-parlamentari che vorrebbe risolvere: lo Stato israeliano e quello palestinese si porrebbero, l’uno nei confronti dell’altro, in un atteggiamento di chiusura o, nella migliore delle ipotesi, di filantropica tolleranza. Al contrario, una Federazione costringerebbe i diversi soggetti politici che la compongono a dialogare fra loro (ovvero a condividere parole e atti in uno spazio comune) al fine di edificare un’unica e comune realtà politica: «Una vera federazione è composta da diversi elementi nazionali chiaramente distinti, o da altri elementi politici, che insieme organizzano lo Stato»(4) La Federazione, quindi, dovendo pervenire ad un’unica e condivisa definizione della propria costituzione, non si limita ad affiancare fra loro diversi soggetti politici (come nel caso di uno Stato plurinazionale), ma obbliga questi ultimi ad interagire per giungere ad un accordo sui propri principi universali. Portando avanti tali considerazioni negli anni Quaranta, la Arendt rintraccia negli Stati Uniti d’America, nell’ Unione Sovietica e nel Commonwealth britannico, i più rilevanti esempi di Federazione. Non deve pertanto stupire il fatto che il modello della Federazione venga proposto come modello da applicare anche in Europa (precorrendo così il sorgere dell’attuale Unione Europea), cioè in quel continente in cui


La vittoriosa avanzata degli eserciti alleati, la liberazione della Francia e la continua disgregazione della macchina militare e del terrore tedesca hanno riportato alla luce la struttura originaria di questa guerra, che ha avuto inizio come guerra civile intereuropea(5)

Se la Seconda Guerra Mondiale può essere interpretata, almeno nelle sue origini, come una guerra civile, possono allora, a maggior ragione, essere così interpretati tutti i conflitti dell’odierno mondo globalizzato; diviene pertanto ancora più degno d’attenzione il modello politico federativo. In esso, dovremmo oggi chiederci, se e come sarebbe possibile realizzare una democrazia che sia confronto con gli altri, senza travolgerli o esserne travolti, cioè senza fondersi con gli altri, ma mantenendo la propria individualità all’interno di un paradigma politico condiviso e unificato, ma non per questo omogeneo.
E’ anche da ricordare come la Arendt più matura (quella cioè successiva a Le origini del totalitarismo ed a Vita activa), trovi una conferma delle proprie fondamentali linee di riflessione, nel pensiero politico di Alexis de Tocqueville(6). Anche per il pensatore francese infatti la natura della politica, in generale, e quella della democrazia, in particolare, risiede nella libertà di autodeterminare le proprie azioni e, afferma Tocqueville, la possibilità di fare ciò, dedicandosi alla politica, è, nell’America da lui osservata, garantita a tutti i cittadini (e non solo a chi risulta esonerato dallo svolgimento di attività pre-poltiche), grazie all’“uguaglianza delle condizioni”:

Senza fatica constatai la prodigiosa influenza che l’eguaglianza delle condizioni esercita sull’andamento della società; essa dà allo spirito pubblico una determinata direzione, alle leggi un determinato indirizzo, ai governanti nuovi principi, ai governati abitudini particolari […] più studiavo la società americana, più vedevo nell’eguaglianza delle condizioni la forza generatrice da cui pareva derivare ogni fatto particolare(7)

Forse è proprio cercando di mediare, sotto l’influsso di Tocqueville, fra una politica elitaria, aristocratica, ed una “popolare”, dal basso, che rilasciando un’intervista nel 1972 allo scrittore Adelbert Reif, la Arendt ebbe a dire:

Non è affatto necessario che tutti quelli che vivono in un paese siano membri di un consiglio. Non tutti vogliono o debbono preoccuparsi degli affari pubblici. In questo modo è possibile un processo di autoselezione per mettere assieme una vera élite politica nel paese. Chiunque non è interessato agli affari pubblici si accontenterà semplicemente di vedere che siano decisi senza di lui. Ma a ogni persona deve essere data la possibilità di formare un nuovo concetto di Stato(8)

1) L’importanza, agli occhi della Arendt, di queste due forme di contestazione è comprensibile sin dai titoli di saggi come: La disobbedienza civile, e Sulla violenza, in Politica e menzogna, SugarCo, Milano 1985.
2) E’ interessante notare che, da questa prospettiva, la societas rappresenta per la politica moderna quel sostrato indispensabile che, per la politica antica, era dato dalla sfera privata.
3) H. Arendt, Pensieri sulla politica e la rivoluzione, in Politica e menzogna, cit., p. 281.

4) H. Arendt, Antisemitismo e identità ebraica, Comunità, Torino 2002, p. 89; poco prima (pp. 66 e 86) viene criticamente ricordato come il programma di uno Stato binazionale sia stato proposto, per la prima volta, da Judah Leon Magnes, fondatore della Yichud; sui rapporti della Arendt con la cultura ebraica cfr. F. G. Friedman, Hannah Arendt, Piper, München-Zürich 1985.

5) Ibidem, p. 121.

6) Cfr. H. Arendt, Politica e menzogna, cit.; bisogna però rilevare come la Arendt non si confronti col secondo libro della Democrazia in America, quello cioè che sottolinea il carattere onnipervasivo del potere amministrativo, l’apatia dei singoli divenuti folla e l’abrutimento sia dei lavoratori salariati che dei capitalisti.

7) A. de Tocqueville, La democrazia in America, in Scritti politici, UTET, Torino 1968-1969, 2 voll, vol. 2, p. 15; sull’argomento cfr. G. Bedeschi, Il pensiero politico di Tocqueville, Laterza, Roma-Bari 1996.

8) H. Arendt, Pensieri sulla politica e la rivoluzione, in Politica e menzogna, cit., p. 282.


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venerdì 19 giugno 2009

Il modello democratico delle "pòleis" in Hannah Arendt



di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

La democrazia è la risposta che, sia sul piano concettuale che fattuale, il mondo occidentale ha dato per superare i vari mali della politica, dal dispotismo al totalitarismo, inteso in tutte le sue possibili accezioni e varianti teorico-pratiche. Eppure, nella cultura occidentale, sono presenti anche delle critiche nei confronti dell’idea e/o della messa in pratica della democrazia: da Platone, che la considera una forma di degenerazione dello Stato, al pari della timocrazia, dell’oligarchia e della tirannide, a chi, come ad esempio Alexis de Tocqueville, ne denuncia l’insito pericolo "dispotico", ovvero quello di una tirannia della maggioranza(1). Il limite della democrazia appare allora quello della possibile cristallizzazione di determinate regole e procedure, rischio però evitabile mantenendo una costante rivedibilità delle norme, alla cui (ri)definizione possa partecipare chiunque, avendo i requisiti necessari(2), desideri farlo.
Significativo, a questo proposito, è il soffermarsi di Hannah Arendt sulla definizione aristotelica di uomo come
zōon politikon, in essa è infatti presente la concezione greca della politica, intesa come bios politikos, come un vivere politico che non rappresenta una semplice dilatazione della vita privata (come nel caso della phratria e della philē), ma un nuovo ordine d’esistenza (inaugurato dalle pòleis) fondato su ciò che, a parte le necessità biologiche, accomuna gli uomini: praxis (l’azione) e lexis (il discorso). Fra questi due elementi costitutivi delle pòleis, il secondo ha preso gradualmente il sopravvento sul primo (distinguendosi peraltro in retorica, l’arte del discorso pubblico, e dialettica, l’arte del discorso filosofico), portando così Aristotele ad una seconda definizione di uomo, quella di zōon logon ekhon (essere vivente capace di discorso/ragionamento; il termine logos racchiude entrambi i significati). Così, per la Arendt, le pòleis hanno infine adottato la parola e la persuasione come strumento decisionale, considerando la violenza ed il potere incontrastato di uno o pochi uomini, delle forme relazionali prepolitiche, tipiche della vita domestica o degli imperi asiatici, per questo considerati barbarici; in politica, insomma, non esiste alcun pater familias. Per questo la Arendt critica le traduzioni, riconducibili a Tommaso d’Aquino, di zōon politikon come essere sociale, e di zōon logon ekhon come essere razionale; in entrambe queste traduzioni infatti, si perde la concezione originale greca della politica: nel primo caso si confonde il bios politikos con una generica societas, nel secondo si commette l’errore di supporre che, per i greci, il logos sia una facoltà propria di tutti gli uomini, anziché comprendere come esso rappresenti un modus vivendi tipico solo di chi vive nel bios politikos. A causa di queste scorrette traduzioni, il cui errore di fondo sta nell’avere voluto adattare al pensiero romano-cristiano espressioni provenienti da un altro mondo culturale, quello greco antico, la sfera politica è stata gradualmente sostituita da quella sociale.
Nelle
pòleis la sfera della politica è la sfera della libertà, e in quanto tale si oppone alla sfera delle necessità, cioè alla sfera domestica. In quest’ultima gli uomini si uniscono spinti dai loro bisogni e dalle loro necessità, e l’uso della forza e della violenza è giustificato poiché rappresenta il solo modo per avere ragione della necessità; nella sfera domestica vige una rigida disuguaglianza che consente il dominio del pater familias(3). La sfera politica, al contrario, si basa sulla libertà e sull’eguaglianza di tutti i suoi membri, infatti, essere liberi significa essere liberi dalle urgenze della vita e dalla disuguaglianza gerarchica relativa ad ogni forma di dominio. La sovrapposizione della sfera domestica su quella politica genera la società, la cui caratteristica di fondo consiste pertanto nel significato pubblico assunto dalle necessità private, in primo luogo quelle biologiche (non a caso prima dell’avvento della sfera sociale la schiavitù viene considerata un male peggiore della morte e gli schiavi vengono considerati dei codardi per non preferire la morte alla condizione servile, opinione questa incompatibile con la sacralizzazione della vita successivamente operata dal cristianesimo). Quindi, nella sensibilità antica, vivere nella sfera domestica è tutt’altra cosa che vivere nella sfera pubblica, nella prima infatti l’uomo è privato della possibilità di mostrare ed esprimere le sue facoltà più alte, e dunque non è considerato propriamente umano.

