lunedì 26 ottobre 2009

le 4 stagioni di Vivaldi

di Erwin de Greef (erwindegreef@libero.it)

Carla è
uno stormo
di uccelli
in volo,
il fruscio
del
vento
tra le canne,
la
prima
pioggia ad agosto.
Carla è
una finestra aperta
a primavera,
il salto del
delfino,
il gabbiano
appollaiato
sullo
scoglio.
Carla è la
notte
di San Lorenzo,
la stella cometa
l’oro
l’incenso
e la mirra.
Carla è una
puledra selvaggia,
la siepe di
orchidee,
il baluginio
della
fiamma.
Carla è
Ettore e Achille
nel campo
di
battaglia.
Carla è il
coro della Scala,
il Nabucco,
le trombe dell’Aida,
la danza del cigno,
il ciclamino
sul
davanzale.
Carla è
un panino al
formaggio,
un’aragosta,
un risotto alla
pescatora,
un bianco
siciliano,
una fetta
d’anguria.
Carla è
una guglia
araba,
un mosaico
bizantino,
un monumento a
Mazzarino.
Carla è
un giardino di
limoni,
il fiume nella
Valle,
il Tempio di
Giunone.
Carla è il
canto
dell’allodola,
il lupo
nella
prateria,
il leone
nella
savana,
il salto
della
gazzella,
il nido
delle
rondini,
l’aquila
solitaria.
Carla
è
un sogno
un desiderio
un bisogno.
Carla è
una lacrima,
il sorriso,
un bacio a
mezzanotte,
un abbraccio
all’alba,
una gattina per
la strada,
un’atleta
alle Olimpiadi,
un soldato in
marcia,
una crocerossina,
un
incantesimo.
Carla è un
inno
sacro,
un profumo,
un ciuffo di
capelli d’oro,
una scultura
del
Cellini,
una stella
nella
notte.
Carla è
Mona Lisa,
la
primavera
di
Vivaldi.

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venerdì 23 ottobre 2009

Il "business dei rifiuti"

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Alessandro Iacuelli, Le vie infinite dei rifiuti. Il sistema campano

Questo libro rappresenta un’inchiesta giornalistica che si propone di ricostruire le motivazioni per cui e le procedure con cui, molteplici rifiuti tossici vengono ormai da tempo smaltiti illegalmente in Campania. Il tema dello scritto è allora quello di un’emergenza rifiuti che, in queste circostanze, si configura come una conseguenza di una problematica preliminare: la gestione del “business dei rifiuti” da parte delle cosiddette “ecomafie”. Il testo è ricco di informazioni, di episodi documentati e documentabili inerenti a quest’emergenza ormai da molto in corso sul territorio campano.

Ma non manca nell’inchiesta di Iacuelli anche una parte propositiva, quando nel penultimo capitolo (Esistono soluzioni?) l’autore afferma la necessità di una soluzione legislativa al problema, che si è aggravato a seguito di una deregolamentazione in favore dei privati.
La nota di speranza, sta nel constatare come città quali San Francisco (che ha un numero di abitanti pari a quello di Napoli) e Monaco di Baviera abbiano oggi una percentuale di raccolta differenziata pari al 75%, e che molteplici città (ad esempio Camberra, San Francisco, Toronto) si siano date il realistico obiettivo di giungere a “rifiuti zero” nel 2020.

("Periodico Italiano webmagazine", 15/10/2009)

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martedì 20 ottobre 2009

Le nuove (co)responsabilità del soggetto morale: "Naturphilosophie" ed "euristica della paura"

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Alcune correnti etiche della modernità ritengono che i valori morali e le norme politiche debbano derivare o dall’autonomia decisionale del soggetto (liberalismo) o dalle tradizioni delle comunità (comunitarismo); esiste, tuttavia, un'ulteriore prospettiva filosofica per la quale i principi etici rappresentano una sorta di ordine oggettivo stabilito dalla natura delle cose, che l’uomo non deve fare altro che comprendere ed assecondare. Il bene morale si pone, così, come mantenimento dell’ordine naturale, pertanto, in tale prospettiva viene rifiutata la visione dell’etica come un grande criterio regolatore all’interno di un quadro neutro e/o relativistico, e viene (ri)assunta l’idea dell’etica come discorso intorno al bene e al male; ritorna, così, il primato del bene sul giusto(1). Ma ciò non significa che la teoria morale debba essere scissa dall’agire materiale, anzi, proprio lo scarto tra il pensiero e la realtà produce, puntualmente, le più grandi tragedie, come osserva Theodor W. Adorno, a proposito del nazi-fascismo:
La capacità alla metafisica è paralizzata perché ciò che è successo ha mandato in pezzi la base dell’unificabilità del pensiero speculativo metafisico con l’esperienza(2)

Ora, volere unificare oggi la sfera riflessiva con quella esperienziale significa, inevitabilmente, affrontare le questioni relative alle nuove potenzialità ed ai nuovi orizzonti scientifico-tecnologici, infatti


il controllo biologico dell’essere umano, particolarmente il controllo genetico, suscita delle questioni etiche di un genere completamente nuovo a cui nessun pensiero e pratica anteriori ci avevano preparati. Infatti, è in gioco qui nientemeno che la natura stessa e l’immagine dell’uomo(3)

In una simile prospettiva, l’etica rappresenta lo spazio nel quale l’uomo è chiamato a meditare su se stesso, in un orizzonte di senso che, se vuole uscire dai limiti del soggettivismo e del relativismo, deve essere, come ha fatto notare Hans Jonas, naturalistico(4).
Sono queste le premesse di quella nuova prospettiva etica, inaugurata dallo stesso Jonas, denominata come “etica della responsabilità(5); essa muove alla ricerca di una fondazione razionale dell’etica, in un orizzonte di pensiero metafisico-religioso, ma teso al superamento della metafisica “pura”, in direzione delle forme storiche del pensiero metafisico. Questo paradigma etico nasce come risposta critica verso la totale oggettivizzazione del mondo e la totale soggettivizzazione dell’azione umana, rappresentate, per Jonas, dal “disincanto del mondo” e dall’esistenzialismo, la prima, e dalla filosofia nietzscheana e heideggeriana, la seconda; tutti questi movimenti di pensiero producono infatti, per Jonas, esiti nichilistici (sostanzialmente, la riduzione del mondo a cosa e la deresponsabilizzazione del soggetto di fronte ai suoi simili, problematiche, queste, sempre derivanti da una frattura “ontologico-esistenziale”, sia essa quella fra l’uomo e il mondo, fra il soggetto e l’oggetto o fra lo sviluppo tecnico e quello morale), che Jonas evidenzia, richiamandosi a Max Weber:

quel che Max Weber descrive come “etica dell’intenzione”, contrapponendola in politica all’“etica della responsabilità”, è soltanto quell’assolutezza nell’abbracciare una causa intesa in modo incondizionato, incurante di tutte le conseguenze all’infuori del successo possibile, per il cui conseguimento essa non considera troppo elevato nessun prezzo (che dovrà essere pagato dalla collettività), ritenendo degno di un tentativo persino il rischio del fallimento con relativo sfacelo totale. Per contro il “politico della responsabilità” pondera le conseguenze, i costi e le chances, senza mai dire a proposito di nessuno scopo: “pereat mundus, fiat iustitia” (o qualunque altra cosa sia il bene assoluto)(6)

