giovedì 4 giugno 2009

"Impero"

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Credevamo di morire per la patria. Ci siamo subito accorti che era per le camere blindate delle banche.
Anatole France

Sino a che la società sarà fondata sul denaro, non ne avremo mai abbastanza.
Volantino durante uno sciopero, 1995


L’attuale forma assunta dal Potere è quella che Michael Hardt ed Antonio Negri definiscono come “Impero”, e che sembra rappresentare una sorta di trasposizione politologica delle concezioni (in particolare quella marcusiana di sistema), inerenti alla modificazione dei meccanismi di controllo sociale nella modernità. Similmente a quanto espresso dal Hannah Arendt nel capitolo de Le origini del totalitarismo intitolato Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani, anche Hardt e Negri ritengono che nella modernità lo Stato-nazione sia entrato in crisi, perdendo la propria sovranità. Ma l’esito fondamentale di tale crisi non è per i due autori quello individuato dalla filosofa tedesca, ovvero la nascita di una massa di apolidi senza Stato e dunque senza diritti, bensì quello di avere prodotto un passaggio di sovranità dagli Stati nazionali ad un nuovo “soggetto politico”: l’Impero. Il declino della sovranità dello Stato-nazione non ha prodotto, quindi, il declino del concetto di sovranità, ma la sua collocazione nelle mani di una serie di organismi nazionali e sovranazionali, uniti da un’unica logica di potere originante, pertanto, una sovranità globale. Le sue caratteristiche sono quelle di essere un sistema di controllo decentrato, deterritorializzante ed onnicomprensivo; le sue frontiere non sono infatti individuabili, cosicché esso si trova a non avere confini o limiti, né territoriali, né storici, né sociali. Territorialmente si estende infatti sull’intero pianeta, in modo particolare sul mondo “civilizzato”. Storicamente si presenta non come un regime transitorio, ma come l’eternizzazione necessaria di un determinato ordine sociale. Ed infine agisce su tutti i livelli della vita sociale, regolando le interazioni umane e cercando di controllare la stessa natura umana. La sovranità globale e assoluta di cui si è appropriato, legittima, ed anzi invoca, il suo potere d’intraprendere guerre eticamente giuste, ovvero in nome della pace e dell’ordine, attraverso interventi militari che hanno ormai assunto l’aspetto di operazioni di polizia internazionale, dato che in un sistema di controllo globale ogni guerra è sempre una guerra civile, combattuta non contro “barbari” esterni, ma contro ribelli interni(1). E’ così che avviene la transizione dalla società della disciplina a quella del controllo (già prefigurata nei lavori foucaultiani sul concetto di biopolitica), il cui scopo rimane quello di dare norme alla vita, prescrivendo i comportamenti normali e normalizzanti e quelli deviati e devianti, ma la normalizzazione avviene non tramite l’imposizione delle regole, bensì tramite la loro interiorizzazione, esse vengono infatti veicolate ed addirittura legittimate dall’industria della comunicazione e dello spettacolo, generando un complesso dispositivo di immagini ed idee che producono le opinioni e regolano il discorso pubblico (ovviamente tali processi sono supportati da uno sviluppo tecnologico, giunto oggi al livello dell’informatizzazione, che, lungi dall’essere un ché di neutrale, contribuisce ad una nuova definizione della condizione umana)(2). Quindi, il potere assorbe la vita e per mezzo di essa si riproduce. Ed in questa nuova forma di controllo, l’Impero si avvale di un risultato ereditato dagli Stati nazionali: la riduzione della moltitudine a totalità ordinata, a popolo. Infatti, attingendo al De Cive di Hobbes, i due autori scrivono:

«E’ contrario al governo civile e, in particolare, a quello monarchico, che gli uomini non distinguano bene tra popolo e moltitudine. Il popolo è un che di uno, che ha una volontà unica, e cui si può attribuire un’azione unica. Nulla di ciò si può dire della moltitudine. Il popolo regna in ogni stato, perché anche nelle monarchie il popolo comanda: infatti, il popolo vuole attraverso la volontà di un solo uomo […]». La moltitudine è una molteplicità […] Il popolo tende invece all’identità e all’omogeneità interna […] Il popolo fornisce un’azione e una volontà uniche indipendenti in conflitto con le volontà e le azioni della moltitudine(3)

