martedì 28 aprile 2009

...aforismi...

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Sempre, a maggior ragione in un'epoca culturalmente, umanamente appannata, il confronto col (e mai lo scimmiottamento del) passato, offre la possibilità di un futuro consapevole.

Presta a tutti il tuo orecchio, a pochi la tua voce. (William Shakespeare)

Il destino è un'invenzione della gente fiacca e rassegnata. (Ignazio Silone)

Solo i deboli hanno paura di essere influenzati. (Johann Wolfgang von Goethe)

Bisogna essere duri senza perdere la tenerezza. (Ernesto Che Guevara)

Una cosa buona non ci piace, se non ne siamo all'altezza. (Friedrich Nietzsche)

Di tutto conosciamo il prezzo, di niente il valore. (Friedrich Nietzsche)

Non è forte colui che non cade mai, ma colui che cadendo si rialza. (Johann Wolfgang von Goethe)

Non fare agli altri quello che vorresti fosse fatto a te, i loro gusti potrebbero essere diversi. (George Bernard Shaw)

Se avessimo tutti le stesse opinioni non ci sarebbero le corse dei cavalli. (George Bernard Shaw)

A volte l'uomo inciampa nella verità, ma nella maggior parte dei casi, si rialza e continua per la sua strada. (Winston Churchill)

Il fatto che nessuno ti capisca, non vuol dire per forza che tu sia un artista. (Anonimo)

A proposito di politica... ci sarebbe qualcosa da mangiare? (Totò)

Chi è amico di tutti non è amico di nessuno. (Arthur Schopenhauer)

Il fatto che un'opinione sia ampiamente condivisa, non è affatto una prova che non sia completamente assurda. (Bertrand Russell)

Si vive in un'epoca in cui solo gli ottusi sono presi sul serio, e io vivo nel terrore di non essere frainteso. (Oscar Wilde)

Meglio tacere e passare per idiota che parlare e dissipare ogni dubbio. (Abraham Lincoln)

Eletti sono coloro per i quali le cose belle non hanno altro significato che di pura bellezza. (Oscar Wilde)

All'età di cinquant'anni ogni uomo ha la faccia che si merita. (George Orwell)

Per capire e raggiungere ciò che vuoi comincia a scartare ciò che non vuoi. (Mark Twain)

Il problema dell'umanità è che gli stupidi sono strasicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi. (Bertrand Russell)

La gente è il più grande spettacolo del mondo. E non si paga il biglietto. (Charles Bukowski)

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giovedì 23 aprile 2009

Da Lògos a logo

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Quello di lògos è un termine che deriva dal greco antico (da léghein) e, come ogni buon termine sensato, è filosoficamente denso, non avendo un unico e ben determinato senso ma esprimendo piuttosto una molteplicità di significati: argomento, causa, concetto, discorso, definizione, enunciato, frase, parola, pensiero, proporzione, ragionamento, ragione, spiegazione ed altri ancora. Il termine ha una storia prestigiosa, essendo passato nel vocabolario personale di diversi pensatori. Per Eraclito esso è una "legge universale" che racchiude il senso di tutte le cose del mondo e dà armonia ai contrari che in esse si trovano. Platone, nel Teeteto distingue tre accezioni di lògos: come manifestazione del pensiero attraverso i suoni articolati di una lingua, come espressione di una cosa tramite la descrizione degli elementi che la costituiscono e come segno di individuazione di qualcosa tramite la differenza dalle altre cose; tutti significati che fanno del lògos un qualcosa di discorsivo-descrittivo. In Aristotele il lògos rappresenta il fulcro della teoria logico-analitica grazie alla quale si può valutare la veridicità di un'asserzione. Dagli stoici è definito come lògos spermatikùs, ragione seminale che feconda la materia. Dopo essere passato attraverso il Medioevo, il termine riappare significativamente in Fichte come manifestazione del divino sottoforma di sapere. Insomma il lògos è tipico di tutta la filosofia occidentale e, nonostante le diverse letture che ne sono state date, esso è sempre caratterizzato come un qualcosa che rimanda ad altro, come un'apertura su qualcos'altro, infatti la parola, il discorso non esaurisce un pensiero bensì vi allude, lasciandolo sempre disponibile ad altre vie di accesso, d'interpretazione.
Ora, anche il logo, inteso come marchio commerciale, rimanda a qualcos'altro (cioè ai prodotti contraddistinti da quel dato marchio), ed in ciò è "tecnicamente" affine al lògos. La differenza però (sperando che essa sia ancora praticabile e praticata) sta in ciò a cui rimandano: il logo rimanda (nella maniera più accattivante-istupidente possibile) ad una serie di prodotti da acquistare per consumare, il lògos rimanda ad un pensiero da cui, potenzialmente, infiniti altri ne possono nascere. Il logo, allora, somiglia ad una specie di vicolo cieco, di strada chiusa in cui l'oggetto al quale esso rimanda esaurisce completamente la funzione del logo stesso, mentre il lògos rappresenta un sentiero probabilmente infinito fatto di pensieri generanti altri pensieri. Da questa prospettiva logo e lògos sono incompatibili e, forse, è proprio per questo che in una società sempre più "logotizzata" il ragionamento è sempre meno stimato e chi lo pratica (o almeno tenta di praticarlo) è visto o come un eccentrico, una sorta di cabarettista della società contemporanea, o come un soggetto mentalmente disturbato, incapace di allinearsi alla moda della logo(lobo)tomizzazione.

(«Tabula Rasa», n. 2, 2003)

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domenica 19 aprile 2009

Totalitarismi di inizio Novecento

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

L’uomo non può essere libero se non sa di essere soggetto alla necessità, perché la sua libertà è sempre guadagnata nei suoi tentativi, mai pienamente riusciti, di liberarsi dalla necessità
H. Arendt, Vita activa

La lotta per la sopravvivenza è un fenomeno caratterizzante l’intero regno della vita vegetale e animale, dunque anche l’uomo. Ma se nei secoli precedenti al XX tale fenomeno era motivato dalla penuria delle risorse per la sopravvivenza, dal XX secolo in poi, almeno nei Pesi cosiddetti del Primo Mondo, la suddetta motivazione viene meno grazie ai progressi scientifico-tecnologici; ciononostante è, paradossalmente, proprio in quei Paesi e in quel periodo che compaiono i primi regimi totalitari. Per questo il totalitarismo è stato scelto come l’emblematico punto d’avvio di un lavoro teso al raggiungimento del suo opposto: la pacificazione sociale.

Per cercare di definire il fenomeno del totalitarismo nelle sue varie articolazioni e sfaccettature, è necessario investigarne le origini storico-filosofiche, l’humus che ne favorisce l’insorgere e gli eventuali “parametri” che ne consentono di riconoscere la presenza. A tal fine le analisi di Hannah Arendt, che fu tra i primi autori ad esaminare frontalmente l’argomento, costituiscono un imprescindibile punto di riferimento.

Nell’opera Vita activa la riflessione della Arendt raggiunge l’apice della critica della modernità, dando un più ampio respiro alle tematiche già affrontate nella precedente, e forse più nota, opera Le origini del totalitarismo, estremamente legata ai caratteri tipici del nazionalsocialismo. In Vita activa la Arendt compie un’analisi fenomenologica delle condizioni strutturali dell’esistenza umana, delle sue attività peculiari e delle dimensioni in cui queste si svolgono. Per la Arendt le attività fondamentali che caratterizzano la condizione umana sono il lavoro, l’opera e l’azione. Il lavoro costituisce l’insieme delle attività necessarie a garantire la sopravvivenza biologica e l’essere che lavora a questo scopo è definito come animal laborans(1); l’opera (che a differenza del lavoro non è prodotta dall’intero corpo in generale, ma specificatamente dalle mani(2)) è quella funzione tramite la quale l’uomo «fabbrica l’infinta varietà delle cose la cui somma totale costituisce il mondo artificiale»(3), e la figura a ciò corrispondente è quella dell’homo faber; l’azione, caratteristica esclusivamente umana non legata a mere necessità biologiche e/o istintuali, rappresenta la capacità di iniziare qualcosa che ancora non è in atto: «Agire, nel senso più generale, significa prendere un’iniziativa, iniziare […] mettere in movimento qualcosa»(4), e la massima azione umana è l’azione politica che inizia con la nascita ed è costituita da un insieme di relazioni dirette con gli altri, attuate senza la mediazione di oggetti materiali bensì tramite il linguaggio, che ne conserva anche la memoria grazie al racconto, l’azione manifesta quindi la pluralità del genere umano, il fatto che sulla Terra non ci sia l’uomo ma gli uomini(5).