L’etica della responsabilità è, quindi, antindividualistica e, pertanto, non kantiana: «L’imperativo categorico kantiano era diretto all’individuo»(7). Per Jonas infatti, quando il filosofo di Königsberg ha tentato di dare all’azione dell’uomo un fondamento razionale, ha formulato un imperativo contrassegnato dal limite dell’individualismo, al contrario, solo oltrepassando tale limite e pensando l’uomo non come individuo ma come membro di un genere, si può fondare una società responsabile. Responsabilità, oggi più che nel mondo pre-moderno, urgente da fondare e da praticare poiché nella modernità l’azione dell’uomo nel e sul mondo acquista determinate caratteristiche come: l’estensione indefinita nel tempo e nello spazio, la capacità di modificare la natura, l’irreversibilità di particolari processi. Se, da un lato, tutto ciò aumenta la capacità d’azione dell’homo faber, dall’altro ne diminuisce la responsabilità, a causa dell’estensione, prodotta dalla scienza e dalla tecnica, dello scarto spazio-temporale esistente tra un’azione ed i suoi effetti, insomma, l’accrescimento

della portata d’efficienza delle azioni dell’homo faber illustra la sfida che l’istituzione di un’etica dell’interazione umana rappresenta per la capacità razionale ed immaginativa dell’homo sapiens(8)

Per Jonas, l’accrescimento quantitativo del potere umano implica un mutamento qualitativo dello stesso. Per focalizzare tale questione, lo stesso pensatore tedesco trae ispirazione dall’antico ammonimento sulla natura del potere umano, contenuto nel coro dell’Antigone di Sofocle (“molte ha la vita forze tremende; eppure più dell’uomo nulla, vedi, è tremendo”), descrivente le potenzialità distruttive insite nella stessa costituzione ontologica dell’uomo e che sembrano essersi compiutamente incarnate nelle inquietanti potenzialità acquisite dall’uomo con la tecnica(9).
Secondo una nota metafora che, non casualmente, si diffonde durante la rivoluzione scientifica, i moderni sono descritti come nani e gli antichi come giganti, ma i primi, nonostante la loro limitata statura, riescono a vedere più lontano dei secondi, salendo sulle loro spalle(10). Ma se al “nanismo conoscitivo” si può porre tale rimedio, al “nanismo etico” non vi è soluzione, ecco perché, l’uomo di oggi può compensare le proprie carenze nozionistiche, incrementando così il potere del proprio agire, ma non le proprie mancanze in termini di consapevolezza e responsabilità:

La terra vergine della prassi collettiva, in cui ci siamo addentrati con l’alta tecnologia, è per la teoria etica ancora terra di nessuno […] tremiamo nella nudità di un nichilismo nel quale il massimo di potere si unisce al massimo di vuoto, il massimo di capacità al minimo di sapere intorno agli scopi(11)

Esiste però per l’uomo la possibilità di recuperare quel sapere intorno agli scopi: la riflessione filosofica. Il pensiero rappresenta, infatti, un’insostituibile ed essenziale fonte per lo sviluppo critico del sapere (metafisica) e dell’agire (etica), al punto tale che, per Jonas, anche il nazismo, come qualsiasi altro male socio-politico umano, si spiega con il declino della filosofia, sia nel suo versante metafisico che in quello etico:

fin dai tempi antichi, molto più di ogni altra forma del sapere, la filosofia ha coltivato l’idea di non essere solo al servizio del sapere, ma di educare il comportamento di coloro che le sono devoti, e cioè in direzione del bene verso cui necessariamente tende il sapere […] L’immagine di Socrate che ha illuminato fin dai suoi inizi il cammino della filosofia non permette che si estingua la fede in questa nobile forza. Sicché l’adesione del più profondo pensatore del XX secolo (Heidegger) alla marcia fragorosa dei battaglioni delle camice brune non rappresenta solo un’amara delusione personale ma, ai miei occhi, altresì un’autentica catastrofe della filosofia: quest’ultima, non solo un uomo, aveva rinunciato a se stessa(12)

Pertanto, per non cadere né in una forma di sapienza astratta, completamente scissa dalla realtà, né in un agire miope, incapace di vedere oltre se stesso, non è sufficiente ristabilire l’importanza della metafisica e dell’etica, esse devono anche essere (ri)messe in relazione. E’ questo lo scopo che si prefigge l’etica della responsabilità: ristabilire l’insostituibile ruolo della filosofia nella società, come pensiero metafisico in grado di orientare l’agire umano, collocandolo in un orizzonte di senso. Ora, per evitare qualsiasi forma di dualismo che limiterebbe lo studio dell’interiorità alle discipline umanistiche e quello dell’oggettività alle scienze esatte, lacerando così l’immagine dell’uomo, quel suddetto orizzonte di senso deve essere in grado di (ri)conciliare nell’uomo lo spirito con il corpo. La Naturphilosophie, l’indagine sull’essere della natura, è, per Jonas, l’unica prospettiva che possa conciliare nell’uomo, la componente spirituale, coscienziale, con quella corporea, organica. Nasce così, una sorta di “ontologia dell’essere corporeo” che, a partire dalla considerazione che l’uomo non è né solamente un essere spirituale, né solamente un corpo materiale, rifiuta qualsiasi forma di dualismo e/o di esaltazione dell’una o dell’altra componente umana (come accade, ad esempio, nello spiritualismo e nel materialismo), concependo l’essere umano come un tutto unitario, non però perché egli sia composto da un unico fattore, bensì in quanto i due elementi (spirito e corpo) che lo compongono si fondono (in maniera indissolubile) generando una creatura che rappresenta qualcosa di più, rispetto alla mera somma delle sue parti(13). Ecco perché, essendo l’etica della responsabilità pensata per un soggetto organico dotato anche dei caratteri dell’interiorità, la sua elaborazione implica il gesto

di superare fra l’altro il dualismo, che già da tempo mi era familiare nel suo errore e nella sua seduzione. L’interpretazione ontologica dell’organismo doveva offrire la correzione e nello stesso tempo un contributo alla dottrina universale dell’essere. Nella ricomposizione in unità essenziale di “interno” ed “esterno”, di soggettività e oggettività, di io spontaneo e di entità determinata da una causa, quale appare nell’essere organico, si colmava per me l’abisso fra materia e spirito e si superava l’ipoteca legata all’eredità cartesiana che aveva spinto il pensiero moderno all’aut aut di materialismo da un lato e idealismo dall’altro, ambedue in se stessi frammentari, e confutata dall’evidenza dell’organismo(14)

Ma per costruire un’etica adeguata alle esigenze del soggetto contemporaneo, non è sufficiente avere una determinata immagine dell’uomo, è anche necessario chiarire quali siano le circostanze storiche nelle quali egli si muove. La collaborazione, tipica della modernità, fra la scienza e la tecnica ha profondamente mutato il rapporto fra il sapere teorico e quello pratico.