Per questa via, non solo il popolo rappresenta la moltitudine, ma rappresenta tutta la moltitudine, nel senso che al di fuori di esso, cioè al di fuori della sovranità imperiale sul popolo globale, non può e non deve esserci niente. E se qualcuno si ostina a porsi al di fuori dell’Impero, viene etichettato come appartenente ad una cultura diversa e, ovviamente, inferiore.


Con il passaggio all’Impero, le differenze biologiche sono state rimpiazzate da significanti sociologici e culturali intorno ai quali si costituiscono le rappresentazioni dell’odio e della paura della differenza razziale […] Dato che la biologia è stata abbandonata nella sua funzione di supporto e di fondamento (del razzismo) […] la cultura finisce per sostituirla nel ruolo che essa svolgeva in precedenza(4)


Ciò non significa che all’interno dell’Impero non ci sia un pluralismo di differenze culturali, ma che esse vengono accettate solo se si lasciano assorbire e amministrare. Di fronte a tutto ciò è necessario rispondere, secondo i due autori, sia con un ragionamento “critico e decostruttivo”, che sovverta i linguaggi e le strutture sociali egemoni, sia con un ragionamento “costruttivo ed etico-politico”, che crei una credibile ed immanente alternativa politico-sociale, c’è bisogno, in altri termini, di un “rifiuto costruttivo” (simile a quel Grande Rifiuto di Ragione e rivoluzione). E tale argomentazione non si fonda su una speranza bensì su una realistica possibilità, poiché è l’Impero stesso a generare
Un potenziale rivoluzionario assai più grande di quello creato dai moderni regimi di potere, poiché ci mostra, accanto alla macchina di comando, un’alternativa effettiva: l’insieme degli sfruttati e dei sottomessi, una moltitudine che è direttamente, e senza alcuna mediazione, contro l’Impero(5)Infine, non si può ignorare come, fin dal primo dopoguerra, in Italia Pier Paolo Pasolini abbia individuato una dissociazione fra il progresso scientifico, tecnico ed industriale, e lo sviluppo culturale e civile. Una dissociazione, dagli esiti tragici, dovuta ad

un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante(6)Ricordando alcune tra le più significative tesi elaborate parallelamente ed autonomamente da molti altri intellettuali europei, anche Pasolini ravvisa nel capitalismo non un mero fenomeno economico, ma un grande fenomeno culturale inaugurante una vera e propria “mutazione antropologica”, a causa di una modificazione materiale (i nuovi oggetti prodotti) e mentale (il nuovo linguaggio utilizzato) del mondo. Anche lui vede nel conformismo consumistico una nuova forma di controllo sociale che opera omologando materialmente e culturalmente gli individui, ed individua in una sorta di ribellione costruttiva l’unica via di miglioramento sociale. Tuttavia, per Pasolini (differentemente, ad esempio, da Herbert Marcuse) il movimento del ’68 non rappresenta altro che un momento di ribellismo borghese destinato, in ultima istanza, a confermare il sistema esistente: l’autentico rifiuto del potere non si attua scontrandosi con questo, ma non lasciandosene sedurre; infatti, come scrive ad un suo immaginario allievo nel 1975, nell’ambito di un’opera pedagogica intitolata Gennariello e non terminata a causa della prematura morte,

Ti descriverò prima i ragazzi che si possono approssimativamente chiamare «obbedienti» (il fatto che qualche volta si atteggino a contestatori, estremisti, ribelli ecc. non ha alcuna importanza: come non hanno importanza i loro capelli lunghi, cristallizzati ormai nelle ridicole e un po’ schifose acconciature di un’iniziazione totalmente conformista). Poi ti descriverò i ragazzi che si possono approssimativamente chiamare «disobbedienti», cioè i pochi veri estremisti sopravvissuti, i disadattati, i devianti e infine – questi rarissimi – i «colti»(7)