Una delle caratteristiche della vita privata […] era che l’uomo esisteva in questa sfera non come un vero essere umano ma solo come un caso della specie animale del genere-umano. Questa, precisamente, fu la ragione ultima dello straordinario disprezzo concepito per essa dall’antichità
(4)

Ora, l’avvento del sociale non solo sposta nella politica temi considerati nell’antichità pre- o addirittura anti-politici, come ad esempio il mantenimento della vita biologica, ma determina anche una "gerarchizzazione della vita pubblica". Infatti, la disuguaglianza tipica della sfera domestica investe la società, si passa così dalla gerarchia dei membri di una famiglia, alla gerarchia dei gruppi di una società. Tuttavia, a differenza dell’ordine familiare, nell’ordine sociale non è identificabile il soggetto detenente il potere, il quale diviene così impersonale, cioè burocratico, ma non per questo privo di forza, anzi, la sua forza risiede nell’affidare a ciascun membro della società un genere di comportamento, così da "normalizzarne" la condotta, escludendo in lui la possibilità di azioni spontanee, impreviste o eccezionali. Se l’azione è tipica della sfera politica antica, il comportamento lo è della società moderna: l’azione è una modalità di relazione tra gli uomini, grazie alla quale potersi distinguere dagli altri, tramite gesta e imprese fuori dal comune, ovvero eccellendo; il comportamento descrive fatti tipici di interi gruppi sociali nei quali i gesti del singolo, non solo sono irrilevanti, ma se si discostano troppo dai modelli sociali dominanti, dal conformismo che essi impongono, determinano la asocialità o la anormalità di quel singolo, per questo i comportamenti vengono descritti con le leggi della statistica. Così, la società uniforma gli uomini permettendo un solo interesse ed una sola opinione, in altri termini, non è tollerata alcuna forma di differenza rispetto al "comportamento sociale". Queste problematiche sono, per la Arendt, inevitabilmente legate al venire meno della sfera pubblica, in altre parole, non è possibile allontanarsi dal paradigma politico antico, senza incorrere nei suddetti problemi poiché la dimensione pubblica antica costituisce l’unico spazio adeguato al raggiungimento dell’eccellenza umana in una qualsiasi attività, eccellenza che risulta, nella modernità, priva di una sede in cui potersi manifestare. Inoltre, è corresponsabile della perdita dello spazio pubblico così come era inteso nelle pòleis, qualsiasi pensiero che si basi sull’assunto che il mondo non durerà: per tal via si inibisce ulteriormente il desiderio di eccellere, poiché esso è legato alla volontà di determinare anche nel futuro, oltre che nel presente, una traccia duratura della propria esistenza, ricercando così l’immortalità, ovvero il ricordo da parte delle future generazioni:


Alla base dell’antica stima riservata alla politica è la convinzione che l’uomo in quanto uomo, ogni individuo nella sua irripetibile unicità, appare e conquista la sua identità nel discorso e nell’azione, e che queste attività, malgrado la loro futilità da un punto di vista materiale, posseggono una qualità durevole perché provocano il ricordo di sé(5)


Ciò non sta ad indicare la presenza, negli antichi greci, di una sorta di egoismo individualistico, ma il fatto che, per essi, si potesse avere un’identità personale solo avendo una "storia" da condividere con gli altri uomini e da lasciare in eredità, sottoforma di "fama immortale", alle future generazioni. Da questa prospettiva, la
pòlis rappresenta lo scenario ideale nel quale poter acquisire, tramite la condivisione di parole e atti, tale fama immortale. La pòlis è, quindi, memoria delle gesta del passato e "palcoscenico" per quelle del presente, finalizzate all’essere ricordati nel futuro. Pertanto le pòleis non si debbono considerare solo come delle Città-Stato fisicamente situate in un territorio, ma come una specifica organizzazione umana scaturente dall’agire e dal parlare insieme all’interno di un determinato spazio comune in cui poter apparire; insomma per la Arendt, la pòlis è l’esatto opposto di ciò che è il totalitarismo: essa rappresenta non un determinato evento storico-politico, ma una vera e propria categoria concettuale, indipendente dalle coordinate spazio-temporali di realizzazione:

"Ovunque andrete, voi sarete una polis": queste parole famose non solo furono la parola d’ordine della colonizzazione greca, ma esprimevano la convinzione che l’azione e il discorso creano uno spazio tra i partecipanti che può trovare la propria collocazione pressoché in ogni tempo e in ogni luogo(6)

Tuttavia, da ciò non si deve erroneamente evincere che la Arendt aneli all’


esclusione o (al)la negazione della sfera sociale, che non avrebbe senso in una moderna concezione dell’agire, ma (al)la sua necessaria sottomissione alla sfera della politeia. In altri termini, per poter agire in pubblico, con gli altri, un essere umano deve radicarsi necessariamente nel privato – deve esistere come creatura, grata delle sue origini e sola dinanzi alle domande poste dal mero fatto di esistere – ma, a partire da tale solitudine e privatezza, egli può fondare con gli altri uno spazio comune, in cui le differenze originarie non contano più. L’isonomia, tipo ideale della forma politica in Hannah Arendt, è infatti la conquista dell’uguaglianza, davanti alla legge comune, di esseri che restano essenzialmente diversi(7)


Ma diversamente, e ben distante, dai desideri della Arendt, ciò che si manifesta nella moderna dimensione sociale, non è più l’
aretē o la virtus, bensì sono le passioni e le emozioni soggettive che, uscendo dall’ambito dell’intimità ed invadendo la dimensione dell’essere in comune, causano il rischio di una deriva solipsistica, che mette in dubbio la certezza della realtà del mondo e degli altri uomini. Ciò accade perché nella moderna società di massa le relazioni fra gli uomini sono più rare e difficoltose che nel mondo antico. In esso infatti la condivisione della sfera pubblica offre agli uomini la possibilità di relazionarsi tra loro, mentre, nella società di massa non esiste alcun mondo comune (poiché lo spazio sociale è disgregato in una serie di proiezioni dell’intimità individuale) che possa mettere in relazione fra loro gli uomini. Ma, quando la Arendt si lamenta dell’assenza di un mondo comune, non si deve fraintendere ciò, supponendo che essa desideri l’esistenza di un’unica prospettiva dalla quale osservare la realtà (cadendo così nella sua stessa critica al concetto di ideologia), quello che rimpiange è invece l’esistenza di uno spazio comune all’interno del quale poter confrontare prospettive diverse: la distruzione di un mondo comune

può avvenire in condizioni di radicale isolamento […] Ma può anche accadere nelle condizioni di una società di massa o di isterismo di massa, in cui vediamo tutti comportarsi improvvisamente come se fossero membri di una sola famiglia, moltiplicando e prolungando ciascuno la prospettiva del suo vicino. In entrambi i casi gli uomini sono divenuti totalmente privati, cioè sono stati privati della facoltà di vedere e di udire gli altri, dell’essere visti e dell’essere uditi da loro. Sono tutti imprigionati nella soggettività della loro singola esperienza, che non cessa di essere singolare anche se la stessa esperienza viene moltiplicata innumerevoli volte
(8)