Per quanto riguarda il sapere è evidente che la veneranda divisione di “teoria” e “prassi” è scomparsa per entrambe le parti. Per quanto intatta possa continuare a sussistere la sete di conoscenza pura, la compenetrazione tra sapere sulle vette e fare nella pianura della vita è divenuta indissolubile e l’aristocratica autosufficienza della ricerca della verità fine a se stessa non esiste più(15)

Nella modernità, quindi, viene meno la distinzione fra il conoscere e l’agire: sapere e potere coincidono. Inoltre

Prima sia il sapere, sia il potere erano troppo limitati perché si includesse nelle previsioni anche il futuro più lontano e nella coscienza della propria causalità tutta la terra. Solo la tecnica moderna con la ricchezza senza confronti delle sue imprese apre questi orizzonti nello spazio e nel tempo(16)

Da tali premesse ne consegue che un’etica per la moderna società tecnologica debba fare i conti con la mutata natura del sapere/potere dell’uomo nel mondo: l’uomo d’oggi abbisogna di un’etica “cosmica”, che coinvolga tutto il genere umano e che sia proiettata verso il suo futuro. Pertanto, l’etica odierna deve uscire da una prospettiva meramente antropocentrica, e prendere in considerazione le conseguenze (nello spazio e nel tempo, per i viventi e per la Terra) insite nel sapere/potere tecnoscientifico:

ora l’intera biosfera del pianeta, con tutta la ricchezza delle sue specie e la sua vulnerabilità – scoperta di recente – di fronte all’eccessivo intervento dell’uomo, rivendica la sua parte nell’attenzione che spetta a tutto ciò che porta in sé il suo scopo – cioè a tutto il vivente. Il diritto esclusivo dell’uomo alla considerazione umana e al rispetto morale è stato spezzato proprio con la conquista di un potere quasi monopolistico su ogni altra forma di vita(17)

L’“intera biosfera del pianeta” rappresenta quindi l’oggetto di una simile etica, il cui soggetto è pur sempre l’uomo, con il suo (enormemente accresciuto) carico di responsabilità per le conseguenze del proprio agire.

In quanto potenza planetaria di prim’ordine egli non può più pensare solo a se stesso. Il precetto di non lasciare ai nostri discendenti un’eredità devastata esprime questo ampliamento del campo d’azione etico ancora sempre nel senso di un dovere dell’uomo nei confronti dell’uomo(18)

Così, l’etica mantiene la sua dimensione umanistica, in un orizzonte però non più antropocentrico, ma fondato sulla preservazione della vita di tutti i viventi e dell’ambiente che li ospita. Per tale via, prendendo l’uomo coscienza delle sue responsabilità verso se stesso, gli altri ed il mondo, acquisisce di pari grado la consapevolezza di essere l’artefice della storia, con tutto ciò che questo comporta(19). Quella di Jonas è, quindi, un’etica su base metafisica(20), basata, cioè, sulla convinzione dell’esistenza ontologica di un “valore assoluto” comprensibile intuitivamente, e sulla derivazione da esso dell’etica, insomma, sulla relazione “essere-dover essere”. L’intuizione, infatti, rende comprensibile come

Nella capacità di avere degli scopi in generale possiamo scorgere un bene-in-sé, la cui infinita superiorità rispetto ad ogni assenza di scopo dell’essere è intuitivamente certa(21)

E tale bene-in-sé è, per Jonas, l’esistenza stessa delle cose, della vita e dell’umanità, poiché se tutte le cose che esistono valgono in relazione ad un fine, allora

Questa “cascata di fini” (Rombach) può essere fermata soltanto se c’è un fine che può essere considerato come valore in sé. Questo fine deve essere utile a se stesso. Jonas trova questa utilità per se stesso nella finalità “esistenza”(22)

Solo dopo avere posto queste fondamenta metafisiche, si può costruire un’etica fondata su quel “principio responsabilità”, che intuisce il dovere di preservare l’esistenza come la massima responsabilità dell’essere umano(23). Ora, data la sua fondazione metafisica, questo principio è per Jonas universalmente valido, e la sua applicazione è oggi particolarmente urgente poiché essendo le religioni diventate un fatto soggettivo e personale, non rappresentano più delle universali fonti normative. Spetta allora alla filosofia, in particolar modo alla metafisica, il compito di riempire tale “vuoto etico”, visto che

la fede è quindi molto bene in grado di fornire il fondamento dell’etica, ma non è disponibile su ordinazione, per cui non è possibile appellarsi alla fede mancante o discreditata neppure con il fortissimo argomento della necessità. Per contro la metafisica è stata da sempre una faccenda della ragione e quest’ultima si può incomodare a richiesta(24)

In questo, la proposta di Jonas si differenzia dal pensiero ambientalista(25): la responsabilità etica verso l’esistenza è metafisicamente fondata. Di qui la duplice critica all’etica non teleologica del “dovere per il dovere”, rappresentata dall’etica kantiana. Questa infatti è, in primo luogo, fondata non metafisicamente, ma solo logicamente, sicché

un’azione è da considerarsi immorale quando essa risulta contraddittoria, quando cioè il principio che la ispira non può essere universalizzato […] Ma – replica Jonas – oggi dobbiamo fare i conti con l’ipotesi, per nulla irrealistica, che l’umanità cessi di esistere; e tale idea non è affatto contraddittoria: qualcuno potrebbe ritenere opportuno sacrificare il futuro al presente, ricercare quindi la felicità e la soddisfazione delle generazioni presenti a scapito dell’esistenza di quelle future. E una simile idea non potrebbe essere confutata, in quanto autocontraddittoria(26)

In secondo luogo, l’etica kantiana presuppone una condizione di parità fra i membri di una comunità, ma relativamente alle conseguenze ad ampio spettro e a lungo termine dei moderni processi tecnologici, tale parità non si realizza nei confronti delle generazioni future, né degli altri viventi. Inoltre, un’etica ispirata dal principio responsabilità è, per Jonas, più appropriata per la moderna società tecnologica, non solo in quanto essa supera i suddetti limiti della precedente etica kantiana, ma anche in quanto riesce a coniugare “programmaticamente” la nozione di paura con quella di speranza, ponendosi nel mezzo fra le due. Si passerebbe così da un atteggiamento che contrappone immotivatamente l’ottimismo (speranza) al pessimismo (paura), ad un ragionamento in cui la paura rappresenta la spinta verso la responsabilità che, a sua volta, legittima la speranza; il principio responsabilità è quindi connesso ad una “euristica della paura” che, come Thomas Hobbes, seppure in un altro contesto, aveva già tematizzato,

assume come punto di partenza della morale, anziché l’amore verso il summum bonum, il timore di un summum malum […] La paura […] fa parte della responsabilità altrettanto quanto la speranza(27)