Queste tre attività si collocano necessariamente all’interno di una fra le seguenti dimensioni: la sfera privata e lo spazio pubblico; dimensioni che però hanno ormai un significato distorto rispetto a quello autentico ed originale che, in passato, possedevano all’interno di quello che per la Arendt rappresenta un modello ideale di comunità: la pòlis greca al tempo di Pericle(6). In tale comunità, infatti, la sfera privata era percepita come una sorta di male necessario, ovvero come una limitazione della libertà personale a causa dello svolgimento del lavoro necessario per garantire la sopravvivenza, mentre lo spazio pubblico era vissuto come il “trionfo della libertà”, come un ambito autenticamente politico, inteso come quello spazio in cui era possibile agire e parlare insieme ad altri, lasciando un segno duraturo del nostro passaggio; attualmente invece, la sfera privata è vissuta come la sfera della privatezza del possesso (proprietà privata) e dell’intimità (privacy), e lo spazio pubblico si è ridotto nel sociale, inteso come la pubblicizzazione di temi che in passato erano privati (come gli eventi della nascita e della morte, ed il lavoro per la sopravvivenza che nel loro intervallo di tempo si svolge). Tali mutazioni sono avvenute a causa della proiezione del “sociale” sul “politico”: quella che era un’alleanza finalizza alla sola sopravvivenza (il sociale), si è sostituita all’interazione fra gli uomini finalizzata all’edificazione del mondo (il politico)(7). Conseguentemente la politica viene assorbita dal sociale, si ha un dominio del sociale al quale vengono delegati compiti che prima erano privati: le funzioni atte alla sopravvivenza. Questo processo di degenerazione dello spazio pubblico è stato causato, per la Arendt, dal cristianesimo (in particolare da Tommaso d’Aquino) e dal marxismo; entrambi hanno infatti alterato il significato greco dello spazio pubblico, riducendolo o a mera contemplazione e attesa dell’al di là, o alla lotta per l’edificazione di una determinata società terrena, ed hanno inoltre sostituito le tre attività fondamentali di lavoro, opera e azione, o con quelle di vita materiale (male necessario) e di vita contemplativa (bene verso il quale tendere), o con quelle di lavoro improduttivo (che non lascia traccia) e di lavoro produttivo (di beni).

Più dettagliatamente, le critiche della Arendt sono rivolte alla distinzione operata da Karl Marx (peculiare però, fa notare la Arendt, anche di Adam Smith) fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, ed il conseguente disprezzo per quest’ultimo. Il lavoro improduttivo viene infatti considerato da Marx (e da Smith) come un’attività che non introduce nulla nel mondo, non contribuendo, pertanto, ad arricchirlo e migliorarlo. Ora, per la Arendt, quelle che Marx definisce come lavoro produttivo e lavoro improduttivo non sono altro che le categorie (proprie della condizione umana) di lavoro ed opera. Ci troviamo così, dalla prospettiva arendtiana, in presenza di un duplice errore marxiano: il primo consiste nella mancata comprensione dell’importanza della categoria, all’interno della condizione umana, di lavoro (definito da Marx come lavoro improduttivo) come fattore per la cura ed il mantenimento della vita biologica; il secondo, nell’avere assorbito la categoria di opera all’interno del concetto di lavoro (segnatamente in quello produttivo, ma ciò che conta è la riduzione dell’opera al lavoro), facendo così cadere le differenze tra il lavoro e l’opera. Infatti


sia Smith sia Marx convenivano con l’opinione pubblica moderna nel disprezzare il lavoro improduttivo come parassitario, in effetti una specie di perversione del lavoro, come se non fosse degno del nome di lavoro se non un’attività che arricchisce il mondo […] (ed i “servi domestici” non lo arricchiscono di certo) Tuttavia erano proprio questi servi domestici, questi oiketai o familiares, che lavoravano per la mera sussistenza, necessari per il consumo ozioso piuttosto che per la produzione, che tutte le epoche precedenti alla moderna avevano in mente quando identificavano la condizione del lavoro con la schiavitù […] la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo contiene, benché in modo distorto, la distinzione più fondamentale fra lavoro e opera(8)


Oltre a ciò, prosegue la Arendt, è contraddittorio in Marx il fatto che la libertà, alla quale il telos insito nella storia del genere umano tende, sia descritta come emancipazione dal lavoro, laddove però quest’ultimo è inteso come eterna necessità imposta dalla natura, sicché «Siamo lasciati nell’alternativa piuttosto angosciosa fra schiavitù produttiva e libertà improduttiva»(9). Tale contraddizione origina dalla riduzione dell’opera al lavoro, che priva gli uomini del senso della produttività inerente all’opera: in Marx, il lavoro (che ha del tutto assorbito la categoria di opera) consiste nella messa in pratica della forza lavoro, la quale è finalizzata esclusivamente alla produzione di ciò che sottende al mantenimento della vita biologica, a differenza della produttività dell’opera che introduce nel mondo oggetti artificiali, indipendenti dalle funzioni, di competenza del lavoro, di mantenimento della vita biologica.

Ridurre l’opera al lavoro significa, altresì, perdere le differenze tra la figura dell’homo faber e quella dell’animal laborans. Il primo è, infatti, colui che letteralmente opera, fabbricando con le proprie mani: «l’infinita varietà delle cose la cui somma totale costituisce il mondo artificiale dell’uomo»(10), oggetti caratterizzati dall’elemento della durevolezza e per produrre i quali egli usa violenza alla natura, utilizzandola come materiale per le proprie fabbricazioni, comportandosi così come il “prometeico” (poiché la sua produttività implica la distruzione di parte della natura) signore e padrone della Terra, nonché delle proprie opere: esse hanno sempre un inizio ed una fine definiti e prevedibili sicché, una volta concluso il processo di fabbricazione, sono a sua disposizione; il secondo è, invece, colui che propriamente lavora, (ri)producendo con il proprio corpo la vita, rimanendo pertanto asservito alla natura, alle necessità, senza inizio né fine, della propria vita. L’homo faber è dunque un “fabbricante di strumenti” che poi l’animal laborans usa per lavorare, in altre parole, se il fine ultimo dell’homo faber consiste nella progettazione ed invenzione di strumenti, quello dell’animal laborans risiede nella (ri)produzione della vita, attraverso il consumo dei prodotti del lavoro (che, in quanto tale, si differenzia qualitativamente dall’uso delle opere fabbricate).
Tuttavia, nell’epoca moderna giunge ad una totale (e definitiva?) affermazione quel principio che il cristianesimo aveva introdotto nel mondo antico: la vita come bene supremo. Assunto che, pur essendo di origine cristiana, è sopravvissuto, nella modernità, alla secolarizzazione ed al declino della fede, venendo così applicato non nei confronti dell’immortalità della vita, ma in una prospettiva, immanente, di mantenimento della vita biologica, individuale (ciascun uomo) e collettiva (specie umana):

In ultima analisi, è sempre la vita il punto di riferimento supremo, e gli interessi dell’individuo come quelli del genere umano sono sempre identificati con la vita individuale o con la vita della specie come se fosse scontato che la vita è il bene più alto(11)


Ne consegue che il fabbricare dell’homo faber non viene più inteso come un modo per produrre cose e dominare la natura, bensì come un processo lavorativo finalizzato unicamente alla produzione di ciò che deve essere consumato, per garantire la sopravvivenza dell’uomo, sicché non un generico concetto di lavoro, ma questa specifica concezione del lavoro diventa dominante nella modernità.


L’emancipazione del lavoro non ha dato luogo all’eguaglianza di questa attività con le altre della vita activa, ma al suo quasi indiscusso predominio. Dal punto di vista del “lavorare per vivere”, ogni attività non connessa al lavoro diventa un “hobby
(12)

Fa così la sua comparsa quella moderna figura antropologica a proposito della quale si può dire che

il tempo dell’animal laborans non è mai speso altrimenti che nel consumo, e più tempo gli rimane, più rapaci e insaziabili sono i suoi appetiti. Che questi appetiti divengano più raffinati – così che il consumo non è più limitato alle cose necessarie, ma si estende soprattutto a quelle superflue – non muta il carattere di questa società, ma nasconde il grave pericolo che nessun oggetto del mondo sia protetto dal consumo e dall’annullamento attraverso il consumo(13)

Si impone così nella modernità quella dinamica, tipica dell’animal laborans, di (ri)produzione (soggetta a criteri di efficienza e funzionalità) e consumo (sfruttamento dell’esistente), che reca in sé i germi, sottoforma di condizioni di possibilità, della mentalità totalitaria. L’homo faber è infatti in grado di dare luogo ad uno spazio pubblico, seppure non di carattere politico ma commerciale: il mercato di scambio come luogo d’esposizione delle merci e della loro fabbricazione; diversamente, l’animal laborans risulta essere del tutto privo di un qualsiasi spazio pubblico, la cui assenza è, per la Arendt, la pre-condizione di ogni sistema totalitario.

In Le origini del totalitarismo la Arendt ripercorre quel processo che, in termini storici, ha condotto alle dittature europee ed alla seconda guerra mondiale e, in termini filosofici, allo svilimento dell’agire politico. I momenti decisivi di tale processo sono individuati nell’antisemitismo (derivante dal crollo degli Stati nazionali successivo alle due guerre mondiali che provocò la comparsa di “apolidi” senza nazione, senza cittadinanza e, per questo, senza diritti umani; inoltre, durante la metà del Novecento, tale questione si è aggravata a causa di divisioni geografiche effettuate per interessi politici e non tenenti conto dei vari gruppi etnici, cosicché «Per gruppi sempre più numerosi di persone cessarono improvvisamente di aver valore le norme del mondo circostante»(14)), nell’imperialismo («che aveva imposto il suo dominio sul pianeta grazie a un articolato sistema di stati nazionali al di fuori dei quali i diritti dell’uomo avevano perso ogni valore»(15)) e nella trasformazione plebiscitaria delle democrazie occidentali (nelle quali è ormai presente «L’identificazione del diritto con l’utile»(16), con il pericolo che ciò che risulta “utile” per la maggioranza può non esserlo per le minoranze che rimangono così escluse dalla formazione di un mondo-con-gli-altri).