Quindi, se il termine "privato" nel suo uso originario indica la privazione della vita politica, esso indica invece oggi la privazione di una qualsiasi forma di relazione con gli altri, al punto tale che qualunque cosa un uomo faccia nella sua
privacy, rimane senza significato e senza importanza per gli altri. Non a caso la Arendt individua nella solitudine il fenomeno di massa par excellence dell’attuale società(9). La tendenza a rinchiudersi nella privacy si trova in nuce nel cristianesimo, per il quale la politica costituisce un peso che qualcuno deve assumersi per il bene di chi, libero da tale fardello, possa occuparsi della gestione della propria casa e della salvezza della propria anima; il radicarsi di tale prospettiva nell’odierna società conferisce talmente tanta importanza alla privacy, da esaltare tutto ciò che è in essa contenuto, in primo luogo la proprietà privata e la ricchezza. Significativo a questo proposito è il fatto che nel mondo antico il peculium, il possesso privato di uno schiavo, potesse ammontare a somme considerevoli, testimoniando dunque come la ricchezza non fosse tenuta in gran considerazione, in quanto ininfluente ai fini della vita politica; nell’antichità le ricchezze sono ininfluenti ai fini dell’ammissione alla vita pubblica, per accedere alla quale i requisiti richiesti sono quelli della libertà e dell’appartenenza alla comunità. Risulta in tal modo ancora più chiaro come la transizione dal mondo culturale antico a quello moderno consista essenzialmente nella trasformazione della cura privata dei beni privati (nei quali rientra sia la vita biologica che la ricchezza privata) in una preoccupazione pubblica(10). Per la Arendt, quindi, lo spazio privato priva gli uomini di una "esistenza autentica", raggiungibile solo in uno spazio pubblico nel quale l’uomo possa realizzare appieno la sua natura di "essere politico". Quello politico è, essenzialmente, un atto creativo, per potersi dedicare al quale la conditio sine qua non è la libertà dalle necessità naturali.
A mio avviso, questo però non significa che, come da alcuni interpreti dell’opera arendtiana è stato detto, l’azione sia, essenzialmente, contro natura, come se, nelle loro funzioni più alte, le pòleis rappresentassero una negazione della natura:

Esistenza contro natura. Contro natura è la cultura, la storia, epperciò anche (forse soprattutto) il senso che talvolta l’esistenza riesce a conferire alle cose del mondo e alle relazioni fra gli uomini(11)

Diversamente, ritengo che l’azione non sia, per la Arendt, una forma di opposizione alla natura, bensì una forma di trascendimento della natura, un andare oltre la natura, emancipandosi da essa il più possibile (tendendo, cioè, al balzo dal regno delle necessità a quello della libertà), senza per questo negarla: senza la vita biologica, l’esistenza politica non potrebbe avere luogo. Semmai, da tale prospettiva, la natura può rappresentare una negazione della cultura (in quanto una vita spesa unicamente nella dimensione biologica, come accade all’animal laborans, è del tutto impolitica), ma se la cultura distruggesse la natura, distruggerebbe le sue stesse fondamenta, collassando. La cultura non è contro natura, è oltre la natura.

1) Cfr. Platone, Repubblica, in Tutti gli scritti, Rusconi, Milano 1991, e A. de Tocqueville, La democrazia in America, in Scritti politici, UTET, Torino 1968-1969, 2 voll.
2) Ritengo infatti che l’accesso alla vita politica debba essere filtrato dal conseguimento di requisiti “tecnici” (conoscenza del funzionamento delle istituzioni) e culturali, che possano essere potenzialmente conseguiti da chiunque.
3) Per la Arendt, ciò è massimamente evidente nella legislazione ateniese di Solone, che limita il potere paterno solo nel caso in cui esso confligga con l’interesse della pòlis, inoltre, i diritti connessi alla domestica patria potestas rendono comprensibili fenomeni quali l’esposizione e la vendita dei lattanti: «il potere paterno era limitato solo quando veniva in conflitto con l’interesse della polis, e mai a vantaggio del singolo membro della famiglia», H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1991, p. 246, nota 16 al Cap. II.
4) Ibidem, p. 34.
5) Ibidem, p. 153, corsivo mio; anche la riflessione filosofica solitaria e la pratica della bontà cristiana contribuiscono alla distruzione dello spazio pubblico: la prima si basa su un dialogo solitario tra “sé e se stesso” (fondamentale come momento preliminare all’accesso alla sfera pubblica, deleterio per quest’ultima se fine a se stesso), la seconda si fonda sull’assunto che le buone azioni, per essere tali, non debbano essere né viste, né udite, né ricordate e, dunque, assenti da un mondo comune; cfr. La posizione delle attività umane, in Ibidem.
6) Ibidem, p. 145, corsivo mio.
7) A. Dal Lago, Introduzione, in H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 43-44, parentesi mie.
8) H. Arendt, Vita activa, cit., p. 43.
9) Sulla solitudine e l’isolamento come fenomeni della moderna società, cfr. D. Riesman, La folla solitaria, Il Mulino, Bologna 1956.
10) Esemplificativo di ciò è il fatto che, nella modernità, i soggetti benestanti non usano le proprie ricchezze come un fondo esonerante dal lavoro che consenta loro di accedere alla sfera pubblica, ma per l’accumulazione di ulteriore ricchezza, utilizzando il potere politico unicamente come protezione di questa.
11) P. Flores d’Arcais, L’esistenzialismo libertario di Hannah Arendt, in H Arendt, Politica e menzogna, SugarCo, Milano 1985, p. 17, cfr., dello stesso autore, Hannah Arendt: esistenza e libertà, autenticità e politica, Fazi, Roma 2006.

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martedì 16 giugno 2009

Invito al pensiero di Karl Marx

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Il pensiero di Karl Marx (1818-1883) si estende in vari campi: economia, politica, sociologia, storia, ma il terreno originario e fondante è essenzialmente filosofico e consiste nella concezione della vita umana come una forza creativa, una vivacità suprema in grado di trascendere la realtà data e, quindi, irriducibile a qualsiasi processo meramente produttivo ed utilitaristico.
Marx trae da Hegel la struttura dell'interpretazione dialettica della storia, divisa in tre momenti fondamentali: tesi (fenomeno di astrazione inteso come estrazione di un elemento dal tutto per farne un punto di partenza), antitesi (contraddizione della tesi) e sintesi (unione di tesi e antitesi, e tesi rispetto ad una successiva antitesi). Ma questi tre momenti dell'evoluzione della storia universale sono, da Marx, interpretati materialisticamente: all'idea di uomo come centro di conoscenza si sostituisce l'uomo come centro d'azioni inserite in determinati rapporti sociali (materialismo dialettico). L'applicazione di questa concezione allo studio della storia, porta Marx a cercare l'idea nella realtà stessa, giungendo alla convinzione che la realtà si muove attraverso una serie di balzi, salti, resi inevitabili dalla rottura dei vecchi equilibri sociali; pertanto, il nuovo equilibrio raggiunto è a sua volta provvisorio e costituisce il nuovo punto di partenza per un'ulteriore evoluzione storica (materialismo storico). Più specificatamente, i balzi, salti qualitativi (rivoluzioni) originano dal contrasto tra le "strutture" (forze produttive materiali) e le "sovrastrutture" (rapporti di produzione e loro regolamentazione giuridica, politica...). Il tipico aspetto della forza lavoro capitalisticamente sfruttata per trarne plusvalore è la divisione della società in classi sfruttate e classi sfruttatrici. E' per questo che la storia di ogni società finora esistita è storia di lotte di classi; nella società capitalistica la classe sfruttatrice è la borghesia e la classe sfruttata è il proletariato che, per la stessa conformazione produttiva assunta dalla società capitalista, non potrà liberare se stesso senza liberare l'intera società. Dunque per Marx, il superamento della società capitalistica non sarà altro che il risultato di un inevitabile processo storico. Ma Marx non ha mai ritenuto suo compito quello di indovinare le forme di organizzazione di vita della società senza classi, bensì si è sempre preoccupato di ricavare scientificamente dall'osservazione dei fatti il senso dello sviluppo della società. Una società che non viene immaginata come economicamente statica, ma nella quale il dinamismo economico sia dato non da un processo di produzione-sfruttamento-alienazione, ma dalla libera circolazione di merci; tale risultato è, secondo Marx, raggiungibile solo se i lavoratori divengono i detentori dei mezzi di produzione e, di conseguenza, eliminando il fenomeno dell'alienazione, inteso sia come sottrazione del prodotto del lavoro dal lavoratore, sia come mortificazione della personalità.
Senza dubbio il
Manifesto del partito comunista (scritto in collaborazione con Friedrich Engels) è l'opera più celebre di Marx; in esso non si trova un ennesimo sistema o principio comunista, ma si vuole solamente fornire l'espressione generalizzata delle condizioni di fatto di una lotta di classi che realmente esiste e che investe direttamente borghesi e proletari ed indirettamente ogni altro strato sociale. E' però parimenti importante la Critica del programma di Gotha, dato che è in essa che compare l'espressione che meglio riassume il comunismo marxiano, definendo i diritti e i doveri della persona nei confronti della comunità e della comunità nei confronti della persona: "da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo i suoi bisogni".