Hobbes è infatti considerato «l’unico filosofo, secondo Jonas, ad avere anticipato (pur dandone una lettura esclusivamente politica) la propria euristica della paura»(28), difatti, «Hobbes la sapeva più lunga facendo della paura il primum movens della ragione nelle faccende del bene comune»(29). Tuttavia, l’euristica della paura non deve sfociare in forme di catastrofismo apocalittico, né di perfettismo utopistico(30), essa deve invece descrivere una forma di speranza responsabile che, lo stesso Jonas, sintetizza in un nuovo imperativo categorico: «agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra»(31). Ovviamente, tale imperativo, per dare dei frutti, necessita di essere declinato anche in sede politica, passando dunque dal piano della responsabilità individuale a quello della co-responsabilità politica: così come i genitori si prendono cura dei figli, allo stesso modo lo Stato deve proteggere i propri cittadini, sostiene Jonas, che a tale proposito propugna la creazione di un’autorità mondiale e di istituzioni sopranazionali che garantiscano l’umanità dal rischio distruttivo insito nel potere tecnoscientifico:

Si tratta insomma di stabilire, almeno in via ipotetica, se alla cieca autonomia del mercato e del progresso tecnico e scientifico, sia preferibile un centro decisionale, dotato di responsabilità per l’intera umanità. E’ questa una domanda a cui oggi nessuno può realisticamente rispondere(32)

Per concludere, si deve onestamente notare come l’appello jonasiano a far sì che «la responsabilità morale, e non indebite pretese allo sfruttamento indiscriminato della biosfera, costituisca la “specificità” dell’uomo rispetto agli altri esseri viventi»(33), abbia la sua zona d’ombra nella considerazione che «Non sarebbe difficile mostrare quanto di nichilismo, di utopismo, di ingenuità, siano ancora presenti in queste posizioni di Jonas»(34). In Jonas, cioè, il tentativo di evitare gli esiti nichilistici cui è destinato ad approdare il “Prometeo scatenato”(35), poggia sull’argomentazione dell’esistenza di un telos immanente nell’ordine naturale, che, dunque, l’uomo non deve fare altro che assecondare e preservare; ma, in una simile prospettiva, l’uomo perderebbe un suo peculiare tratto antropologico (già tematizzato, seppure con modalità diverse, dai padri dell’antropologia filosofica moderna, Scheler, Gehlen e Plessner): la possibilità di trascendere la natura. In Jonas, insomma, l’uomo passa dall’estremo, cartesiano, di essere il maître et possesseur de la nature, a quello di esserne il semplice guardiano, ma poiché l’uomo non è mera naturalità, per assolvere tale compito dovrebbe negare una parte di se stesso. Forse è proprio questo il maggiore limite di Jonas: l’assenza di un’adeguata riflessione antropologica, che possa saldare la metafisica, l’ontologia all’etica. Infine, alla luce del concreto impatto sociale che le teorie jonasiane possono produrre (si pensi al largo credito che esse hanno trovato in ambito bioetico), ci si dovrebbe chiedere se non siano presenti delle tracce di autoritarismo in un pensiero che subordina la biologia ad una data visione metafisico-ontologica, proposta, ovviamente, come oggettiva; come compensare, dunque, la carenza di considerazione delle suggestioni soggettive presenti in una concezione etica? In altri termini, il rispetto dell’uomo per la natura deve intersecarsi con il rispetto dell’uomo per l’uomo.

1) Cfr. H. Jonas, Dalla fede antica all’uomo tecnologico, Il Mulino, Bologna 2001, e P. Pellegrino (cura), Hans Jonas, Milella, Lecce 1995, A. Prieri, Hans Jonas, Atheneum, Firenze 1998, L. Alici, Hans Jonas: il male come irresponsabilità del potere, in R. Gatti (cura), Il male politico, Città Nuova, Roma 2000, e P. Nepi, Individui e persona, Studium, Roma 2000, quest’ultimo anche su Charles Taylor ed Alasdair MacIntyre. In una simile prospettiva è insito il percorso inverso rispetto a quello che, nella modernità, porta dalla morale universale alle etiche applicate. 