Uno dei primi effetti della complessiva spoliticizzazione (rispetto al modello ideale dell’Atene periclea) della modernità è quello della perdita, per determinate categorie di persone, dei diritti umani (intesi come la possibilità di agire e pensare), per recuperare i quali è necessario comprendere come essi non siano basati su motivazioni naturalistiche, storiche, religiose, politiche o utilitaristiche, ma si fondino unicamente in una dimensione decisionale e collettivamente partecipativa alla creazione del mondo, infatti


Non si nasce eguali; si diventa eguali come membri di un gruppo in virtù della decisione di garantirsi reciprocamente eguali diritti. La nostra vita politica si basa sul presupposto che possiamo instaurare l’eguaglianza attraverso l’organizzazione, perché l’uomo può trasformare il mondo e crearne uno di comune, insieme coi suoi pari e soltanto con essi(17)

E’ a seguito di queste riflessioni che la Arendt caratterizza il totalitarismo come la negazione della realtà effettiva per farla combaciare con un’ideologia, pertanto come una possibilità sempre presente in ogni piega del quotidiano. Tale male assoluto rappresenta un fenomeno del tutto nuovo, e quindi incomparabile alle precedenti e conosciute forme di regime autoritario: esso rappresenta la cristallizzazione non necessaria delle contraddizioni dell’epoca moderna. Di conseguenza il modello totalitario moderno possiede delle caratteristiche peculiari, che la Arendt riconosce nella cieca fiducia e obbedienza nei confronti del capo, nell’uso della violenza fisica e del terrore (per inibire le relazioni sociali e favorire l’atomizzazione delle masse), nell’esaltazione di una ideologia (veicolata con lo strumento della propaganda), nella presenza di un partito unico (strutturato con una forma gerarchica paramilitare, cosicché gli incarichi istituzionali vanno di pari passo con la carriera militare), nella esplicita subordinazione delle relazioni affettive alla cosiddetta “ragion di Stato” (al fine di annullare qualsiasi vincolo sociale che possa incrinare la totale fedeltà al regime), e nell’intolleranza verso qualsiasi forma di opposizione al punto di eliminare i dissidenti piuttosto che albergarli all’interno della società (è interessante notare che tale eliminazione avviene solo dopo che ai dissenzienti sia stato sottratto il loro status di cittadini, e dunque di soggetti politici, privandoli dei diritti umani ad esso correlati: «In altre parole, è stata creata una condizione di completa assenza di diritti prima di calpestare il loro diritto alla vita»(18)). All’interno di tale caratterizzazione del totalitarismo ricadono sia il nazismo che il comunismo, ed il “campo di stermino”, come luogo di sospensione dei diritti umani e di destrutturazione dell’uomo, ne diventa la metafora più emblematica(19).

Probabilmente, fra i suddetti elementi, il più interessante che la Arendt individua nei totalitarismi novecenteschi è quello dell’ideologia. Essa consiste in un meccanismo razionale che, a partire da premesse “dogmatiche”, deduce conseguenze logiche, il suo scopo è quello di sostituirsi alla realtà effettiva, per ottenerlo ha bisogno, oltre che di un determinato uso del terrore e di una efficiente propaganda, di inibire la capacità di pensare e per inibirla inchioda il pensiero stesso agli stringenti vincoli del ragionamento logico: il pensiero è ridotto a calcolo; a tal fine nulla cambia se l’ideologia si richiama a delle presunte leggi della Natura, come il nazionalsocialismo, o della Storia, come lo stalinismo. L’ideologia, insomma, designa una sorta di “metafisica totalitaria” e descrive il totalitarismo come una vera e propria categoria concettuale, all’interno di un’opera (quella arendtiana) che lo ha invece prevalentemente descritto come una esperienza storica, affondante le sue radici nella degenerazione della vita pubblica(20).

Ecco perché, nell’interpretazione arendtiana il totalitarismo appare non solo e non tanto come una categoria filosofica, quanto piuttosto come un determinato evento storico-politico, caratterizzato da un preciso contesto d’origine e momenti di sviluppo, in altre parole, la Arendt attribuisce al totalitarismo un significato riconducibile «a uno sviluppo storico definito e storicamente ricostruibile (i cui elementi originari, sociali e politici risalgono alle fine del XVIII secolo)»(21). Se quindi da un lato si può osservare la carenza filosofica di tale approccio, dall’altro si devono però evidenziare la nitidezza e la puntualità con le quali è stato sviscerato fin nei minimi particolari, un male che ha afflitto l’Europa nella prima metà del Novecento; tuttavia, a mio avviso, solo nella comprensione della sua essenza, piuttosto che delle sue peculiari manifestazioni storiche, risiede la possibilità di evitarne un nuovo (per forme e condizioni) ritorno.

1) Cfr. H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1991, e, per un’introduzione generale, biografica e filosofica, E. Young-Bruhel, Hannah Arendt, Bollati Boringhieri, Torino 1990, S. Forti (cura), Hannah Arendt, Mondadori, Milano 1999, J. Kristeva, Hannah Arendt: la vita, le parole, Donzelli, Roma 2005, e S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, Mondadori, Milano 2006.
2) Cfr. H. Arendt, “Il lavoro del nostro corpo e l’opera delle nostre mani”, in Ibidem.
3) Ibidem, p. 97.
4) Ibidem, pp. 128-129.

5) Per la Arendt, l’azione politica non abbisogna di una fondazione filosofica poiché la politica è essenzialmente condivisione di parole, discorsi e azioni fra i cittadini al fine di giungere alla più larga partecipazione possibile dei membri della comunità ai processi decisionali; questa concezione è stata criticata in almeno due aspetti da Jürgen Habermas, per il quale la politica necessita di una fondazione filosofica volta all’edificazione di una morale pubblica, e la Arendt rischia di ridurre in toto la politica al solo modello normativo della pòlis greca, come se quello fosse l’unico paradigma possibile di politica, cfr. J. Habermas, La concezione comunicativa del potere in Hannah Arendt, in «Comunità», n. 183, 1981, e R. Gatti, Pensare la democrazia, AVE, Roma 1989.

6) Per un’analisi dell’idea arendtiana di pòlis cfr. P. P. Portinaro, Hannah Arendt e l’utopia della «polis», in «Comunità», n. 183, 1981, D. Sternberger, Die versunkene Stadt, in Die Stadt als Urbild, Suhrkamp, Frankufurt a. M. 1985, A. Dal Lago, «Politeia» Tradizione e politica in Hannah Arendt, in Il politeismo moderno, Unicopli, Milano 1985, e AA. VV., Hannah Arendt tra filosofia e politica (Atti del Convegno di Messina del 25-26 Novembre 2004), Rubbettino, Soveria Mannelli 2006.

7) Cfr. H. Arendt, Lo spazio pubblico e la sfera privata, in Vita activa, cit.

8) Ibidem, p. 62, parentesi mia; qui la Arendt non specifica se l’arricchimento del mondo sia da intendersi solamente in senso materiale od anche intellettuale, a mio avviso, in Marx la distinzione fra lavoro materiale ed intellettuale è applicabile sia al lavoro produttivo che a quello improduttivo, mentre nella Arendt l’opera è
da intendersi sempre e soltanto in senso materiale.
9) Ibidem, p. 74.

10) Ibidem, p. 97.

11) Ibidem, p. 232.

12) Ibidem, p. 91.

13) Ibidem, p. 94; Hans Jonas, che negli anni Venti segue con la Arendt i corsi di Martin Heidegger a Marburgo, concorda con tali posizioni della sua ex collega di studi in Handeln, Erkennen, Denken, in «Merkur», n. 341, 1976.

14) H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Comunità, Torino 1999, p. 373.

15) E. Traverso, L’immagine dell’inferno, in E. Donaggio – D. Scalzo (cura), Sul male, Meltemi, Roma 2003, p. 30.

16) H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 414.

17) Ibidem, p. 417.

18) Ibidem, p. 409.

19) Il superamento di una simile forma di totalitarismo sembrerebbe risiedere in una prassi politica, per così dire, “movimentista”, cioè sganciata dalle ideologie e dai partiti. A proposito, poi, dell’equiparazione fra nazismo e comunismo (in particolare quello staliniano) si deve notare come l’analisi molto più storica che filosofica di tali movimenti, impedisca alla Arendt di cogliere che la tragicità del primo risiede nell’avere fedelmente realizzato le sue premesse teoriche mentre la drammaticità del secondo sta nell’avere abbondantemente tradito il proprio disegno teorico: «Certamente c’è una differenza importante tra i due movimenti: magari usavano gli stessi mezzi atroci e disumani, ma mentre nel nazismo erano ugualmente condannabili sia i mezzi sia i fini, invece nel comunismo lo erano i mezzi non i fini, spesso nobili (liberazione dall’oppressione dei rapporti di lavoro, pari dignità sociale dei cittadini)» F. Manni, Intervista a Norberto Bobbio: il filosofo e i comunisti, in «la Repubblica», 04/05/01.

20) Cfr. H. Arendt, Ideologia e terrore, in Le origini del totalitarismo, cit., capitolo ristampato in S. Forti (cura), La filosofia di fronte all’estremo, Einaudi, Torino 2004; cfr. inoltre, S. Forti, Il totalitarismo, Laterza, Roma-Bari 2001.

21) A. Dal Lago, Introduzione, in H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987, nota 67, p. 32.