La storia di ogni società finora esistita è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri di corporazioni e garzoni, insomma oppressori e oppressi, sono stati sempre in reciproco antagonismo, conducendo una lotta senza fine, a volte nascosta, che portò in ogni caso o a una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o alla totale rovina delle classi in competizione.
K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista

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sabato 13 giugno 2009

Un patentino per votare

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Per guidare serve la patente, per portare un natante la patente nautica, per detenere un'arma il porto d'armi, per avviare un'attività certificati d'agibilità e di sanità, per svolgere una professione lauree e specializzazioni, insomma, ogni qualvolta qualcuno desideri svolgere un'azione che abbia un significativo impatto sociale (quantomeno perché, se svolta male, può produrre dei problemi per la collettività), questo qualcuno è chiamato a certificare la sua conoscenza sulle regole che presiedono a quell'azione stessa. Ora, è forse il Voto, attivo e passivo, un elemento di così scarsa importanza sociale da sfuggire alla certificazione di cui sopra? Perché per svolgere una qualsiasi azione socialmente rilevante si deve dimostrare di averne compreso le regole, mentre per il Voto, ripeto, attivo e passivo, è sufficiente raggiungere un certo tetto d'età (qualsiasi esso sia)?
Ritengo sia necessario un "patentino" per Votare.
Si obietterà che il Voto è un diritto, e che il suffragio universale è una delle più grandi conquiste civili della modernità. Ebbene no. Il suffragio potenzialmente universale sarebbe una conquista civile. Mi spiego meglio.
Potenzialmente ogni cittadino deve avere il diritto di Voto, attivo e passivo, ma per sbloccare questa potenzialità il cittadino stesso deve dimostrare di comprendere che cosa significhi Votare. Attenzione, questo non vuol dire che si debbano andare ad indagare le idee politiche di un cittadino (in tal caso si avrebbe un regime illiberale), né che possano avvalersi del Voto, attivo e passivo, solo coloro che abbiano un alto titolo di studio (in tal caso si incorerebbe nella problematica  purtroppo molto diffusa, noto en passant, nelle università  dell'autoritarismo della cultura), né che il cittadino sia chiamato a conoscere i codici approfonditamente tanto quanto un magistrato, ma che debba avere quelle basilari nozioni di educazione civica e politica che gli consentano di essere consapevole degli esiti che il suo voto contribuisce a determinare. Ad esempio, che differenza vi è tra una Repubblica Presidenziale, una Parlamentare ed una Federale? Fra Camera Alta e Camera Bassa? Quali sono i poteri della Presidenza del Consiglio dei Ministri e quelli della Presidenza della Repubblica? Che differenza c'è tra un Decreto Legge e un Disegno di Legge? Qual è l'iter di approvazione di una Legge? Che cos'è una Commissione parlamentare? Che differenza c'è fra metodo elettorale proporzionale, maggioritario e misto? Che differenza c'è fra un partito e una lista civica? Che cos'è una soglia di sbarramento? Che differenza c'è nell'assegnare un premio di maggioranza (e che cosa è, e come si determina) alla Coalizione maggioritaria o alla Lista maggioritaria?...
Infatti, ad esempio, Votare per la lista X con un metodo elettorale proporzionale può determinare degli esiti completamente diversi da quelli che si avrebbero votando per la stessa lista X con un metodo maggioritario, e il cittadino ha il dovere di essere consapevole di ciò, se vuole avere il diritto di partecipare alla vita politica di un Paese.
Forse è per questo che da molti anni l'educazione civica è stata estromessa dai programmi scolastici ministeriali, salvo vuote operazioni di facciata, e che qualsiasi Governo (di qualunque colore) si sia ben guardato dal ripristinarla autenticamente: chi è inconsapevole di se stesso e del mondo che lo circonda, è ammaestrabile con estrema facilità.

Non tutti vogliono o debbono preoccuparsi degli affari pubblici. In questo modo è possibile un processo di autoselezione per mettere assieme una vera élite politica nel paese. Chiunque non è interesasato agli affari pubblici si accontenterà semplicemente di vedere che siano decisi senza di lui
H. Arendt, Pensieri sulla politica e la rivoluzione


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mercoledì 10 giugno 2009

Ungà: reti di parole

di Roberta Carlesimo (a.carlesimo@libero.it)

Sento un oceano di parole invadermi il petto,
lo sento crescermi dentro,
consegnarsi inerme al mio cuore malato di senso.
Disusate le vedo appassire nel mondo intorno a me,
in me le guardo che riprendono soave forma.
E si fa più dolce il distacco dalla realtà che assassina,
celere le condanna a morte.
Sono l'aspetto degli eterei miei pensieri,
d'avorio regalan forma alle vibrazioni dell'animo mio
e mentre mi conducono, cocchieri alati,
nell'iperuranio dell'eterna mia infinita ricerca dell'io
si consuma in un instante la mia festa interiore.

Il porto sepolto

Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde

Di questa poesia
mi resta
quel nulla
di inesauribile segreto

Giuseppe Ungaretti


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giovedì 4 giugno 2009

"Impero"

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Credevamo di morire per la patria. Ci siamo subito accorti che era per le camere blindate delle banche.
Anatole France

Sino a che la società sarà fondata sul denaro, non ne avremo mai abbastanza.
Volantino durante uno sciopero, 1995


L’attuale forma assunta dal Potere è quella che Michael Hardt ed Antonio Negri definiscono come “Impero”, e che sembra rappresentare una sorta di trasposizione politologica delle concezioni (in particolare quella marcusiana di sistema), inerenti alla modificazione dei meccanismi di controllo sociale nella modernità. Similmente a quanto espresso dal Hannah Arendt nel capitolo de Le origini del totalitarismo intitolato Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani, anche Hardt e Negri ritengono che nella modernità lo Stato-nazione sia entrato in crisi, perdendo la propria sovranità. Ma l’esito fondamentale di tale crisi non è per i due autori quello individuato dalla filosofa tedesca, ovvero la nascita di una massa di apolidi senza Stato e dunque senza diritti, bensì quello di avere prodotto un passaggio di sovranità dagli Stati nazionali ad un nuovo “soggetto politico”: l’Impero. Il declino della sovranità dello Stato-nazione non ha prodotto, quindi, il declino del concetto di sovranità, ma la sua collocazione nelle mani di una serie di organismi nazionali e sovranazionali, uniti da un’unica logica di potere originante, pertanto, una sovranità globale. Le sue caratteristiche sono quelle di essere un sistema di controllo decentrato, deterritorializzante ed onnicomprensivo; le sue frontiere non sono infatti individuabili, cosicché esso si trova a non avere confini o limiti, né territoriali, né storici, né sociali. Territorialmente si estende infatti sull’intero pianeta, in modo particolare sul mondo “civilizzato”. Storicamente si presenta non come un regime transitorio, ma come l’eternizzazione necessaria di un determinato ordine sociale. Ed infine agisce su tutti i livelli della vita sociale, regolando le interazioni umane e cercando di controllare la stessa natura umana. La sovranità globale e assoluta di cui si è appropriato, legittima, ed anzi invoca, il suo potere d’intraprendere guerre eticamente giuste, ovvero in nome della pace e dell’ordine, attraverso interventi militari che hanno ormai assunto l’aspetto di operazioni di polizia internazionale, dato che in un sistema di controllo globale ogni guerra è sempre una guerra civile, combattuta non contro “barbari” esterni, ma contro ribelli interni(1). E’ così che avviene la transizione dalla società della disciplina a quella del controllo (già prefigurata nei lavori foucaultiani sul concetto di biopolitica), il cui scopo rimane quello di dare norme alla vita, prescrivendo i comportamenti normali e normalizzanti e quelli deviati e devianti, ma la normalizzazione avviene non tramite l’imposizione delle regole, bensì tramite la loro interiorizzazione, esse vengono infatti veicolate ed addirittura legittimate dall’industria della comunicazione e dello spettacolo, generando un complesso dispositivo di immagini ed idee che producono le opinioni e regolano il discorso pubblico (ovviamente tali processi sono supportati da uno sviluppo tecnologico, giunto oggi al livello dell’informatizzazione, che, lungi dall’essere un ché di neutrale, contribuisce ad una nuova definizione della condizione umana)(2). Quindi, il potere assorbe la vita e per mezzo di essa si riproduce. Ed in questa nuova forma di controllo, l’Impero si avvale di un risultato ereditato dagli Stati nazionali: la riduzione della moltitudine a totalità ordinata, a popolo. Infatti, attingendo al De Cive di Hobbes, i due autori scrivono:

«E’ contrario al governo civile e, in particolare, a quello monarchico, che gli uomini non distinguano bene tra popolo e moltitudine. Il popolo è un che di uno, che ha una volontà unica, e cui si può attribuire un’azione unica. Nulla di ciò si può dire della moltitudine. Il popolo regna in ogni stato, perché anche nelle monarchie il popolo comanda: infatti, il popolo vuole attraverso la volontà di un solo uomo […]». La moltitudine è una molteplicità […] Il popolo tende invece all’identità e all’omogeneità interna […] Il popolo fornisce un’azione e una volontà uniche indipendenti in conflitto con le volontà e le azioni della moltitudine(3)

Per questa via, non solo il popolo rappresenta la moltitudine, ma rappresenta tutta la moltitudine, nel senso che al di fuori di esso, cioè al di fuori della sovranità imperiale sul popolo globale, non può e non deve esserci niente. E se qualcuno si ostina a porsi al di fuori dell’Impero, viene etichettato come appartenente ad una cultura diversa e, ovviamente, inferiore.