2) T. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, p. 326.
3) H. Jonas, L’ingegneria biologica: una previsione, in Dalla fede antica all’uomo tecnologico, cit., p. 221.
4) Cfr. H.Jonas, Tra il nulla e l’eternità, Gallio, Ferrara 1992.
5) Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 2002, dello stesso Jonas, L’etica della responsabilità, in Rai Educational, Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, www.educational.rai.it, e, per un quadro d’insieme, M. A. Foddai, Agire eticamente: Jonas e le nuove responsabilità, Moderna, Sassari 2005.
6) H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 169, nota 5. Cfr. anche M. Gauchet, Il disincanto del mondo, Einaudi, Torino 1992; Jonas, rifacendosi a Weber (cfr. M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino 1973), definisce della “responsabilità” (Verantwortung) quell’etica che, non procedendo ideologicamente, si distingue da quella della “convinzione” (Gesinnung).
7) Ibidem, p. 17; tuttavia, si deve ricordare come in Kant la problematica dell’individualismo trovi il suo superamento nella nozione di regno dei fini: «Kant, per giungere all’etica, doveva compensare la mancanza di intersoggettività trascendentale con un ricorso ad hoc alla nozione metafisica di “Reich der Zwecke” (regno dei fini), cioè di una comunità ideale di esseri ragionevoli», K. O. Apel, La crisi ecologica come problema per l’etica del discorso, in P. Pellegrino (cura), Hans Jonas, cit., p. 189, parentesi mia, cfr. anche C. Bonaldi (cura), Hans Jonas, Albo Versorio, Milano 2004.
8) H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 161.
9) Come è noto, anche Heidegger, uno dei primi maestri di Jonas, passa attraverso l’Antigone di Sofocle, in M. Heidegger, Introduzione alla metafisica (Mursia, Milano 1990), cfr. M. T. Pansera, L’uomo e i sentieri della tecnica, Armando, Roma 1998, e S. Mancini, Per un’interpretazione fenomenologica di Jonas, in «Rivista di Filosofia neo-scolastica», n. 1, 1993.
10) Cfr. R. K. Merton, Sulle spalle dei giganti, Il Mulino, Bologna 1991; sull’interpretazione jonasiana della rivoluzione scientifica cfr. H. Jonas, Dopo il XVII secolo: il significato della rivoluzione scientifica e tecnologica, in Dalla fede antica all’uomo tecnologico, cit.
11) H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., pp. XXVII e 31.
12) H. Jonas, La filosofia alle soglie del Duemila, Il Melangolo, Genova 1994, pp. 40-41, parentesi mia. La delusione di Jonas per l’adesione di Heidegger al nazionalsocialismo, non gli impedisce, però, di ricordare con ammirazione il suo maestro: «ancor prima di comprenderlo, si era in suo potere […] Qualcosa si svolgeva dinanzi a noi, qualcosa era in atto lì e si era tentati di dire: “è il pensiero che pensa in lui” […] il filosofo, mentre insegna, fa nello stesso tempo filosofia. Infatti non si studiava “filosofia” semplicemente come materia, ma si andava appunto da Husserl, Heidegger, Hartmann, Jaspers», H. Jonas, Scienza come esperienza personale, Morcellania, Brescia 1992, pp. 17-18 e 16; cfr. anche, Heidegger e la teologia, Medusa, Milano 2004.
13) Cfr. H. Jonas, Organismo e libertà, Einaudi, Torino 1999, su ciò cfr. N. Russo, La biologia filosofica di Hans Jonas, Guida, Napoli 2004. Tali osservazioni avvicinano Jonas alla riflessione dell’ultimo Max Scheler su Geist e Drang (cfr. M. Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, Armando, Roma 1999), ed a quelle di Helmuth Plessner su Körper e Leib (cfr. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, Bollati Boringhieri, Torino 2006).
14) H. Jonas, Scienza come esperienza personale, cit., p. 27; sempre di Jonas cfr. anche Tra il nulla e l’eternità, cit.
15) H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica, Einaudi, Torino 1997, p. 18; sullo stesso argomento cfr. anche M. Monaldi, Tecnica, vita, responsabilità: qualche riflessione su Hans Jonas, Guida, Napoli 2000.
16) Ibidem, p. 32.
17) Ivi.
18) Ivi.
19) Cfr. H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Il Melangolo, Genova 2002.
20) Cfr. E. Berti, Aristotele nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 1992, che evidenzia la differenza tra l’etica metafisicamente fondata di Jonas e la concezione dell’etica nel movimento di riabilitazione della filosofia pratica. E’ altresì interessante notare come l’etica jonasiana sia fondata sulla metafisica e non, al contrario, fondante per la metafisica, come avviene, ad esempio, in E. Lévinas, Etica come filosofia prima, Guerini, Milano 2001.
21) H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 102, corsivo mio.
22) M. Rath, Das Prinzip Verantwortung di Hans Jonas e la psicologizzazione in etica, in P. Pellegrino (cura), Hans Jonas, cit., p. 206.
23) Cfr. C. Foppa, L’essere umano nella filosofia della biologia di Hans Jonas: qualche aspetto, in P. Pellegrino (cura), Hans Jonas, cit.
24) H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 57.
25) Cfr. sul rapporto uomo-natura in Jonas, dello stesso autore, Sull’orlo dell’abisso: conversazioni sul rapporto tra uomo e natura, Einaudi, Torino 2000, e M. L. Furiosi, Uomo e natura nel pensiero di Hans Jonas, V & P, Milano 2003, e sullo stesso tema ma da diverse prospettive, G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976, F. Viola, Dalla natura ai diritti, Laterza, Roma-Bari 1997, e AA. VV., Etiche della terra, Vita e Pensiero, Milano 1998.
26) A. Da Re, La saggezza possibile, Gregoriana, Roma, 1994, p. 238.
27) H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., pp. 36 e 284.
28) H. Achterhuis, La responsabilità fra il timore e l’utopia, in P. Pellegrino (cura), Hans Jonas, cit., p. 103, parentesi mia.
29) H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 291, nota n. 27.
30) Cfr., come esempi emblematici di tali tendenze, rispettivamente G. Anders, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 1992, e E. Bloch, Il principio speranza, Garzanti, Milano 1994, 3 voll.
31) H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., p. 16. «Questo imperativo che include non un dovere individuale ma un dovere collettivo di propagazione, è la richiesta più ardita e più paradigmatica di una nuova etica della responsabilità per il futuro che sia stata fatta fino ad oggi come risposta alla crisi ecologica», K. O. Apel, La crisi ecologica come problema per l’etica del discorso, in P. Pellegrino (cura), Hans Jonas, cit., p. 181.
32) A. Dal Lago, Introduzione, in Dalla fede antica all’uomo tecnologico, cit., p. 24.
33) A. Da Re, La saggezza possibile, cit., p. 241.
34) C. Galli, Modernità della paura, in «Il Mulino», n. 2, 1991, p. 190.
35) Cfr. R. Bodei, La decisione saggia, in AA. VV., Etica e politica, Pratiche, Parma 1984, sulla «rinuncia ad ogni concezione umanistico-prometeica di poter guidare gli eventi mediante una ragione potente e dominatrice», Ibidem, p. 39, e G. Vaccaro, La ragione sobria, Mimesis, Milano 1998, sul superamento del consumismo in direzione della “sobrietà”.


(come La Naturphilosophie di Hans Jonas, in «Prospettiva persona»
)

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mercoledì 14 ottobre 2009

Antropologia

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

M. T. Pansera (cura), Il paradigma antropologico di Arnold Gehlen, Mimesis, Milano 2005

Quella di Arnold Gehlen è un’antropologia “immanente” (che rifiuta l’idea di una “scintilla divina” nell’uomo e quindi di un “gancio metafisico” che lo leghi ad un qualcosa di trascendentale); per lui l’uomo è un “progetto particolare” della natura, pertanto, per studiarlo, è necessario avvalersi di contributi provenienti dalle scienze naturali. A partire da tali premesse, la conclusione cui giunge Gehlen è che l’uomo sia un “essere carente”, sprovvisto cioè, al contrario degli altri animali, di organi “specializzati” che lo possano inserire adeguatamente in un determinato ambiente naturale. Per compensare tali carenze fisiologiche l’uomo è quindi costretto a crearsi un ambiente artificiale, tramite la tecnica. Nasce così un mondo artificiale che produce delle particolari conseguenze psicologiche e sociali nello stesso uomo che lo ha creato.
Il pensiero di Gehlen si sviluppa quindi in un iter che va dalle scienze naturali a quelle psicologiche e sociali, ed i testi presenti in questo volume si propongono di ricostruire questo percorso di riflessione.
Nel volume:
Andrea Borsari, Totemismo e raffigurazione imitativa
Michele Farisco, Antropologia negativa e identità relazionale: l’uomo precario di Gehlen
Mario Marino, Sul significato di una dottrina del linguaggio per l’antropologia di Gehlen
Vallori Rasini, Arnold Gehlen: natura umana e azione
Karl-Siegbert Rehberg, Motivi esistenziali nell’opera di Arnold Gehlen
Amedeo Vigorelli, Arnold Gehlen e la rinascita di Schopenhauer
Ubaldo Fadini, Arte e natura. Su alcuni propositi di Arnold Gehlen
Maria Teresa Pansera, Prospettive etiche dell’antropologia gehleniana
Federico Sollazzo, Il ruolo della tecnica nell’antropologia gehleniana

(«B@belonline.net», n. 6, 2004)

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martedì 13 ottobre 2009

IDENTIKIT

di Maurizio Alberto Molinari (maopoemantikha@libero.it)

Soffia,
e una tiepida voce
dice di me,
del mio cuore,
del mio respiro;
Soffia,
un verde perso
racconta ai miei occhi:
dì loro il colore,
dì loro il candore,
dì loro l'amore.
Soffia,
di ciò che fui
né sarò mai,
di ciò che respirai
né più avrò mai,
di ciò che vidi
né più mi apparirà.
Soffia,
in me una nuova presenza,
uno strano amico
neppur cercato,
di un abbraccio eterno
mai più allontanato.
Soffia,
delle mie lacrime perse
eppur ritrovate,
cercate,
riavute
eppur non ritrovate.
Soffia,
dalle onde amate,
dagli spruzzi giocati,
dai tuffi,
dal cuore,
dal mio mare.
Soffia,
la mia pianura,
é il mio eden,
perduto e non più ritrovato,
poiché se mai ne avrò
sarà comunque un altro
e non più il mio puro.
Soffia,
sulle ali della giovinezza,
sulle spalle un po' esagerate,
sui muscoli inevitati,
sugli occhi tristi,
su un cuore lieve
eppur tenace,
e infine
dolce e perdente.
Soffia,
di un cielo che in corsa
gioca con ombre e raggi
mai più imitati.
Soffia,
di una terra vicina
e poi lontana,
di ciò che pulsa
per me finché un alito
vivrà per me e
per te,
amico che vieni.