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giovedì 16 aprile 2009

Intervista a Michele Santoro

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Si pubblica qui un breve passaggio dell'intervista che Santoro rilasciò amichevolmente al periodico della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università Roma Tre - "Tabula Rasa" - nel 2003, ritenendolo ancora d'attualità.
Domanda (Federico Sollazzo e Roberta Cocchioni): "Che ne pensa dell'attuale rapporto fra democrazia e informazione televisiva in Italia?"
Risposta (Michele Santoro): "La televisione è ammalata di monopolio. Manca la competizione. Berlusconi può controllare il sistema politicamente ed economicamente. Ciò incide in maniera derminante sullo stato della democrazia. In primo luogo perché la televisione resta lo strumento principale di formazione dell'opinione pubblica. Credo che si possa tranquillamente affermare che una tale concentrazione di potere nelle mani di un solo uomo violi la nostra Costituzione per lo meno in tre punti. Viene violato il principo di libera concorrenza. Viene violato il principio che pone alla base di una democrazia la separazione fra i poteri. Viene violato il principio che ci considera eguali nella determinazione del destino politico del nostro Paese: chi può competere in condizioni di parità con Berlusconi?"

(«
Tabula Rasa», n. 0, 2003)

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mercoledì 15 aprile 2009

Dall’artista produttore all’artista ricercatore

di Gustavo Sánchez Velandia (gustavo.sanchez@ehess.fr; I di 4)

Non basta aprire la finestra
per vedere i campi e il fiume.
Non basta non essere cieco
per vedere gli alberi e i fiori.
Bisogna anche non aver alcuna filosofia.
Con la filosofia non vi sono alberi: vi sono solo idee.
Vi è soltanto ognuno di noi, come una spelonca.
C'è solo una finestra chiusa, e tutto il mondo fuori;
E un sogno di ciò che si vedrebbe se la finestra si aprisse,
che mai è ciò che si vede quando la finestra si apre.

Fernando Pessoa

Mentre il sofista è piuttosto colui che possiede la scienza della politica, Socrate rovescia i termini; se è vero che l’oggetto della politica è la coppia amico-nemico, Socrate pratica qualcosa come la politica del sapere - almeno stando all’etimologia della parola “filosofia”. Non è solo questione di nome: Socrate sa che il discorso è allo stesso tempo il suo più grande amico ed il suo più terribile nemico: “Socrate, è vero, è appassionato della parola, del discorso orale e del dialogo. Ma sta di fatto che non meno appassionatamente vuole mostrare i limiti del linguaggio.” (Hadot 2005, p. 97) Mentre il sofista prova a dominare le relazioni nella polis attraverso il discorso, il filosofo prova a limitare il discorso liberando la relazionalità. Una relazionalità che esula dal discorso stesso anche se il discorso essenzialmente - ma appunto solo essenzialmente - la rispecchia.
Fedeli a questa tradizione filosofica del rovesciamento, adesso che ci disponiamo a esaminare le pratiche politiche di alcuni artisti latinoamericani, non proveremo ad interpretarle da una prospettiva filosofica e neanche ci limiteremo a paragonare la filosofia all’arte dichiarando senz’altro che la pratica filosofica è una pratica artistica, bensì proveremo a guardare la teoresi dal punto di vista dell’artista cercando di problematizzare il rapporto egemone che la filosofia esercita su tale attività (l’attivita teoretica) e tentando di formulare le domande che grazie a tale rovesciamento vengono poste alla filosofia e che mettono il discorso davanti alla sua faccia occulta: le gerarchie fra i corpi che esso riproduce ingenuamente.

E’ necessario che qualcuno svincoli il tuo corpo dalle pratiche quotidiane dello sguardo.
Anche se Lucas Ochoa iniziò a dipingere ai dieci anni, egli dice che cominciò a comprendere la singolarità dell’arte ai diciannove anni quando conobbe Nelly Rojas, la sua maestra di disegno all‘Universidad de los Andes a Bogotà. Nelly Rojas insegnava che imparare a disegnare è imparare a guardare.
Abitualmente tendiamo a guardare in modo analitico: vediamo degli elementi separati collocati nello spazio e riconosciamo le loro forme ma facciamo astrazione delle relazioni che esistono fra quegli elementi. Per opposizione alle forme che riconosciamo definiamo, quindi, uno spazio vuoto nel quale propendiamo a non vedere nulla. Lo spazio nelle sue particolari forme di presentarsi rimane latente. Ci sembra che riconoscere certe forme ci aiuti a comprendere ciò che guardiamo, ma allo stesso tempo vediamo solo quelle forme, imponendo alla realtà che incontriamo un modello che precede tale incontro, occultando quanto in essa si presenta ogni volta in modo diverso e perdendo la possibilità di cogliere la relazionalità, la simultaneità. Rojas proponeva, per tanto, degli esercizi che mettevano in crisi questo modo analitico di guardare e attivavano sguardi più olistici. Sebbene qualche volta si riferisse a questi esercizi con l’espressione “disegnare con il lato destro del cervello”, non ne parlava molto. Alcuni di questo esercizi erano: disegnare gli spazi vuoti, disegnare senza guardare la carta, disegnare con la mano sinistra, riprodurre immagini guardandole al rovescio...
Dopo alcuni mesi di esercitazioni con Rojas, Lucas Ochoa percepì dei cambiamenti profondi nel suo modo di vedere. Egli ricorda due eventi in particolare. Il primo avvenne quando, realizzando un autoritratto, si rese conto che nonostante si guardasse tutte le mattine allo specchio, non conosceva il suo volto. Più precisamente rimase fortemente colpito dal suo profilo. Fino ad allora, fra tutti i profili che potevano coincidere con la sua immagine frontale, egli aveva sempre scelto un profilo stereotipato, forse persino infantile. Non era solo colpa della vista frontale: egli era da molti anni in grado di decodificare la profondità partendo dalle ombre ma evidentemente non riusciva a osservare insieme le diverse informazioni che percepiva e preferiva sottomettere il tutto ad un’immagine di sé che trovava gradevole. All’improvviso vide il suo volto prendere forma nella sua totalità e si sentì mostruoso. Dopo quest’esperienza si rese conto che anche il modo in cui guardava i volti degli altri era cambiato. Non vedeva più nasi, occhi, bocche ma volti che sgrovigliavano le loro forme nel tempo.
Il secondo evento che ricorda, ha a che fare con quest’illusione ottica (una delle particolari forme dell’illusione Müller-Lyer):
Lucas Ochoa sfogliava un giorno un libro sulla percezione e si accorse che questa non gli produceva nessun effetto. In teoria davanti a quell’illusione il nostro sguardo si lascia ingannare credendo che uno dei segmenti (A) sia più corto dell’altro (B) ma Ochoa li vide esattamente uguali. Eppure molti anni prima di aver studiato con Nelly Rojas egli si era già trovato davanti a quest’immagine e aveva creduto che il segmento A fosse più corto del segmento B. Alcuni mesi dopo l’evento del libro di percezione ebbe l’opportunità di guardare la stessa immagine proiettata su un grande schermo per accorgersi con sorpresa che il suo sguardo era tornato a percepire il segmento A più corto. Corse a cercarne una versione piccola e comprovò con gioia che percepiva i segmenti della stessa misura. Comprovò inoltre che alcune illusioni continuavano a confondere il suo sguardo ed altre no.
Siamo automaticamente predisposti a guardare i disegni come se si trattasse di proiezioni bidimensionali di situazioni tridimensionali e anche se veniamo informati che non è pertinente interpretarli in questo modo, non riusciamo a non farlo; è necessario esercitarci a guardare in modo diverso attraverso determinate pratiche come quelle proposte da Rojas. Ecco perché la prima illusione non confondeva lo sguardo di Lucas Ochoa solo ad una scala ridotta: egli si era sempre esercitato con il metodo di Rojas su modelli che si trovavano ad una corta distanza.
Ma perché questo bisogno dello sguardo di interpretare a priori segni bidimensionali come proiezioni di oggetti tridimensionali? E’ vero che ciò che percepiamo nella retina è appunto un’immagine bidimensionale. Ma è vero anche che abbiamo due occhi che si muovono all’interno di un corpo in movimento, all’interno di un mondo in movimento. La visione stereoscopica il movimento ed il cambiamento costante del nostro punto di vista nella vita quotidiana dovrebbero bastare a guidare lo sguardo. Risulta, per tanto, difficile capire perché esso si ostini ad attivare automaticamente la grammatica della prospettiva davanti alle immagini bidimensionali. A meno che fra le immagini con le quali abbiamo a che fare la percentuale di quelle che effettivamente vanno interpretate come proiezioni di situazioni tridimensionale fosse talmente alta da rendere scontata la grammatica della prospettiva. Ochoa si chiese, quindi, se quello che potremmo chiamare un pregiudizio prospettico non fosse piuttosto un fenomeno situato storicamente e culturalmente e non una legge deterministica come la psicologia della percezione l’interpreta solitamente (Sebbene Richard Gregory, Profesore emerito di Neuropsicologia all’università di Bristol, avesse già mostrato negli anni settanta che molte di queste illusioni hanno a che fare con la grammatica della prospettiva, è generalmente accettato che questi siano meccanismi universali che competono allo stesso modo a tutti gli esseri umani indipendentemente dal loro ambiente culturale).
Tuttavia davanti a immagini che non contengono elementi specificamente appartenenti alla grammatica della prospettiva, lo sguardo non attiva automaticamente tale pregiudizio, neanche là dove tali immagini possano ricondursi effettivamente ad una proiezione bidimensionale di una situazione tridimensionale.
Il meccanismo si attiva automaticamente quando la relazione fra certi elementi conforma una situazione che potrebbe essere interpretata a partire dalla grammatica della prospettiva e questo nonostante l’immagine nella sua globalità o la situazione in cui è inserita ci informino che non è pertinente avviare un’interpretazione prospettica o che non abbiamo le informazioni necessarie per farlo. Il pregiudizio prospettico non è causato, dunque, solo dall’abitudine, ma dal modo in cui quell’abitudine viene resa possibile dallo sguardo analitico, ovvero da una predisposizione a leggere partendo dagli elementi (e da una relazionalità circoscritta: una riga da sola non ci dice molto, ma ci bastano due righe non parallele per pensare ad un piano che formerebbe un angolo con il piano del disegno) e non dall’insieme (e da una relazionalità aperta). La singolarità che Ochoa cominciò a percepire nell’arte, a partire dall’incontro con Nelly Rojas, aveva a che fare, quindi, con la possibilità di trasformare il modo in cui ci relazioniamo alle rappresentazioni e alle loro logiche o grammatiche particolari. Vedeva, quindi, nell’arte, la possibilità di un tipo di conoscenza e di un tipo di pensiero, per così dire trans-rappresentazionali o trans-grammaticali, ovvero, la possibilità di sviluppare modi dinamici di rapportarsi ai codici partendo da una pratica concreta e corporale che si muove verso quello che per ogni codice particolare è in-sensato, nullo, esteriore alla sua totalità grammaticale sebbene persino lo sorregga (nel caso della prospettiva lo spazio vuoto).