Con il passaggio all’Impero, le differenze biologiche sono state rimpiazzate da significanti sociologici e culturali intorno ai quali si costituiscono le rappresentazioni dell’odio e della paura della differenza razziale […] Dato che la biologia è stata abbandonata nella sua funzione di supporto e di fondamento (del razzismo) […] la cultura finisce per sostituirla nel ruolo che essa svolgeva in precedenza(4)


Ciò non significa che all’interno dell’Impero non ci sia un pluralismo di differenze culturali, ma che esse vengono accettate solo se si lasciano assorbire e amministrare. Di fronte a tutto ciò è necessario rispondere, secondo i due autori, sia con un ragionamento “critico e decostruttivo”, che sovverta i linguaggi e le strutture sociali egemoni, sia con un ragionamento “costruttivo ed etico-politico”, che crei una credibile ed immanente alternativa politico-sociale, c’è bisogno, in altri termini, di un “rifiuto costruttivo” (simile a quel Grande Rifiuto di Ragione e rivoluzione). E tale argomentazione non si fonda su una speranza bensì su una realistica possibilità, poiché è l’Impero stesso a generare
Un potenziale rivoluzionario assai più grande di quello creato dai moderni regimi di potere, poiché ci mostra, accanto alla macchina di comando, un’alternativa effettiva: l’insieme degli sfruttati e dei sottomessi, una moltitudine che è direttamente, e senza alcuna mediazione, contro l’Impero(5)Infine, non si può ignorare come, fin dal primo dopoguerra, in Italia Pier Paolo Pasolini abbia individuato una dissociazione fra il progresso scientifico, tecnico ed industriale, e lo sviluppo culturale e civile. Una dissociazione, dagli esiti tragici, dovuta ad

un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante(6)Ricordando alcune tra le più significative tesi elaborate parallelamente ed autonomamente da molti altri intellettuali europei, anche Pasolini ravvisa nel capitalismo non un mero fenomeno economico, ma un grande fenomeno culturale inaugurante una vera e propria “mutazione antropologica”, a causa di una modificazione materiale (i nuovi oggetti prodotti) e mentale (il nuovo linguaggio utilizzato) del mondo. Anche lui vede nel conformismo consumistico una nuova forma di controllo sociale che opera omologando materialmente e culturalmente gli individui, ed individua in una sorta di ribellione costruttiva l’unica via di miglioramento sociale. Tuttavia, per Pasolini (differentemente, ad esempio, da Herbert Marcuse) il movimento del ’68 non rappresenta altro che un momento di ribellismo borghese destinato, in ultima istanza, a confermare il sistema esistente: l’autentico rifiuto del potere non si attua scontrandosi con questo, ma non lasciandosene sedurre; infatti, come scrive ad un suo immaginario allievo nel 1975, nell’ambito di un’opera pedagogica intitolata Gennariello e non terminata a causa della prematura morte,

Ti descriverò prima i ragazzi che si possono approssimativamente chiamare «obbedienti» (il fatto che qualche volta si atteggino a contestatori, estremisti, ribelli ecc. non ha alcuna importanza: come non hanno importanza i loro capelli lunghi, cristallizzati ormai nelle ridicole e un po’ schifose acconciature di un’iniziazione totalmente conformista). Poi ti descriverò i ragazzi che si possono approssimativamente chiamare «disobbedienti», cioè i pochi veri estremisti sopravvissuti, i disadattati, i devianti e infine – questi rarissimi – i «colti»(7)


Va infine ricordato come, diversamente dagli autori della prima Scuola di Francoforte, Pasolini non riconduca queste problematiche ad un generale processo di degenerazione insito nella civilizzazione occidentale, ma ad un ceto politico incapace e corrotto, per indicare il quale conia il termine di “Palazzo”.
Concludendo, si può notare come nel mondo occidentale la cultura letteraria e filosofica abbia pressoché sempre scorto enormi mali connessi all’avvento della modernizzazione scientifico-tecnico-industriale. Tuttavia ciò non sta ad indicare, come potrebbe sembrare, un’avversione dell’intellighenzia nei confronti della modernità. Infatti, che lo si definisca come capitalismo, totalitarismo, sistema, Impero o Palazzo, il trait d’union che lega le varie interpretazioni critiche dell’epoca moderna risiede nella constatazione dell’eliminazione, in essa, della forza del pensiero autonomo, ovvero di quell’ultima possibilità di resistenza al male, di quella forza, potenzialmente propria di ogni uomo, che permette di mantenere la propria assoluta libertà.

1) La trasformazione degli eserciti nazionali in polizia internazionale sarebbe accettabile, e forse addirittura auspicabile, se fosse la conseguenza della «stabilizzazione di uno stato di cittadinanza universale (che) comporterebbe che le violazioni contro i diritti umani non verrebbero giudicate e condannate da un punto di vista morale, ma verrebbero perseguite come le azioni criminose commesse all’interno di un qualsiasi ordine costituito [...] (ciò) preserverebbe il trattamento legale delle violazioni dei diritti umani da un’indistinzione giuridica e impedirebbe il brutale e immediato affermarsi di discriminazioni morali di “nemici”. Un tale scenario si potrebbe affermare anche a prescindere dal monopolio della violenza di uno stato e di un governo mondiali. Ma come minimo è necessario un Consiglio di sicurezza funzionante, la giurisprudenza vincolante di una corte di giustizia internazionale e l’integrazione dell’Assemblea generale dei rappresentanti dei governi con un “secondo livello” di rappresentanza dei cittadini», J. Habermas, Umanità e bestialità, in «Caffè Europa», n. 33, 1999, parentesi mie.
2) Sulla produzione delle soggettività tramite l’interiorizzazione dei modelli di dominio, veicolati dai mass-media e dall’industria del divertimento, esiste una bibliografia amplissima di cui, alcuni significativi risultati sono: M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966; A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, Armando, Roma 2003; H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967; G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano 1997.
3) M. Hardt – A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2001, p. 107, sulla dicotomia moltitudine-popolo cfr. P. Virno, Grammatica della moltitudine, DeriveApprodi, Roma 2002. Per non avere colto tutto ciò ed essersi limitata alla denuncia della distruzione della sfera pubblica democratica, Hardt e Negri criticano lo studio arendtiano sul totalitarismo; ma, a “discolpa” della Arendt, si deve ricordare come ella intenda il totalitarismo come un determinato evento storico-politico e non come una categoria concettuale.
4) M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 182, parentesi mia; su una nuova forma di razzismo, sganciata da un’accezione biologistica di razza cfr. E. Balibar, Esiste un “Neorazzismo”?, in I. Wallerstein – E. Balibar, Razza nazione classe, Edizioni Associate, Milano 1996.
5) M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 364.
6) P. P. Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, Torino 2003, p. 12, cfr. G. Sapelli, Modernizzazione senza sviluppo, Mondadori, Milano 2005.
7) Ibidem, p. 57.