(Il passeggero, Il Filo, 2006)

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domenica 11 ottobre 2009

Hume e l'Illuminismo

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Nadia Boccara, Il buon uso delle passioni. Hume filosofo morale: una biblioteca possibile, Liguori, Napoli 1999

Questo testo racchiude le Ricerche svolte da Nadia Boccara presso l’Istituto di Scienze Umane e delle Arti della Facoltà di Lingue e Letterature straniere moderne dell’Università della Tuscia di Viterbo, dove la stessa Boccara insegna Filosofia Morale; esso è apparso anche in traduzione francese come N. Boccara, David Hume et le bon usage des passions, l’Harmattan, Paris 2006 (è da registrare il fatto che il quarto capitolo della parte terza ed il sesto capitolo della parte quarta non sono presenti nella versione francese).
Il punto d’avvio di tali Ricerche è fissato in quella crisi dell’assolutezza dei valori, in quella eclissi della verità e delle certezze (da molti e diversi moderni pensatori constatata) che, in epoca moderna, priva la riflessione morale di solide fondamenta sulle quali erigersi. Di fronte a tale “crisi della ragione”, fa notare l’autrice, le religioni e la scienza si pongono come i “paladini” della verità, come delle autorità che, proprio in quanto tali, possono restituire quelle certezze morali che l’epoca moderna sembra avere dissolto.

Esiste tuttavia un’altra possibile risposta, quella corretta per l’autrice, alla crisi della ragione: la risposta che già nel Settecento diede l’Illuminismo il quale, sia nella veste di periodo storico che in qualità di movimento filosofico, necessita oggi di essere ripensato. Ovviamente nel testo della Boccara non si sorvola sul germe del dispotismo e sul nesso Lumi-Terrore, così come lo definisce lo studioso americano Lester Crocker, insiti nell’Illuminismo, tuttavia questi fattori vengono considerati come delle derive esterne ai “normali” valori illuministici, valori che, diversamente da quanto si è abitualmente portati a pensare, non sono, per l’autrice, di esaltazione della razionalità, ma al contrario, di “rivolta contro il razionalismo” in favore della corporeità e della soggettività umana, come sostiene lo studioso tedesco-americano Peter Gay, che vede nell’Illuminismo la conclusione di un processo di secolarizzazione dell’etica affondante le sue radici nel paganesimo del mondo classico e sfociante, infine, nella teoria sui sentimenti e sulle passioni di illuministi quali Diderot, Voltaire, Vauvenargues e, soprattutto, David Hume.

In questo testo Hume viene infatti riletto dalla Boccara in una maniera particolare ed innovativa. Non ricostruendone, come abitualmente viene fatto, le relazioni con la filosofia britannica e le ripercussioni nell’ambito analitico contemporaneo, bensì soffermandosi su alcuni temi centrali del suo pensiero, fra i quali il principale è individuato nella riflessione sulla morale. Viene così mostrato come il pensiero morale humiano condivida alcuni fondamentali tratti con la moralistica continentale, in particolare con quella francese, e con autori quali Seneca, Bayle, Descartes, La Rochefoucauld, Mandeville e Montagne, che, da tale punto di vista, potrebbero costituire la biblioteca “possibile” del filosofo scozzese.

Attraverso tale percorso teorico l’autrice ci fornisce un’immagine di Hume molto diversa da quella abituale (forse si potrebbe dire da quella della “vulgata”), tratteggiando il pensiero humiano come un pensiero orbitante attorno al concetto di ragione, intesa però non come una fredda attività raziocinante, ma come una sorta di istinto, una “passione calma” che funge da faro per le credenze e le scelte della vita ordinaria. La ragione, insomma, non come una astratta e distaccata capacità conoscitiva, ma come una “passione pensante”, la quale però può esercitarsi solo tramite l’interazione con il prossimo. Si spiegano così le scelte humiane del “rifiuto della solitudine” e dell’esaltazione della “civil conversazione”.

Posto il pensiero di Hume in questi termini, non appare azzardato parlare di “umanesimo huminano”, leggendo così Hume come uno dei filosofi britannici in cui è maggiormente presente l’eredità della civiltà umanistica, che si concretizza in un certo Illuminismo definibile come il «compimento di un processo di secolarizzazione dell’etica e della ragione dell’Occidente: un processo che affonda le sue radici nel paganesimo del mondo classico» (P. Gay, The Enlightenment: An Interpretation, I, The rise of moderrn paganism, Wilwood House, London 1973, p. 425).

Per Hume, dunque, le passioni non sono paragonabili né a calcoli, né ad aspettative utilitaristiche, bensì esse sono delle autonome pulsioni che ci fanno provare curiosità ed interresse per il modo, facendoci così uscire da noi stessi e negando così la dimensione dell’isolamento (ma non quella della solitudine, propedeutica al dialogo con se stessi); le passioni, insomma, ci rendono degli esseri sociali e fra queste la più importante risulta essere quella del self-interest che, spingendo il soggetto verso il mondo, nega la contrapposizione fra egoismo ed altruismo e oltrepassa tali schematizzazioni in direzione di un concetto conciliante il soggetto con il mondo: quello di giustizia.

La concezione dell’amor proprio risulta così essere la nozione fondamentale dell’etica.

(«B@belonline/print», e «B@belonline.net», n. 4, 2008)

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sabato 10 ottobre 2009

307 parole al tramonto

di Erwin de Greef (erwindegreef@libero.it)