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Trans-ontologia, inter-corporeità, trans-linguisticità

di Gustavo Sánchez Velandia (gustavo.sanchez@ehess.fr; II di 4)

Questo taglio che la grafia (la linea del disegno) opera nell’orizzonte della tattilità (1 lo spazio in quanto esperienza corporale 2 la pittura in quanto materialità che interviene in una superficie 3 la vista in quanto superficie corporale sensibile -la retina- colpita da segnali tattili -i fotoni- che portano l’impronta di altri corpi) ricorderà, forse, l’idea di McLuhan secondo la quale la scrittura (alfabetica) opera un taglio nel continuum dell’oralità. Lo stesso McLuhan assimila l’oralità e la tattilità. Giacomo Marramao nel suo Minima temporalia segnala la relazione che esiste fra scrittura e disegno: “Γραφή vale dunque nella duplice significazione di scrittura e pittura: essa è propriamente di-segno, de-cisione. L’incisione, in cui la γραφή per sua essenza consiste, rappresenta in altri termini un taglio, una ferita inferta al corpo dell’essere. Folle per Platone, chi pensa che la verità possa avere dimora in una tale impressione, il cui unico effetto è di alterare il continuum omogeneo del discorso inducendovi l’affezione della differenza.” Ovviamente la pittura che Platone ha in mente non è la pittura che noi, dopo il secolo XX, possiamo avere in mente, ovvero una pittura in cui la componente tattile è decisiva. Abbiamo visto, però, che gli esercizi proposti da Rojas sembrerebbero mostrare che la possibilità di cogliere la differenza si trovi dal lato della tattilità liberandola dai modelli imposti dalla grafia. Sennonché per riuscire a fare questo, Rojas provava pure a liberare la linea dalla sua funzione di separazione fra fondo e figura, fra vuoto e essere, esplorandola come gesto materico, riconnettendola con la tattilità. In atre parole, perché la grafia possa operare la riduzione analitica è necessario che sia stata separata dalla tattilità e occultata in quanto gesto, traccia, materiale, corpo. Il logos che Platone vuole preservare dalla scrittura non è, quindi, l’orizzonte orale-tattile ma una parola separata dalle cose e completamente presente a se stessa. Occultata, quindi, in quanto vibrazione, tonalità, movimento. Si tratta della parola che insegue l’idea, un immagine, anch’essa immateriale, senza corpo. La domanda per l’essere delle cose “che cos’è il tavolo in quanto tavolo” ha proprio lo scopo d’isolare la figura dal suo sfondo, l’ente dalla corporeità caotica in cui è inserito. In questo senso quella possibilità dell’arte di essere trans-rappresentazionale o trans-grammaticale potrebbe chiamarsi anche trans-ontologia.
Si tratta ovviamente di una possibilità. Non ci sono strade necessarie in arte. Se essere trans-ontologici sia ciò che si addice di più all’essenza dell’arte, non è una domanda che interessi a Lucas Ochoa (è ovviamente non è una domanda trans-ontologica). Gli interessa che l’arte possa essere anche pensiero e conoscenza e, quindi, trans-ontologia, e gli interessa difendere tale possibilità. Tale possibilità non è per tanto, automatica: è necessario attivarla con una decisione volontaria. Ma questa decisione, come abbiamo visto con l’esempio dell’illusione Müller-Lyer, non può essere presa soltanto in una istanza mentale (cioè attraverso un linguaggio immateriale, interamente presente a sé stesso nel quale la coincidenza fra concetto e significante è perfetta poiché il significante si è volatilizzato). La ricerca artistica di Ochoa dopo l’incontro con Nelly Rojas si centrerà sul problema di come prendere/attuare tale decisione. Egli continuerà ad esplorare, quindi, il legame fra tattilità e pensiero che l’incontro con Rojas gli aveva aperto partendo dalla condizione di corpo che pensa in relazione ad altri corpi umani e non umani. Potremmo chiamare questa preoccupazione per l’intersoggettività, abbinata alla corporeità, inter-corporeità. L’inter-corporeità come luogo del pensiero.
Tuttavia negli anni che seguirono Ochoa trovò degli ostacoli allo sviluppo di questa possibilità all’interno dei programmi artistici che frequentò in diverse università. Si potrebbe cominciare dalla stessa Rojas, la quale sottometteva le pratiche dello sguardo che comunicava ai suoi allievi, a delle grammatiche della composizione fondate sulla contestata e ambigua idea dell’equilibrio visivo all’interno della superficie pittorica. L’opera era accettabile se concordava con certe regole della composizione che potevano non arricchire o persino contraddire le problematiche che essa esaminava. Per molti all’interno di quelle università ciò che qui abbiamo chiamato arte trans-ontologica non rappresentava una vera problematica artistica. Probabilmente una delle ragioni è che spostare il centro della problematica artistica dall’oggetto al rapporto fra inter-corporeità e pensiero produce una pratica non funzionale ad un mercato artistico. Ma allora perché scomodarsi osteggiandola? Il mercato s’incaricherebbe di annullarla. Si potrebbe rovesciare il problema: il mercato si approfitta dell’incapacità dell’arte di divenire pensiero e conoscenza.
Sebbene l’arte contemporanea abbia provato a fare i conti con il soggettivismo moderno - spostando il fulcro della produzione artistica dal talento di una genialità individuale all’intersoggettività semantica che dipende dai circuiti in cui l’opera è prodotta, fruita, interpretata, non sembra aver esaminato abbastanza il problema della scissione fra sensibilità e ragione (fra corpo e mente), così legato al soggettivismo. Anzi, è probabile che questa scissione si veda accentuata dall’identificazione fra inter-soggettività e linguaggio. Per Ochoa, sebbene il linguaggio sia una pratica intersoggettiva, non necessariamente le pratiche intersoggettive sono linguistiche: una pratica intersoggettiva può eccedere i giochi linguistici in cui essa si da trasformandoli o addirittura fondandone di nuovi. Si potrebbe dire che tutto dipende dalla concezione che abbiamo di linguaggio (cos’è più essenziale la sua componente sincronica-grammaticale o quella diacronica-storica?) ma il problema è che parliamo di linguaggio (uno solo) partendo, quindi, di fatto, da un a-priori: che tutti i fenomeni linguistici siano riconducibili ad una sola forma. Tale forma definirà ciò che è significativo per noi (definendo l’ambito della nostra semantica) mentre il resto (che adesso ha senso solo in quanto rimanda al semantico) farà parte della vita inafferrabile e transitoria dei segni.
Per Ochoa era necessario, dunque, distaccare il pensiero dal linguistico senza che ciò implicasse ricadere nel soggettivismo. Tale ottica translinguistica era precisamente la possibilità che egli intravedeva nell’arte come pratica di pensiero (trans-ontologica, trans-rappresentazionale, trans-grammaticale).
Nella sua immaginazione di artista plastico che riflette interagendo con i materiali visualizza spesso la mente come una materia plastica che interagisce con il mondo e che si estende per tutto il suo corpo. La mente-corpo riceve le impronte del mondo e delle altre menti-corpo, porta nella sua materia le tracce di questi incontri, che si sovrappongono come l’operare costante di una folla di sigilli su di un’argilla tenera capace di trattenere quelle incisioni nella sua materia anche dopo l’azione di altri miliardi di sigilli. Pensare sarebbe qualcosa come mettere in moto quest’intera forma, questo groviglio plastico d’impronte.