L'educazione data a un ragazzo dagli oggetti, dalle cose, dalla realtà fisica – in altre parole dai fenomeni materiali della sua condizione sociale – rende quel ragazzo corporeamente quello che è e quello che sarà per tutta la vita. A essere educata è la sua carne come forma del suo spirito.
Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane

Fanno il deserto e lo chiamano pace.
Tacito

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Sul "sistema"

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Con il crollo dei regimi politici totalitari, la problematica del controllo totale sugli individui è stata superata? Molti autori contemporanei ritengono che tale problematica persista all’interno della società odierna, avendo semplicemente mutato forma e modi d’attuazione; ciò rende necessario il ricorso ad un nuovo vocabolario concettuale. Prima di descriverlo è però interessante vedere come le prime tracce della modificazione delle strutture di controllo sociale, siano state notate da autori provenienti dall’Est Europa, ovvero da quei Paesi in cui è stata più tangibile la transizione da vecchie a nuove forme di dominio totale.
Il ricorso ad una “neolingua”, come la chiama George Orwell in 1984, è, secondo Václav Havel, il modo in cui un nuovo potere totalitario (di cui Havel intravede l’avvento nella Cecoslovacchia degli anni Settanta e Ottanta) impedisce il sorgere di un “pensiero eretico”. In alternativa alla liquidazione fisica di tutti quegli strati della popolazione che non aderiscono agli assunti dell’ideologia-verità, tale nuovo totalitarismo mira ad una strumentalizzazione del linguaggio, finalizzata all’inibizione di ogni giudizio indipendente e, quindi, all’accettazione passiva di determinati comportamenti esteriori. Da un totalitarismo violento, che si insedia al potere a “colpi di fucile”, si passa così ad un “totalitarismo mite”, che mantiene il potere a “colpi di linguaggio” standardizzato, originando così delle vere e proprie “logocrazie di massa”. La manipolazione linguistico-concettuale, con relativa alterazione della memoria storica, rappresenta quindi il nuovo strumento di controllo sociale:

La coscienza è memoria […] creature la cui memoria sia effettivamente manipolata, programmata e controllata dall’esterno, non sono più persone in senso proprio […] Questo è ciò che i regimi totalitari tentano incessantemente di ottenere. Persone la cui memoria – individuale o collettiva – venga nazionalizzata, divenga una proprietà dello Stato, completamente manipolabile e controllabile, si trovano del tutto alla mercè dei loro dominanti; sono state deprivate della propria identità; sono indifese e incapaci di mettere in discussione alcunché di ciò che è stato detto loro di credere. Non si ribelleranno mai, non penseranno mai, non creeranno mai (non a caso, oggi non si assiste ad una distruzione della memoria storica, come nel caso del nazi-fascismo, ma al sorgere di una “cattiva memoria storica”, subordinata al controllo del potere, ovvero ad una sorta di industria della storia che produce i ricordi ufficiali, in modo così convincente da riuscire a contaminare la memoria personale, colonizzandola)(1)

Il potere non è più interessato all’adesione fideistica all’ideologia(2), da parte dei cittadini, ma all’instaurarsi di un regime di conformismo che risulti, senza spargimenti di sangue, impossibile da rifiutare, criminalizzando coloro che ne tentano il rigetto. Così, ogni uomo risulta coinvolto nella struttura di questo nuovo potere “autototalitario”, la cui legittimità dipende, come in un circolo vizioso, dall’adesione ad esso da parte dei cittadini.

Nell’universo post-totalitario il male non produce più l’immenso numero di cadaveri degli uomini “di troppo”, perché nella demoralizzazione sistematica che abbassa a vittima innocente nel momento in cui eleva a colpevole, ognuno ha trovato la propria collocazione […] l’autototalitarismo sociale […] dà all’uomo l’illusione di essere una persona con un’identità ed una dignità; gli permette di ingannare la propria coscienza e di mascherare al mondo il suo inglorioso modus vivendi; di confondere il proprio ruolo di vittima con quello di parte in sintonia con l’ordine cosmico(3)

Uscire, grazie ad un pensiero autonomo, dall’indifferenza nei confronti della propria e dell’altrui esistenza è l’unico modo, per Havel, per sottrarre al potere la sua indispensabile risorsa: la complicità di tutti e di ciascuno. Ed è proprio per non avere concesso tale complicità che Jan Patočka, maestro di Havel, muore (nel Marzo del 1977), dopo un estenuante interrogatorio della polizia ceca, lasciando in eredità la concezione di un pensiero filosofico cui spetta la missione di porsi “sulla linea del fronte”, poiché la vera lotta di ogni totalitarismo è condotta essenzialmente contro la riflessione filosofica che, non diversamente dal “Thinking” arendtiano, non ha nulla a che fare con l’accumulazione del sapere, essendo piuttosto una radicale e permanente (ri)costruzione dell’esistente. Per Patočka, la filosofia deve costantemente opporsi all’“ordine del giorno”, alla supina accettazione dell’esistente, a quelle “contingenze secondarie” (poiché la “contingenza primordiale” è quella della finitudine umana) che pretendono docilità, obbedienza, subordinazione. La filosofia, insomma, deve essere una “filosofia del notturno” che, in quanto tale, si oppone a tutte le potenze affermative e positive che vogliono l’assoggettamento della possibilità alla realtà(4).
Insomma, diversi pensatori del Novecento, seppur attraverso una terminologia ed un itinerario concettuale diverso, giungono ad individuare all’interno della società contemporanea, e quindi posteriore al totalitarismo inteso come evento storico, una problematica simile a quella che la Arendt pone alla base del male totalitario: la degenerazione della capacità di pensare autonomamente, ovvero al di fuori di uno schema ideologico, problematica questa che già la stessa Arendt aveva notato essere presente non solo nel cittadino-tipo dello Stato totalitario, ma anche nelle figure antropologiche dell’homo faber e dell’animal laborans.
Possiamo ora introdurre la marcusiana concezione di “sistema”, che rappresenta una ricca e articolata descrizione della nuova forma storica dei meccanismi di dominio. Esso affonda le sue origini in una determinata modalità di produzione tecnologica, ispirata da una falsa razionalità, che conduce ad una totale subordinazione dell’esistenza ad un paradigma d’efficienza e produttività, funzionale all’instaurarsi ed al perpetuarsi di una nuova forma di dominazione:

Il metodo scientifico che ha portato al dominio sempre più efficace della natura giunse così a fornire i concetti puri non meno che gli strumenti per un dominio sempre più efficace dell’uomo da parte dell’uomo, attraverso il dominio della natura(5)

Ma a tale esito non si è giunti per il progresso della tecnica (in sé neutrale in quanto sprovvista di un telos), bensì a causa dello sviluppo di una determinata tecnologia (la forma storica della tecnica), che ha come esito determinante quello dell’inibizione del pensiero critico. Esso infatti perde i suoi tipici connotati di trascendenza ed astrattezza, indispensabili per perseguire ogni possibile “chiarimento ontologico” tra status quo e sue alternative, tra essere e dover essere, tra esistenza ed essenza, tra “è” e “dovrebbe”, divenendo un pensiero affermativo e positivo, incapace di qualsiasi critica nei confronti del reale. In altri termini, viene meno l’antagonismo tra cultura e realtà, poiché viene meno una qualsiasi forma d’opposizione alla realtà, come ad esempio, l’alienazione artistica. L’arte infatti, così come l’alta cultura, risulta “desublimizzata”, ovvero spogliata della sua facoltà d’immaginare una realtà altra, e assorbita all’interno dell’ordine di cose esistente, così, la ragione si trasforma in mero strumento d’analisi e di descrizione di fatti empirici. Anche il linguaggio viene oggettivato, perdendo la capacità d’esprimere dei significati concettuali e limitandosi unicamente ad identificare la funzione che una cosa svolge. «In questo universo di comportamento parola e concetto tendono a coincidere, o meglio il concetto tende ad essere assorbito dalla parola»(6).
Per tal via il pensiero, l’arte, l’alta cultura ed il linguaggio, insomma l’uomo, acquistano quel carattere di “unidimensionalità” consistente nell’incapacità di vedere oltre la dimensione esistente, prospettandone delle alternative.

In questo processo, la dimensione “interiore” della mente, in cui l’opposizione allo status quo può prendere radice, viene dissolta. La perdita di questa dimensione, in cui il potere del pensiero negativo – il potere critico della Ragione – si trova più a suo agio, è il correlato ideologico dello stesso processo materiale per mezzo del quale la società industriale avanzata riduce al silenzio e concilia con sé l’opposizione. La spinta del progresso porta la Ragione a sottomettersi ai fatti della vita, e alla capacità dinamica di produrre in maggior copia fatti connessi allo stesso tipo di vita. L’efficienza del sistema ottunde negli individui la capacità di riconoscere che esso non contiene fatti che non siano veicolo del potere repressivo nell’insieme(7)

Il sistema, quindi, non solo inibisce la formazione di un pensiero critico ma impedisce anche il riconoscimento della presenza di tale forma di repressione. E’ questo infatti l’esito della “desublimazione repressiva”, ovvero dell’assorbimento e dell’appiattimento in un’unica dimensione di tutte quelle forze culturali ed artistiche che, nella società pre-tecnologizzata, costituivano una dimensione opposta a quella reale. L’arte e l’alta cultura sono infatti essenzialmente alienazione, e

L’alienazione artistica è sublimazione. Essa crea immagini di condizioni irriconciliabili con il “principio di realtà” stabilito, le quali diventano tuttavia, come immagini culturali, non solo tollerabili ma persino edificanti ed utili(8)

Ma, nell’attuale momento storico, la desublimazione repressiva riduce queste “immagini culturali” alla società esistente. Anche la liberazione sessuale, che appare come una conquista della modernità, è, a causa della desublimazione, assorbita dal sistema che permette un soddisfacimento sessuale solo secondo tempi e modi da esso imposti. Così l’Eros, inteso come energia libidica che pervade l’intero organismo e si può manifestare in tempi e modalità diverse, si muta in attività sessuale localizzata in precise zone del corpo e limitata a precisi criteri di svolgimento. Per tal via, l’attività sessuale viene inscritta all’interno della sfera del tempo libero, inteso come quel tempo di riposo necessario agli individui per poter essere efficientemente re-immessi nel processo produttivo. Un ulteriore esito della desublimazione è, come già accennato, la trasformazione del linguaggio che, mirando unicamente ad una rapida ed efficace descrizione della funzione di una cosa, non lascia spazio alla critica ed alla riflessione, esso quindi descrive qualcosa ma non significa qualcosa.