eccoti qua
mio
Pierrot,
pieno di grazia,
che entri
nella sera
solitaria
portandoti
dietro
profumi di
zagara & sigarette.
fuori
le strade asfaltate
sono nuvole in
tempesta
e sui marciapiedi
ci sono solo
crocifissi e spine.
il nostro
rosario si
sgrana
in grappoli
d’uva
tra sorrisi-rossetto
fragole e
ciliegie.
alla finestra
il basilico e
la menta
le patate, l’aglio e
le cipolle
ascoltano
le tue
parole,
reliquiario di
altri universi.
e io
m’inginocchio
e prego
seguendo
il tuo
lamento –
dolore
di questa
notte.
il tuo
blues
tra le persiane
è come
ali
d’angelo
come piume
merlettate
come figure
ricamate.
sono biondi
i tuoi
capelli – lo
sai, Pierrot?
che sono
tanto biondi
da essere
quasi
bianchi?
dimmi,
angelo mio,
dove
tramonta
il sole
e quando
l’alba
bagnerà i
miei
occhi.
entra
Pierrot
per darmi
il tuo
saluto
di calde
labbra
e piene.
entra e siedi
con me
intorno al
tavolo
tra mattonelle
bianche –
bianche
come la
tua pelle
velluto & oro.
raccontami:
chi
sei
tu.
adesso
il sole
si sta
spegnendo
sulle
tue
spalle
in questo
venerdì –
venerdì senza
carne – mentre
le tue mani
raccolgono
olive nella
valle del
nostro
Getsemani.
intorno
al fuoco
della notte
ascolto
le tue
parole –
come un
gospel di
Billie
Holiday –
ascolto la
tua voce
di
ostriche & perle
guardando i
tuoi occhi
lapislazzuli
& onice.
corre questa
notte
bastarda e
solitaria
tra colline
e promontori
dentro
bicchieri di
vino bianco
dentro i fondi
delle
bottiglie
che
s’assommano
come
soldati in
marcia
prigionieri
di
silenzi-assensi.
e la nostra
corda –
Pierrot –
stringe il
cappio
intorno
al tuo
dolore
di sorella-figlia
di amante-madre.
la
conchiglia
si
schiude
tra
ghirigori
di
cantilene
& ninne nanne
tra
Donne-Madonne
col
figlio
in grembo
tra i
campi
da seminare.
dimmi
Pierrot
dei
tuoi
silenzi
prima che
sorga
l’alba
prima
che i
gabbiani
riprendano
a
migrare.

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lunedì 5 ottobre 2009

La conservazione

di Mario Girolamo Gullace (gullace.g.mario@hotmail.it)

Sulle barricate dell'insurrezione
divampavano i fuochi d'odio
contro gli usurpatori e i bari,
gli usurpatori di quel tempo
dei nostri giorni migliori
che ci venivano defraudati
con delle carte truccate,
manipolate in favore dei pochi
che avevano le mani sulle leve
per truccare anche le stelle
che sbandava le navi sul mare.
Si gridava di libera sorte
e Roma mandava i soldati
a sbarrare del sole le porte,
gli impiccati non davano ombra,
oscillavano la loro morte
sulle corti funi distorte
di contorte leggi civili.
Erano i vili tempi peggiori
degli orrori di anni e millenni.
Dalla parte dei perdenti
militava Gesù, il pescatore,
Giuda, corrotto dai sacerdoti
della fedeltà alle sacre scritture,
preparava il bacio all'arsenico
e le trafitture della corona di spine.
I tromboni della conservazione
orchestravano la loro guerra
di strategia della millanteria,
si adornavano dell'idolatria
di chi vende anche la madre
pur di avere i favori del Re.
E poi, furono altri cento secoli
di strategia della tensione,
di pre-occupazione ai negozi
per i saldi di fine stagione.
La televisione rubricava negli ozi
consentiti la vendita di cannoni
confezionati come pannoloni,
e bomboloni di aria fritta
di paroloni alla Berlusconi.
Fu varata una legge
per innalzare i valori
che consentiva di bere
come acqua la merda liquida
che usciva dai rubinetti delle case
e di definire aria pura quella
delle discariche a cielo aperto.
Il giorno di Pasqua fu permesso
a Gesù una breve risurrezione
dall'uovo di cioccolato della Kinder,
poi venne collocato nella collezione
dei piccoli eroi della Walt Disney.
Il cioccolato, considerato più buono,
fu mangiato con gran soddisfazione.
I fuochi delle barricate, spenti,
non li ricordava più nessuno
poichè venne varata un'altra legge
che dichiarava un'allucinazione
le baracche, la miseria, il dolore,
e pure l'amore non ebbe più spazio,
a parte i baci della Perugina.

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giovedì 1 ottobre 2009

L'individualismo nelle teorie liberali

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Di fronte alla questione delle catastrofi sociali prodottesi a causa della pretesa del potere politico di realizzare definitivamente la giustizia, di fare, quindi, dello Stato il soggetto particolare di un presunto ordine universale, l’incarnazione di un ché di assoluto e, conseguentemente, di non discutibile, vi sono autori che reagiscono ipotizzando una determinata impostazione sociale, politica ed etica, che possa essere esente da una simile problematica, e vi sono autori che vedono in una qualsiasi eventuale organizzazione del potere statale una forma di limitazione della libertà individuale e che, pertanto, immaginano una impostazione sociale in cui il potere politico sia ridotto al minimo indispensabile. E’ questo, in prima approssimazione, il punto di vista dei pensatori liberali, fra i quali si pone la recente teoria nozickiana dello “Stato minimo”, proponente la tesi di un interventismo statale ridotto allo stretto indispensabile, nella regolamentazione dei rapporti interpersonali. Con una simile argomentazione, Robert Nozick, da un lato opera una critica della teoria della giustizia di John Rawls, e dall’altro si pone nel solco del liberalismo e dell’individualismo radicale di Friedrich August von Hayek.
Rawls viene difatti da Nozick criticato in quanto, la sua teoria della giustizia, legittimando un’onerosa tassazione finalizzata ad aiutare i ceti più svantaggiati, sottrae agli individui più abili e più capaci una parte del frutto del loro lavoro, violando così la loro libertà. Infatti, assorbendo gli insegnamenti lockiani, Nozick ritiene che ogni individuo sia padrone di se stesso, del proprio lavoro e dei frutti che ne ricava, pertanto, una tassazione redistributiva origina una sorta di schiavitù poiché costringe l’individuo a lavorare non per se stesso ma per gli altri:

Nozick, nella sua polemica contro lo Stato distributivo, non usa mezzi termini: «La tassazione dei guadagni di lavoro è sullo stesso piano del lavoro forzato», la giustizia distributiva realizza solo ingiustizia, perché serve a premiare soltanto l’«invidia» di coloro che sperano di vivere di rendita alle spalle degli altri(1)

Ecco perché, in luogo della teoria rawlsiana della giustizia, Nozick propone la “teoria del titolo valido”(2), per la quale il diritto alla proprietà privata, se è posseduta a giusto titolo, non può subire nessuna limitazione:


1. La persona che acquisisce una proprietà secondo il principio di giustizia nell’acquisizione (Una ricchezza è giusta se la sua acquisizione originale fu giusta e pure giusto è stato ogni passaggio successivo da persona a persona; o se ogni precedente ingiustizia è stata sanata) ha diritto a quella proprietà.
2. La persona che acquisisce una proprietà secondo il principio di giustizia nel trasferimento, da qualcun altro avente diritto a quella proprietà, ha diritto a quella proprietà.
3. Nessuno ha diritto a una proprietà se non con applicazioni (ripetute) di 1 e 2 
(In conclusione) Il principio completo di giustizia distributiva direbbe semplicemente che una distribuzione è giusta se ciascuno ha diritto a possedere le proprietà che possiede con quella distribuzione(3)