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Arte dell’azione come creazione di comunità trasversali di ricerca

di Gustavo Sánchez Velandia (gustavo.sanchez@ehess.fr; III di 4)

Dopo i suoi studi artistici a Bogotà Ochoa deve trasferirsi a Roma dove decide iscriversi alla facoltà di filosofia e di andare a vivere come volontario in una comunità di disabili (Capodarco). Egli fa queste due cose in quanto artista plastico cha va all’incontro di altri corpi e di altri pensieri. Si trattava quindi, dichiara, di un’azione plastica. Non bisogna intenderla, però, semplicemente come l’intento di una fusione fra arte e vita. Egli cercava condizioni propizie per continuare la sua ricerca artistica trans-ontologica. Come abbiamo visto questa ricerca ha a che fare con un tipo di pensiero e di conoscenza che si fondano sulla relazione con l’alterità, con l’altro in quanto esteriorità -corporale, linguistica, mentale. Esteriorità, quindi, indipendente dai modelli che segue lo sguardo e irriducibile alle grammatiche di cui l'Io si serve per organizzare e comunicare.
Ciò implicava che la sua pratica artistica doveva in un certo senso emanciparsi dalla disciplina artistica. Con questo egli intende soprattutto due cose: abbandonare la volontà di dominio del materiale e abbandonare l’ambito disciplinare artistico che - dovuto ad una civilizzata divisione del lavoro intellettuale - vieta all’arte di addentrarsi nei terreni delle altre discipline: la conoscenza (scienza) ed il pensiero (filosofia) [E’ evidente che tutte le discipline comportano conoscenza e pensiero, ma la distinzione che qui operiamo riguarda piuttosto delle relazioni di potere fra le discipline e il modo in cui demarcano i loro domini. La scienza fonda il suo dominio sulla conoscenza e la filosofia sul pensiero].
Bisogna dire che con “abbandono della volontà di dominio del materiale”, Ochoa intende che nella relazione che l’artista sviluppa con i materiali, essi devono essere vissuti come alterità, vale a dire come realtà indipendenti dall’artista e che non si faranno mai presenti per intero. Lo stesso termine materiale pone dei problemi a questo punto, in quanto fa pensare ad un’oggettualità che l’artista può percepire interamente e quindi dominare. Useremo la parola “altrità”, distinguendola di “alterità”, per parlare di ciò che si presenta allo sguardo dell’artista e riserveremo alterità (come abbiamo fatto finora) per parlare di ciò che è esteriore e irriducibile ai modelli con cui opera detto sguardo. Abbandonare la volontà di dominio implica una certa perseveranza, una certa insistenza, nel sostare in quella pratica in cui l’artista fa esperienza dell’altrità e allontanarsi da quella in cui l’artista è capace di usare l’esperienza accumulata per attirare, commuovere, imprigionare lo sguardo altrui. Inoltre, per Ochoa, sostare nella conoscenza dell’altrità non basta, ma tale pratica deve essere legata allo scopo di svelare l’alterità nell’altrità. Tutto ciò sembrerebbe paradossale: perseverare con insistenza per raggiungere un dato scopo potrebbe essere una buona definizione di disciplina. Si tratta infatti di un tipo di disciplina, di una limitazione di sé. L’arte del S. XX ha compiuto dei passi importanti nella pratica del sostare a contatto con l’altrità. Così, ha compreso che l’altrità con la quale interagisce non si esaurisce in un pigmento o in una materia lignea o litica, per esempio, ma che tale materia o tale pigmento appartengono a realtà più estese, sociali, ecologiche, economiche, che le rendono possibili. Ma il problema dell’alterità dell’altrità non si è posto in un modo così chiaro. La difficoltà che ciò implica, d’accordo ad Ochoa, è che dato che l’arte si vuole una sfera autonoma - e quindi ha bisogno di riprodursi come economia e come insieme di pratiche - se l’opera d’arte singola non ha alcuno scopo al di fuori della sua unità finale, lo scopo che gli viene imposto è quello della riproduzione della totalità da cui dipende (la sfera artistica). La sfera artistica inoltre intrattiene un rapporto ambiguo con la propria autonomia giacché pare voler costruirla adoperando le stesse pratiche di riproduzione della totalità globale.
Con l’azione plastica “inscriversi in una facoltà di filosofia e andare a vivere come volontario in una comunità di disabili”, cercava dunque, un contesto adatto alla sua pratica artistica fissando alcuni luoghi intorno ai quali orbitare: - L’artista ricercatore per opposizione all’artista produttore.
- L’esteriorità corporale (disabilità fisica).
- L’esteriorità linguistica (disabilità mentale).
- Il pensiero trans-linguistico in relazione alla storia del pensiero (occidentale).
- Inter-disciplinare (relazione fra le discipline) e trans-disciplinare (relazione fra le discipline e l’alterità).
- L’esteriorità economica (il volontario, Capodarco che offre vitto e alloggio in cambio.)
Per Ochoa, l’artista d’azione interviene nella temporalità quotidiana generando una piega nel suo ordine. Quest’ordine è conformato per l’intreccio di strutture o grammatiche attraverso le quali distribuiamo i nostri tempi, le nostre attività, le nostre energie, e ci relazioniamo gli uni agli altri. Quest’ordine, quindi, non è una grammatica, una struttura o un linguaggio, è piuttosto una sorta di incastro fra diverse strutture, grammatiche e linguaggi. Generare una piega sarebbe allora, qualcosa come provocare uno sfasamento fra i diversi ordini o fare in modo che un ordine infliggesse un taglio in un altro. Nei due posti che aveva scelto Ochoa, la facoltà e la comunità, la struttura della comunicazione corre parallela a quella dei ruoli [La comunicazione tende a essere simmetrica fra soggetti che occupano lo stesso ruolo ma asimmetrica fra ruoli diversi. Queste asimmetrie possono sostenere o generare gerarchie fra i ruoli]; allo stesso tempo la comunicazione segue l’ordine delle tecniche (afasia(1), oralità, grafia, meccanizzazione, elettronica) e a loro volta ognuna di queste tecniche è una struttura a sé stante che demarca certi modi di essere della corporalità e della relazionalità (ognuna di queste tecniche può essere vista come un modo di potenziare o estendere il proprio corpo). Tutte queste tecniche sono attraversate [1] da un lato da tensioni materiali-astratte che potrebbero essere gerarchizzate collocando alla base la più barbara (la più materiale: afasia) e alla testa la più moderna (la più astratta: elettronica) - e quindi facendo coincidere la loro evoluzione storica con il progresso - e [2] dall’altro lato dalla tensione tattile-visiva(2) che giustificherebbe un secondo tipo di gerarchia con alla base le più corporali (le più tattili) e alla testa le più spirituali (le più visive) - la loro evoluzione storica descriverebbe dunque, una parabola il cui punto più alto di spiritualità si troverebbe nella grafia per decadere dopo con l’elettronica. Bisogna dire che, come abbiamo visto con il caso di Platone, non deve confondersi l’oralità con la parola; quest’ultima sarebbe piuttosto la tendenza a volatilizzare il significante che si trasmette dall’oralità alle altre tecniche e che probabilmente si fonda su un’identificazione fra linguaggio, pensiero e struttura verbale. Sebbene, come prova a mostrare Chomsky, la struttura verbale sia una struttura innata della mente-cervello risulta assurdo ridurre ad una funzione localizzata il pensiero ed il linguaggio. Tale riduzione comporta, inoltre, una disumanizzazione dell’afasico(3) e del malato mentale in quanto si pretende identificare quella funzione (la struttura verbale) con le capacità più specifiche della specie umana e che la distinguerebbero dalle altre: in altre parole pretende che sia tale struttura a rendere umano l’essere umano; chi non la possiede è quindi meno umano. Questo ci porta all’altra tensione che attraversa l’azione di Ochoa: i due luoghi scelti (la facoltà di filosofia e Capodarco) si trovano coinvolti nelle relazioni normodotato-disabile e ragione-follia.
L’azione plastica del nostro artista si è articolata in una serie di “piccole trasgressioni grammaticali” intorno alle quali egli voleva generare due comunità di ricerca (una alla facoltà e una alla comunità) dei confini labili e trasversali alle gerarchie esistenti nei due luoghi. In un momento ancora incerto le due comunità trasversali avrebbero dovuto toccarsi implicando inoltre una trasgressione nella grammatica spaziale urbana (fra la facoltà e Capodarco c’è una distanza di più di 9 km). Egli riassumeva la creazione di queste comunità di ricerca translinguistiche nel progetto di un’estetica pratica della filsofia: “La filosofia, non tanto nei suoi contenuti quanto nei suoi modi di essere - e che cosa sono questi modi se non la forma in cui essa compone i suoi materiali, organizza le vibrazioni delle sue voci, diffonde le sue scritture, costruisce le sue aule? - prescrive determinate relazioni ai corpi al di fuori delle quali decide che non può esistere. In quale luogo della filosofia si trova questa decisione? Non è piuttosto una sua abitudine arbitraria? E se la filosofia decide che non può uscire da una specifica relazione di corpi la quale è completamente compatibile con la gerarchia di corpi del nostro presente ossia con il dominio che alcuni corpi esercitano su altri corpi è possibile che essa riesca a farne una seria critica (di tale dominio)?” (Ochoa 2008)
La serie di “trasgressioni grammaticali” sarebbe la seguente:
- Ai ruoli di allievo e volontario anteporrà quello di artista ricercatore.
- L’artista ricercatore conosce e pensa l’altrità in cui si trova.
- Elaborare delle conoscenze non coincide con elaborare delle rappresentazioni fedeli dell’altrità (l’altrità non si da mai per intero).
- Possibilità da esplorare: conoscenza come pratica costante di apertura: tenere aperte le condizione perché l’alterità dell’altrità possa presentarsi ogni volta.
- Pensare è mettere in moto il corpo-mente: interagire con l’altrità.
- L’interazione con una comunità implica in qualche misura la sua trasformazione.
- Prendere in modo responsabile la trasformazione, non vuol dire dirigerla (ciò implicherebbe piegarla ad un modello pre-esistente all’incontro con l’altrità) ma accordarla all’alterità.
- Ogni estensione del corpo configura un tipo di scrittura cioè un modo in cui il corpo-mente lascia le impronte della sua attività nell’altrità.
- Parlare non si identifica con attivare la funzione verbale della mente-cervello. Tale funzione si attiva anche, per esempio, quando si disegna in modo analitico.
- Possibilità da esplorare: parlare “con il lato destro del cervello”, parlare non verbalmente. [Si sa che l’afasia, in quanto malattia, è causata da danni provocati in determinate aree del cervello (area di Broca, area di Wernicke) localizzate generalmente nell’emisfero sinistro. Ciononostante, quando la lesione è permanente l’afasico impara a parlare usando altre aree del cervello].
Ochoa, quindi, comincia a lavorare nella costruzione delle due comunità trasversali esplorando diverse modalità di conversazione non verbale. Non si tratta necessariamente, come si è visto prima, di conversazioni non orali ma di conversazioni nelle quali la funzione verbale sia una funzione fra le altre e non la funzione primordiale. Queste conversazioni potevano, per tanto, comprendere quello che normalmente chiamiamo conversazione (scambio di frasi articolate oralmente) ma si provava ad evitare in esse che l’oralità si riducesse al verbale. Così l’oralità veniva esaminata soprattutto come scrittura, vale a dire come impronta - sebbene vibrazione effimera - lasciata dal corpo-mente nella sua interazione con l’altro, ed affiancata ad altre scritture (altre estensioni del corpo-mente), anch’esse vissute in modo non verbale. Le conversazioni di Ochoa sono delle istallazioni nelle quali usa dei materiali leggeri e flessibili assieme alla sua voce ed al suo corpo per interagire con la facoltà e la comunità, con i loro abitanti ed i loro spazi. L’istallazione è vissuta in esse come estensione del corpo-mente e come orizzonte generale per una scrittura transontologica.