I concetti che abbracciano i fatti e in tal modo li trascendono stanno perdendo la loro autentica rappresentazione linguistica. Senza queste mediazioni, il linguaggio tende ad esprimere e a promuovere l’identificazione immediata della ragione col fatto, dell’essenza con l’esistenza, della cosa con la sua funzione […] (il concetto) non ha altro contenuto che non sia quello designato dalla parola nell’uso pubblicitario, standardizzato di questa, né ci si aspetta che alla parola segua altra risposta che non sia il comportamento standardizzato, proposto dalla pubblicità […] La parola diventa clichè(9)

Questa impostazione sociale si condensa in una “coscienza falsamente felice”, la cui illusoria felicità poggia sulla mancata comprensione delle forme di dominio cui è sottoposta. L’uomo che vive in un’unica dimensione, quella del sistema, è dunque colui per il quale la ragione si è identificata con la realtà al punto tale che, al di fuori di quest’ultima, non vi sono altre possibilità d’esistenza. Dunque, la società industriale avanzata è caratterizzata da una nuova forma di repressione che prevede il consenso dei dominati, ottenuto appiattendo le aspirazioni e i bisogni umani sulle necessità del sistema e quindi facendoli coincidere con esso. Si realizza così una nuova forma di amministrazione totale descrivibile come una sorta di sistema democratico totalitario, in cui il controllo e la manipolazione degli individui avviene non tramite gli “arendtiani” strumenti della violenza fisica, della censura e del terrore, bensì attraverso una determinata impostazione tecnologica(10).
Tuttavia, per Herbert Marcuse l’uso repressivo della tecnologia non è altro che l’esito finale di una “scelta iniziale” con la quale una società organizza la vita dei suoi membri, scelta iniziale che può (e per Marcuse deve) essere ridiscussa, ridefinendo i fini e l’orizzonte dello sviluppo tecnologico, mettendo quest’ultimo al servizio di una liberazione spazio-temporale delle facoltà psico-fisiche umane. Ovviamente, tale ipotesi poggia sulla concezione di una sostanziale ambiguità della tecnica: essa può essere sia fonte di asservimento che di liberazione umana. E la liberazione è oggi possibile poiché l’automazione raggiunta dal progresso tecnologico, sotto la spinta del principio di prestazione, permetterebbe un risparmio d’energie, da sottrarre al lavoro e da dedicare allo sviluppo di quelle facoltà umane oggi represse. In altri termini, la società iper-repressiva può affrancarsi dal principio di prestazione, e dalla repressione addizionale (o surplus di repressione) ad esso correlata, conciliandosi il più possibile con il principio del piacere(11). Ci porterebbe ora troppo lontano vedere come, in opere quali Ragione e rivoluzione, La fine dell’utopia, Saggio sulla liberazione e soprattutto La dimensione estetica (ultima sua opera), il Marcuse maturo formuli la proposta del Grande Rifiuto (o negazione determinata) nei confronti dello status quo, vedendo nei giovani e negli intellettuali, ovvero in tutti i non integrati nel sistema, negli outsiders, il nuovo soggetto rivoluzionario di una auspicata rivoluzione coscienziale, volta alla liberazione degli uomini e all’edificazione di una società “estetica”, di una “società come opera d’arte”.
Insomma, per Marcuse il sistema è l’esito di una generale crisi della ragione che comporta inevitabilmente una degenerazione della società. Tale prospettiva è simile a quella adottata da Max Horkheimer nell’analisi del totalitarismo, da lui inteso come una tappa di quel generale processo di degenerazione che è la civilizzazione occidentale; tale modo d’intendere il processo civilizzante occidentale dà al sociologo tedesco la possibilità non solo d’interpretare il regime nazista come una tappa di quello stesso processo, ma anche di individuare le possibili linee di sviluppo dello stesso, confluenti in una forma di illibertà post-nazista, da Marcuse descritta proprio come “sistema”.
Come per la Arendt, anche per Horkheimer la paura e il terrore sono funzionali a quell’atomizzazione sociale che costituisce l’humus ideale per ogni regime totalitario: «Il terrore nel quale si rifugia la classe dominante è raccomandato dagli scrittori autoritari fin dal tempo di Machiavelli»(12); ma diversamente dalla Arendt, per Horkheimer i germi di ciò si trovano essenzialmente nella kantiana Critica della ragion pratica, il cui imperativo categorico impedisce qualsiasi forma d’opposizione all’autorità dominante:

Secondo la Ragion Pratica il popolo deve obbedire come in una casa di disciplina con la differenza che insieme allo sgherro di qualunque potere deve avere come spinta all’obbedienza e come guardiano, anche la coscienza […] il conoscitore di Kant sa che la «morale interna» non può protestare contro il duro lavoro raccomandato da qualunque potere(13)

Dunque, per Horkheimer, la legge universale alla quale il comportamento personale deve tendere non è altro che la legge imposta dall’autorità dominante. Ne consegue che il potere dominate non ha neanche bisogno di opporsi ad una eventuale richiesta di libertà da parte dei cittadini, poiché questi, semplicemente, dimenticano cosa sia la libertà e quindi, come nel marcusiano sistema, non ne avvertono la mancanza.

La libertà sembra subire la stessa sorte della virtù per Valery: non viene contestata, ma dimenticata e in ogni caso imbalsamata, come la parola d’ordine della democrazia dopo l’ultima guerra. Tutti si trovano d’accordo sul fatto che la parola «libertà» non debba più essere usata se non come vuota frase, e che sia utopistico prenderla sul serio(14)

Quasi gettando le fondamenta del marcusiano “uomo a una dimensione”, Horkheimer nota come le più grandi trasformazioni sociali, introdotte dal nazismo e destinate a sopravvivergli, siano riconducibili alla perdita del potere, precedentemente proprio della ragione, di trascendimento della realtà; dal nazismo il pensiero è ridotto in una sorta di funzione economica fredda e lucida, finalizzata al profitto. Come sarà per Marcuse, anche per Horkheimer ciò provoca un generale decadimento sociale, di cui un evidente indicatore è l’imbarbarimento del linguaggio:

L’individuo […] non considera il linguaggio parlato se non come un mezzo per orientare, informare, dare ordini […] Gli uomini devono ripetere i linguaggi della radio, del cinema, dei giornali(15)

Ciò conduce ad un’esaltazione dello status quo e degli oggetti in esso presenti:

I ragazzi osservando l’auto o l’apparecchio radio imparano presto a conoscerli […] il padre […] è sostituito dal mondo delle cose(16)

Ed alla riduzione strumentale dell’amore in sesso:

La raccomandazione ufficiale delle relazioni extraconiugali nello Stato del Führer certifica che il lavoro privato di coito è lavoro della società di classe in cui lo Stato prende anche l’amore sotto il suo diretto governo(17)