Va infine ricordato come, diversamente dagli autori della prima Scuola di Francoforte, Pasolini non riconduca queste problematiche ad un generale processo di degenerazione insito nella civilizzazione occidentale, ma ad un ceto politico incapace e corrotto, per indicare il quale conia il termine di “Palazzo”.
Concludendo, si può notare come nel mondo occidentale la cultura letteraria e filosofica abbia pressoché sempre scorto enormi mali connessi all’avvento della modernizzazione scientifico-tecnico-industriale. Tuttavia ciò non sta ad indicare, come potrebbe sembrare, un’avversione dell’intellighenzia nei confronti della modernità. Infatti, che lo si definisca come capitalismo, totalitarismo, sistema, Impero o Palazzo, il trait d’union che lega le varie interpretazioni critiche dell’epoca moderna risiede nella constatazione dell’eliminazione, in essa, della forza del pensiero autonomo, ovvero di quell’ultima possibilità di resistenza al male, di quella forza, potenzialmente propria di ogni uomo, che permette di mantenere la propria assoluta libertà.

1) La trasformazione degli eserciti nazionali in polizia internazionale sarebbe accettabile, e forse addirittura auspicabile, se fosse la conseguenza della «stabilizzazione di uno stato di cittadinanza universale (che) comporterebbe che le violazioni contro i diritti umani non verrebbero giudicate e condannate da un punto di vista morale, ma verrebbero perseguite come le azioni criminose commesse all’interno di un qualsiasi ordine costituito [...] (ciò) preserverebbe il trattamento legale delle violazioni dei diritti umani da un’indistinzione giuridica e impedirebbe il brutale e immediato affermarsi di discriminazioni morali di “nemici”. Un tale scenario si potrebbe affermare anche a prescindere dal monopolio della violenza di uno stato e di un governo mondiali. Ma come minimo è necessario un Consiglio di sicurezza funzionante, la giurisprudenza vincolante di una corte di giustizia internazionale e l’integrazione dell’Assemblea generale dei rappresentanti dei governi con un “secondo livello” di rappresentanza dei cittadini», J. Habermas, Umanità e bestialità, in «Caffè Europa», n. 33, 1999, parentesi mie.
2) Sulla produzione delle soggettività tramite l’interiorizzazione dei modelli di dominio, veicolati dai mass-media e dall’industria del divertimento, esiste una bibliografia amplissima di cui, alcuni significativi risultati sono: M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966; A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, Armando, Roma 2003; H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967; G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano 1997.
3) M. Hardt – A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2001, p. 107, sulla dicotomia moltitudine-popolo cfr. P. Virno, Grammatica della moltitudine, DeriveApprodi, Roma 2002. Per non avere colto tutto ciò ed essersi limitata alla denuncia della distruzione della sfera pubblica democratica, Hardt e Negri criticano lo studio arendtiano sul totalitarismo; ma, a “discolpa” della Arendt, si deve ricordare come ella intenda il totalitarismo come un determinato evento storico-politico e non come una categoria concettuale.
4) M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 182, parentesi mia; su una nuova forma di razzismo, sganciata da un’accezione biologistica di razza cfr. E. Balibar, Esiste un “Neorazzismo”?, in I. Wallerstein – E. Balibar, Razza nazione classe, Edizioni Associate, Milano 1996.
5) M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 364.
6) P. P. Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, Torino 2003, p. 12, cfr. G. Sapelli, Modernizzazione senza sviluppo, Mondadori, Milano 2005.
7) Ibidem, p. 57.

L'educazione data a un ragazzo dagli oggetti, dalle cose, dalla realtà fisica – in altre parole dai fenomeni materiali della sua condizione sociale – rende quel ragazzo corporeamente quello che è e quello che sarà per tutta la vita. A essere educata è la sua carne come forma del suo spirito.
Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane

Fanno il deserto e lo chiamano pace.
Tacito

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