1) Uso qui la parola afasia nel suo senso etimologico: non-parola. Storicamente si tratta del periodo precedente all’ingresso del linguaggio verbale. Implica quindi un pensiero ed una comunicazione non verbali. Vigotsky, per esempio, chiama questo tipo di pensiero, pensiero strumentale perché in rapporto all’uso di strumenti da non confondere, quindi, con la ragione strumentale o strategica.
2) Come abbiamo visto il visivo non coincide pienamente con la visione ma si tratta piuttosto della visione considerata come fenomeno immateriale e depurata quindi dalla sua componente tattile.
3) In questo caso mi riferisco al malato soprattutto ma anche, perché no?, a chi si trova a esperire un pensiero non-parola. La afasia in quanto malattia ha a che fare con un danno nel lato sinistro del cervello e come abbiamo visto il pensiero trans-ontologico sembrerebbe avere a che fare, invece, con il lato destro del cervello.

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Scritture della liberazione

di Gustavo Sánchez Velandia (gustavo.sanchez@ehess.fr; IV di 4)

Mentre si trovava in questa ricerca artistica, Ochoa conobbe Simona Landolfi, insegnante di filosofia moderna alla facoltà di lettere e filosofia dell’Università Roma Tre. Simona Landolfi aveva l’idea di creare un laboratorio di pratica filosofica attraverso la scrittura, un opificio delle finzioni. Sebbene Landolfi sembrasse interessata soprattutto a esaminare problemi come il rapporto fra soggetto e verità attraverso la narrazione, o la relazione fra filosofia e letteratura (la filosofia come genere letterario) - ovvero problemi nei quali Ochoa sospettava un’integrazione dell’arte nella filosofia attraverso il paradigma verbale - probabilmente le conversazioni translinguistiche del nostro artista bogotano si sarebbero arricchite grazie all’allargamento della pratica filosofica che prometteva l’opificio delle finzioni. Così il laboratorio di Landolfi si trovò a patire le azioni trans-ontologiche del colombiano.
E’ importante che abbiamo ricordato adesso la nazionalità di Ochoa giacché proprio in quel momento egli cominciava a subire gli effetti della sua diversità culturale (della quale non era molto convinto) e che spesso occultava la sua alterità. Comparve nella sua ricerca un’altra variabile: il colonialismo.
Egli dedicò molte delle sue conversazioni translinguistiche con l’opificio al tema del colonialismo della scrittura e di come esso poteva essere condizione di possibilità del colonialismo dei saperi e del pensiero. Echeggiando il filosofo argentino Enrique Dussel, chiamò questa pratica filosofica di decolonizzazione della scrittura, scritture della liberazione:
“ La prima cosa da fare sarebbe liberare la scrittura: ------------------------------k, ....ùjkdsjkdsjbsdgvjb.,.,.,,.,,.,.,..,.lkk.---------=====++++èèèè[[[[]]]]]-------------
Ecco. Oppure: [Ochoa disegna uno scarabocchio] Ma si fa veramente lo sforzo di leggere queste cose? O semplicemente l’occhio salta con velocità nella zona sicura della scrittura lineare? Quindi mi costringo ad alternare la libertà con l’ordine di un certo tipo di scrittura che siamo abituati a chiamare LA SCRITTURA. Così non ci sarà dubbio che ho scritto (o piuttosto SCRITTO). Per fortuna la strategia necessaria si è manifestata da sola mentre scrivevo: Si parte dalLA SCRITTURA – da un certo ordine di cose – e la si allarga. La scrittura allargata (che chiamerò la scrittura) è metafisica poiché trascende la physis – l’ordine delle cose. Infatti, con LA SCRITTURA posso rappresentare tutto quanto è. Attraverso la scrittura, invece, può presentarsi altro di tutto quanto è. La scrittura è trans-ontologica. La scrittura, quindi, non ha mai fine. LA SCRITTURA tende a occultare la scrittura respingendola come scarabocchio, fregaccio, ghirigoro, smorfia, balbettio, borbottio, goffagine, barbarie, psicopatia... Non-senso o a-senso prodotti dal non-essere, da coloro che non sono o sono a metà o in potenza o hanno un essere incompiuto: schiavi, barbari, aborigeni, infantili, infanti, folli, effeminati, donne, meticci, mulatti, neri, sottosviluppati [...] LA SCRITTURA è un modo di essere della scrittura che una cultura ha imposto alle altre. Questo potere di dominio delLA SCRITTURA sulla scrittura è la colonizzazione (e quest’ultima è la grammatica della modernità) [...] ” (Ochoa 2004) [Grazie a quest’ultima riga potremmo riassumere la pratica artistica trans-ontologica, trans-linguistica, trans-grammaticale, trans-verbale, semplicemente come arte trans-moderna]. Questa critica della ragione scritta che Ochoa vuole attuare grazie alla sua arte trans-moderna si fonda nell’analogia che egli vede fra l’occultamento dell’altro(1) che Europa opera arrivando in America e l‘occultamento della corporeità che opera il pensiero occidentale. Si tratta di un’analogia più che casuale in quanto l’occultamento che Europa compie è l’occultamento della materialità concreta, storica e culturale dell’altro fino al punto di negare la sua corporalità annientandola. Così, l’incontro con l’altro che apre Europa alla coscienza della propria identità e di cui nasce lo stesso occidente è segnato da quest’occultamento della corporeità che offre la prima prova concreta alla possibilità di considerare la propria ragione come universale. L’occultamento della corporeità dell’altro farebbe parte della volatilizzazione del significante attraverso la quale il pensiero occidentale pretende universalizzarsi. Abbiamo visto che tale volatilizzazione ha a che fare con la sottomissione della concretezza del pensiero (il suo darsi nell’intercorporeità) alla funzione verbale. Inoltre Ochoa propone questo darsi del pensiero nell’intercorporeità come orizzonte proprio della scrittura. Questa liberazione della scrittura dalla funzione verbale sembrerebbe seguire le orme di Derrida. Tuttavia si è detto sopra che Ochoa distingue l’oralità dalla funzione verbale indicando che anche la prima può essere vissuta come una scrittura trans-moderna. La vicenda coloniale mostra, d’altronde, come la scrittura alfabetica si è imposta sia alle culture orali sia alle culture fondate in altri tipi di scrittura o nelle quali la grafia non è destinata a rappresentare la parola (la funzione verbale) o la narrazione. L’artista bogotano si allontana dunque, dall’opposizione fra oralità e scrittura che attraversa tutto il pensiero occidentale e si interessa piuttosto del modo in cui certe tracce dominano altre e come questo dominio è condizione di possibilità del dominio che alcuni corpi esercitano su altri.
Questa critica della ragione scritta si legava poi alla comunità trasversale di ricerca che lentamente si creava a Capodarco. La disabilità fisica impronta il pensiero con la sua particolare corporalità e la disabilità mentale lo lega a funzioni non verbali del cervello. Il modo diverso in cui disabili e normodotati si rapportano alle proprie tracce sembra, però, implicare una gerarchia fra i loro corpi-mente così come fra i corpi-mente dei disabili fisici e dei disabili psichici. Paradossalmente il corpo del disabile psichico resta più vulnerabile di tutti gli altri.
Finalmente nel 2005 le due comunità trasversali si toccarono creando nella facoltà di Lettere e Filosofia il progetto “immagine o dei mondi possibili” nel quale Simona Landolfi e Lucas Ochoa provarono a collaborare più strettamente. Grazie a questo laboratorio gli amici di Capodarco cooperarono strettamente con Ochoa nella progettazione ed esecuzione di alcune conversazioni translinguistiche con gli abitanti della facoltà e del quartiere in cui è inserità. Attraverso questo laboratorio ed un altro concepito in collaborazione con Michele Lucantoni e con il sostegno della stessa Simona Landolfi ed altri studenti della facoltà, l’artista colombiano esperimentò ciò che chiamò azione filosofica, ovvero la ricerca delle condizioni di possibilità della produzione e trasformazione di concetti attraverso l’arte trans-moderna dell’azione.