Anche Horkheimer, come tutti i pensatori che hanno affrontato queste problematiche, rintraccia la possibilità di un superamento delle stesse, in quell’attività ormai quasi del tutto dimenticata: «Il pensare è già di per sé un segno di resistenza che sta ad indicare l’impegno a non lasciarsi più ingannare»(18).
Inoltre, anche Jürgen Habermas ravvisa nel Novecento un momento di crisi della razionalità, a partire da problematiche economiche che divengono poi inevitabilmente delle problematiche socio-politiche. Nelle società liberal-capitalistiche, infatti, le crisi si manifestano sottoforma di irrisolti problemi economici di controllo sociale, causando così un’immediata minaccia per l’integrazione sociale che il capitalismo liberale persegue unicamente tramite logiche di mercato. Nella fase più matura dello stesso capitalismo liberale, questa tendenza viene estremizzata completando così la sostituzione del sistema amministrativo con quello economico. Sintomatico di ciò è il passaggio del potere da determinati gruppi dominanti ad anonimi soggetti privati, ed il trionfo della “ideologia della prestazione” che investe ogni ambito della vita. L’economia quindi entra nell’amministrazione, anzi diviene amministrazione, la quale si riduce ad amministrazione della produzione e della distribuzione di merci, causando un “deficit di razionalità”, ovvero una mancata comprensione di tutto ciò che risiede al di fuori del mondo economicamente produttivo, riscontrabile, secondo Habermas, nella sostituzione del concetto di “senso” con quello di “valore”, nella separazione tra il diritto e la morale, in un generico common sense che (lungi dall’avere la stessa “funzione salvifica” che ha nella Arendt) è privo di ogni problematicità trascendente, riducendosi a mero utilitarismo, e nel condensarsi nell’arte (come per Marcuse) di tutti quei valori espulsi dalla società borghese. Questo deficit di razionalità, allora, blocca la società su tutti i livelli al punto tale che, l’unico modo per superare questa impasse è quello di mettere in crisi il sistema avanzando nei suoi confronti delle aspettative, per lui impossibili da soddisfare. In tal senso, la più grande aspettativa (che aprirebbe la più rivoluzionaria delle crisi) che si possa avanzare nei confronti del sistema è quella della richiesta di una sua legittimazione ad esistere. Una simile aspettativa potrebbe essere soddisfatta solo in termini etici, poiché è l’etica la base di ogni possibile legittimazione, e l’etica che Habermas propone è un’etica “discorsiva”:

Un’etica rimane […] il fondamento della legittimazione […] Solo l’etica comunicativa assicura l’universalità delle norme lecite e l’autonomia dei soggetti agenti (diversamente dall’etica formalistica kantiana che scinde la legge morale universale dal livello contingente della socializzazione), unicamente con la soddisfacibilità discorsiva delle pretese di validità con cui le norme si presentano, ossia per il fatto che possono pretendersi valide solo le norme su cui tutti gli interessati si accordano […] in quanto partecipi di un discorso, se entrano […] in un processo di formazione discorsiva della volontà(19)

Se nella sua idea di partecipazione, generalizzata e con uguali possibilità, degli uomini ai processi discorsivi di formazione della volontà, l’etica comunicativa ricorda le tesi arendtiane sullo spazio pubblico antico, l’irriducibile differenza fra i due pensatori sta però nel fatto che Habermas rifiuta la concezione di una spontaneità discorsiva sottratta alla riflessione. Anzi, è imputabile proprio ad una carenza di razionalità, il sorgere, oggi, di democrazie che rendono possibile il benessere senza la libertà. Esse infatti adottano un sistema di norme che, pur non mancando di spazi per la comunicazione, si fonda

sul timore e sull’assoggettamento alle sanzioni indirettamente minacciate, oltre che sulla pura sopportazione (compliance) determinata dalla consapevolezza della propria impotenza e dalla mancanza di alternative (fantasia imbrigliata) […] La fede nella legittimità si riduce a fede nella legalità(20)

Prima di proseguire, è interessante notare come anche per Theodor W. Adorno, l’origine dei mali socio-politici, dei quali il totalitarismo rappresenta solo una possibilità, sia sempre ascrivibile ad una malattia della ragione che, anziché orientarsi verso una autoconsapevolezza critica, si indirizza verso una pianificazione del dominio. La secolarizzazione, enfatizzata dall’illuminismo, ha prodotto un fraintendimento del rapporto che lega il soggetto all’alterità, poiché è stata intesa come un mero passaggio di consegne dal sacro al profano, dall’autorità di forze trascendenti (sostanzialmente Dio) all’autorità di forze immanenti. Così, la forza totalizzante del mito meta-storico, dalla quale il soggetto moderno(21) mira a sottrarsi, viene ricreata nella storia. Il pensiero infatti elimina il mito irrazionale, rigettandolo, ma si appropria del potere in esso contenuto, cioè dei suoi essenziali caratteri di forza fondativa, autarchia, cominciamento assoluto e chiusura totale in sé. Se il pensiero esce, quindi, da un orizzonte di senso assoluto, entra però nell’ambito dell’assolutizzazione del proprio orizzonte finito: la razionalità moderna smantella il potere totalizzante del mito, ma si rivela essa stessa una ragione totalitaria. Questa nuova forma di potere totalitario, radicato nella realtà esistente, produce un’apologia di quest’ultima, mascherandone le carenze razionali con schemi di semplificazione della realtà, quali ad esempio, le polarità amico-nemico, potenza-impotenza, bianco-nero, espresse negli

slogan pubblicitari che si siano rivelati efficaci per l’incremento del fatturato. Questa standardizzazione coincide con il ragionare stereotipato e con il desiderio di un infinito, immutato ritornello(22)

Insomma, la malattia del pensiero moderno, che per Adorno è riscontrabile non solo nell’illuminismo ma anche nell’idealismo hegeliano e di cui si trova un’anticipazione nel cristianesimo, consiste nella pretesa di voler conciliare finito e infinito in un’unica dimensione, producendo una «proiezione distorta di uno stato pacificato, non più antagonistico, sulle coordinate di un pensiero riflessivo, espressione del dominio»(23). La tensione verso una sedicente pacificazione sociale si impone così prepotentemente da sostituire la realtà con un’immagine della realtà, con un’ideologia, prodotta dal pensiero.

1) L. Kolakowski, Il totalitarismo e la virtù della menzogna, in S. Forti (cura), La filosofia di fronte all’estremo, Einaudi, Torino 2004, p. 130, parentesi mia.
2) Ecco perché, per la comprensione di questo “totalitarismo post-totalitario”, non risultano più efficaci locuzioni quali “religioni politiche” (cfr. E. Voegelin, La politica: dai simboli alle esperienze, Giuffrè, Milano 1993) o “religioni secolari” (cfr. R. Aron, Machiavelli e le tirannie moderne, SEAM, Roma 1998).
3) V. Havel, Il potere dei senza potere, Garzanti, Milano 1991, pp. 40 e 20.
4) Cfr. J. Patočka, Saggi eretici sulla filosofia della storia, Cseo, Bologna 1981, su questo cfr. R. Esposito, Oltre la politica, Mondatori, Milano 1996, e J. Derrida, Donare la morte, Jaca Book, Milano 2002.
5) H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967, p. 172.
6) Ibidem, p. 104.
7) Ibidem, pp. 30-31; sono diversi gli scritti in cui Marcuse affronta, da varie prospettive, queste problematiche, significativi di una prima elaborazione, risalente agli anni Trenta, sono Il concetto di essenza, Sul carattere affermativo della cultura, e Filosofia e teoria critica, rispettivamente in Fenomenologia ontologica-esistenziale e dialettica materialistica, Unicopli, Milano 1980 il primo, e in Cultura e società, Einaudi, Torino 1969 i successivi, risale invece alla fase matura del suo pensiero Tolleranza repressiva, in La dimensione estetica e altri scritti, Guerini, Milano 2002.
8) H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 90.
9) Ibidem, pp. 103 e 104-105, parentesi mia; cfr. anche M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966.
10) E’ altresì interessante notare la somiglianza, nei due pensatori, del concetto di ideologia, che per entrambi descrive un’idea, dotata di una logica interna, che investe la società causando la degenerazione della “facoltà di giudizio” (per la Arendt) e del “pensiero critico” (per Marcuse).
11) Cfr. H. Marcuse, Principio del piacere e principio della realtà, in Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1967; in questa prospettiva, la criminalizzazione di tutti i comportamenti ostili al, o non integrati nel sistema, non è altro che uno dei modi con cui quest’ultimo preserva se stesso da possibili mutamenti.
12) M. Horkheimer, Gli ebrei e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, Savelli, Roma 1978, p. 45.
13) Ibidem, p. 46.
14) M. Horkheimer, Lo Stato autoritario, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, cit., pp. 87-88.
15) M. Horkheimer, Ragione e Autoconservazione, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, cit., pp. 111-112.
16) Ibidem, pp. 115 e 117.
17) Ibidem, p. 118.
18) M. Horkheimer, Lo Stato autoritario, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, cit., p. 90.
19) J Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 98-99, parentesi mia.
20) Ibidem, pp. 106 e 108.
21) La figura di Ulisse, descritta nella Dialettica dell’illuminismo, tratteggia le vicende del soggetto moderno che si emancipa dal potere totalizzante del mito, per poi riprodurlo in tutto e per tutto uguale.
22) T. W. Adorno, Contro l’antisemitismo, manifestolibri, Roma 1994, p. 86.
23) T. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, p. 23.

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