1) Vedere Dussel 1994

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giovedì 9 aprile 2009

Riflessioni sull'Othello

Giovedi 9 e Venerdi 10 Aprile, ore 23, su Nuova Spazio Radio

Iceberg News - Riflessioni sull'Othello
(con Federico Sollazzo, Paolo Travagnin, Marino Midena)

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martedì 7 aprile 2009

Tecnica e tecnologia

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

La parola
tecnologia deriva da tecnica che a sua volta viene da téchne il cui significato è molto vago, spaziando da arte a mestiere a capactà pratica, ma una precisa caratteristica è che essa rappresenta un insieme di regole utili al raggiungimento di uno scopo che è esterno alla tecnica stessa che, quindi, rappresenta unicamente un mezzo e non il fine: la tecnologia, allora, costituisce la concretizzazione della tecnica (p. es. già nel Capitale del 1867 Marx usava il termine tecnologia per indicare l'applicazione degli studi tecnico-scientifici ai processi produttivi dell'industria).
Ma la tecnologia non è un'esclusività dell'uomo, infatti anche gli animali, sebbene guidati dal solo istinto, sono in grado di modificare l'ambiente per i propri scopi (p. es. un castoro che costruisce una diga). Qual è allora la differenza tra la "tecnologia animale" e quella umana? Un animale che si costruisce un nido, che devia il corso di un fiume, che abbatte un albero o che crea uno stagno artificiale, con queste azioni danneggia l'equilibrio naturale di un habitat, o del mondo intero, rendendolo, nel lungo periodo, inadatto alla sopravvivenza delle future generazioni? No. L'uomo si. E' sufficiente ricordare brevemente tutti i danni (inquinamento, buco atmosferico, effetto serra...) arrecati dall'uomo tecnologico alla natura. Due sono le possibilità: o la distruzione della natura è necessaria poiché l'uomo tecnologico è inevitabilmente nocivo per l'ambiente (in tal caso l'unica possibilità di salvezza sarebbe legata al ritorno a stadi pre-tecnologici o tecnologicamente limitati), o gli squilibri inseriti dall'uomo nell'ambiente che lo ospita dipendono da un "cattivo" uso della tecnologia, un uso nel quale si perseguono unicamente scopi utilitaristici come, ad esempio, il massimo ricavo dal tempo di lavoro. Da qui il passo è breve in direzione della società dei consumi: massimizzazione tecnologicamente supportata della prestazione lavorativa - (ri)produzione di beni e servizi - consumo (forzato) degli stessi - parvenza di benessere derivante dal consumismo. Eppure l'attuale livello tecnologico è, potenzialmente, in grado di migliorare la nostra esistenza. Ma allora la tecnologia costituisce un "pacchetto" unico che o si scarta o si accoglie
in toto nel bene e nel male? O forse questo è un modo totalmente sbagliato di porre la domanda, poiché la tecnologia in sé non è né buona né cattiva ma diventa l'una o l'altra a seconda dell'uso che se ne fa.
Probabilmente la questione della tecnica può essere affrontata solo inserendola all'interno di un progetto umano radicalmente innovativo, nel quale si abbandoni del tutto la smania di possedere cose e persone e la si smetta di leggere il mondo in chiave utilitaristica, recuperando un senso della misura (di platonico equilibrio) in base al quale la vita non sia intesa come un mero mezzo per-, bensì come un bene in sé da godere senza limitazioni eccetto quella della responsabilità, dell'aver cura di questo bene.

(«Tabula Rasa», n. 3, 2004)

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domenica 5 aprile 2009

SEMINARIO PUBBLICO di FILOSOFIA

Libreria Rinascita, Via del Prospero Alpino 48, Roma, Mercoledi 8 Aprile ore 19

"L'uso della tecnologia nella società industrialmente avanzata in H. Marcuse"


Moderatore: Federico Sollazzo, autore del presente portale (p.sollazzo@inwind.it)


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Vite pornografiche

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Innanzi tutto dobbiamo intenderci con i termini: cosa significa pornografia? A partire dalla sua etimologia (pòrné, prostituta e graphia, scrittura), la possiamo intendere come un qualsiasi tipo di produzione destinata a suscitare una risposta di carattere sessuale. In quest'ottica non esiste allora nessuna diversità fra una pornografia soft ed una hard (entrambe puntano unicamente a stimolare gli istinti sessuali), la differenza sostanziale risiede invece tra la pornografia tout court e l'erotismo; infatti, mentre la prima ha il suo scopo nella sollecitazione sessuale, il secondo usa gli stimoli sessuali per tendere ad un fine connesso ma esterno alla sessualità stessa.
Ora, la pornografia, così come sopra è stata sommariamente descritta, è un qualcosa di positivo o di negativo? Per rispondere si devono prendere in considerazione i rapporti umani emergenti dalle rappresentazioni pornografiche: in esse il contenuto si esaurisce nella messa in mostra di zone e/o di atti sessuali, indipendentemente dall'identità delle persone coinvolte; lo spettatore assiste allora ad uno spettacolo svolto da persone prive di carattere, di personalità, di pensiero, ovvero, da oggetti, cose, con il rischio (per le menti più labili) di supporre che quelli siano dei veri e propri rapporti umani.
Ma allora come possono essere fondati, in ambito sessuale, degli autentici rapporti umani? E' necessario tenere un atteggiamento di austera seriosità e/o di astensione? No, è però necessario riconoscere l'identità del nostro partner, ossia riconoscerlo come essere umano, diverso da me, ma a me simile, dotato quindi anch'egli di idee, di una personalità, di un suo proprio stile di vita. Da questa prospettiva, il rapporto sessuale non è che una fra le molte possibilità che si hanno per entrare in contatto con l'altro da me, per entrare in un altro mondo ed uscirne sicuramente arricchito grazie all'interazione ed al confronto con un'altra identità; ma attenzione, questo non significa che ad una maggiore quantità di rapporti con persone diverse, corrisponda automaticamente un arricchimento di se stessi, ci sono infatti almeno due ordini di considerazioni da tenere presenti. Innanzi tutto, se ci si approccia all'atto sessuale in maniera autoreferenziale (ad esempio, cercando la soddisfazione unicamente dei nostri desideri fisici e/o il riempimento dei nostri deficit affettivi), e non aprendoci al contatto umano con l'altro, è ovvio che ciò che troveremo sarà solamente un senso di distacco dal prossimo e, quindi, di isolamento (ovvero, esattamente l'opposto di ciò di cui eravamo in cerca; ad ogni modo, poiché, per fortuna, in ogni forma di interazione umana è sempre presente una contaminazione reciproca, bisogna essere in grado di selezionare con cura le persone dalle quali, seppur parzialmente, indirettamente, involontariamente, lasciarsi "inquinare"). Inoltre, non è forse superfluo ricordare come quantità e qualità non siano sinonimi, dunque, se qualcuno ha la fortuna di potersi relazionare con un essere umano per lui altamente significativo emozionalmente, non rimpiangerà certo gli altri rapporti che non avrà, essendo anzi felice di rinunciare alla quantità in luogo della qualità di un'interazione umana che, seppur sempre con la stessa persona, sarà ogni volta diversa, unica e irripetibile, configurandosi come un percorso nel quale, scoprendo sempre di più l'altro, si scopre sempre di più se stesso.
Ora, a modesto avviso di chi scrive, l'uso pornografico dei corpi rappresenta l'esatta negazione di tale identità, il rifiuto dei legami interpersonali, la non accettazione del mettersi in gioco di fronte all'altro, la moderna ed infima versione del platonico "Mito della Caverna".

Erich
Fromm, L'arte d'amare

(…) in molti individui per i quali la solitudine non può essere superata in nessun modo, la ricerca dell’orgasmo sessuale assume una funzione che li rende non molto diversi dagli alcolizzati e dai tossicomani. Diventa un tentativo disperato di sfuggire all’ansia suscitata dalla separazione [solitudine] e il suo risultato è un sempre crescente senso d’isolamento, poiché l’atto sessuale, senza amore, non riempie il baratro che separa due creature umane [anzi, lo amplia], se non in modo assolutamente momentaneo
[chi ha vissuto l'assenza di figure genitoriali di riferimento in età giovanile, spesso] è un debole, ha bisogno di ricevere, di essere protetto, curato (…) Può trovare "madri" in tutti, a volte in donne, e a volte in uomini dotati di autorità e potere.


(«Tabula Rasa», Ottobre 2004, e come Pornografia ed erotismo: quali differenze? Vite pornografiche, in «Filosofia dell'amore erotico», 11/11/2012)

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