Come si vede, la nozickiana teoria del titolo valido consiste nell’applicazione del concetto di giustizia non alla ripartizione delle risorse, come avviene nelle teorie di giustizia distributiva, ma all’acquisizione delle stesse, potendosi così definire come una «teoria della giustizia nella proprietà»(4), il cui fondamento risiede nel carattere storico della giustizia nel possesso della proprietà. Ovviamente, l’humus del quale si nutre tale teoria è quello, lockiano, della concezione dell’inviolabilità della proprietà privata, quest’ultima infatti porta, per Nozick, alcuni importanti benefici, fra cui: l’aumento della ricchezza sociale (mettendo i mezzi di produzione nelle mani di coloro che li sanno usare con efficienza e profitto); l’incremento dell’iniziativa e della sperimentazione; la possibilità per le persone di stabilire come investire le proprie risorse senza intermediari.
Da Hayek, invece, Nozick mutua l’idea che il liberalismo non sia una mera concezione economica, ma una sorta di visione del mondo con riflessi in ambito sociale, politico, giuridico e psicologico. In particolar modo quest’ultimo (quello psicologico) è, per Hayek, un campo di ricerca molto fecondo poiché rende evidenti quelli che lui ritiene essere i danni che lo statalismo provoca sulla mentalità di ciascun individuo. Secondo il filosofo viennese, infatti, uno Stato onnipresente, oltre a mortificare l’economia di mercato, tende ad inibire il “gusto” della libertà d’iniziativa, incidendo, così, negativamente sulla forma mentis delle persone. Ogni forma di liberticidio, insomma, non colpisce solo la struttura esterna della realtà, ma blocca anche la spinta all’azione che ogni individuo porta in sé. Di conseguenza, una teoria della giustizia sociale che implichi una qualsiasi forma di controllo sulle risorse economiche dei cittadini (ad esempio, ridistribuendo le ricchezze attraverso un determinato sistema di tassazione) rappresenta una violazione della libertà degli individui, i quali possono condividere le proprie ricchezze con gli altri, solo se desiderano farlo, ma in nessuno caso essendo moralmente e/o legalmente obbligati a farlo. La fiducia in una simile visione della giustizia sociale è, in Hayek, sostituita da quella nel libero mercato, nella sua capacità di armonizzazione spontanea fra le decisioni dei produttori ed i desideri dei consumatori(5). E’ questa la via che conduce alla formazione di quella che Hayek chiama la “Grande Società”, ossia, una società complessa, non sottostante ad una pianificazione centralizzata, ed affidata all’iniziativa individuale ed alla libera concorrenza. In una simile società la politica appare non solo come un male necessario, ma addirittura come un meccanismo imperfetto rispetto alle regole del libero mercato, regole alle quali la politica, per migliorarsi, dovrebbe tendere, a partire dall’ambito terminologico: il termine democrazia (governo del popolo) dovrebbe essere sostituito da quello di “demarchia” (governo delle regole). Hayek si spinge inoltre sino ad ipotizzare gli organi costituzionali che una tale demarchia dovrebbe avere: un’“ assemblea legislativa”, costituita da persone fra i 45 ed i 60 anni, che restano in carica per quindici anni, con il compito di tutelare la sfera privata da qualsiasi coercizione, ed un’“assemblea governativa”, che latu sensu corrisponde ai parlamenti, composta da persone, suddivise in partiti, elette periodicamente, con il compito di occuparsi degli interessi particolari(6).
Ora, pur proseguendo su questa linea di riflessione, Nozick non estremizza le argomentazioni di Hayek, giungendo alla conclusione della doverosità dell’eliminazione dello Stato di diritto, sulla necessità del quale come rimedio agli “inconvenienti” dello stato di natura si trova in accordo con Locke, ma le rielabora sino a giungere alla teoria del cosiddetto Stato minimo, inteso come quello Stato che interviene il meno possibile nella regolamentazione dei rapporti (in primo luogo) economici e (in generale) sociali, fra gli individui. Lo Stato minimo è alternativo a quello contrattualista poiché non nasce da un accordo sul potere politico, fra quanti dovranno poi sottoporvisi, infatti la genesi dello Stato minimo è da Nozick immaginata come l’estendersi progressivo di un processo fondamentalmente mercantile: gli individui che si trovano nello stato di natura, anziché accordarsi in un patto, comprano protezione da associazioni che siano disposte a fornirgliela. La garanzia della sicurezza (considerabile forse come l’elemento di contatto fra l’assolutismo ed il liberalismo poiché anche per Hobbes essa è la funzione fondamentale dello Stato, benché derivante, diversamente da Nozick, da un patto sociale) giunge, così, attraverso una via puramente di mercato. Ovviamente, tale proposta poggia sul postulato che gli individui abbiano una sorta di primato sulla società, infatti, oltre agli individui stessi, non esistono, per Nozick, entità moralmente e politicamente rilevanti. In questa prospettiva, lo Stato assume esclusivamente la funzione di “guardiano notturno”:

uno stato minimo, ridotto strettamente alle funzioni di protezione contro la forza, il furto, la frode, di esecuzione dei contratti, e così via, è giustificato; […] qualsiasi stato più esteso violerà i diritti delle persone di non essere costrette a compiere certe cose, ed è ingiustificato […] (pertanto) Lo stato minimo è lo stato più esteso che si può giustificare(7)

Quello minimo è, allora, non solo uno Stato necessario, ma addirittura l’unico Stato giustificabile, poiché soltanto esso riesce contemporaneamente ad evitare l’anarchia ed a garantire che la libertà individuale non venga limitata dagli interessi statali. E’ questa quindi, per Nozick, l’unica forma di ordinamento socio-politico realizzante quell’utopia socio-politica che il pensiero occidentale moderno ha sempre ricercato, e che egli, diversamente dalla tradizione che va da Tommaso Moro al socialismo utopistico, non interpreta come il perseguimento di un determinato genere di vita valido per tutti, bensì come la possibilità di un ordinato con-vivere, che si colloca a metà strada fra lo statalismo e l’anarchia, e nel quale ciascun individuo sia libero di ricercare il proprio stile di vita(8).In altri termini, lo Stato minimo si potrebbe definire come uno Stato razionale, anzi, addirittura come l’esito ultimo della razionalizzazione dello Stato, dato che, per Nozick

se c’è una cosa che continua (dopo le “destabilizzazioni antropologiche” portate da Niccolò Copernico, Charles Darwin e Sigmund Freud) a conferire all’umanità uno status speciale, questa è la razionalità. Forse questo nostro importante attributo non viene esercitato sempre con coerenza; nondimeno esso fa di noi un caso a parte(9)
Lo Stato minimo rappresenta, dunque, la casa ideale per un simile “caso a parte”. Tuttavia, lo stesso autore ritiene anche che la razionalità sia «una forza che fa parte integrante di un contesto, in cui gioca un ruolo insieme ad altre componenti, non un’istanza esterna ed autosufficiente che giudichi ogni cosa»(10). La razionalità, insomma, influenza il ed è influenzata dal contesto in cui si trova, e lo stesso vale per i risultati ai quali giungiamo attraverso il suo uso. Un esempio di ciò, Nozick lo rintraccia nell’interazione razionalità-società, tipica della modernità occidentale, che ha prodotto un mondo in cui

calcolo economico e monetario, razionalizzazione burocratica, regole e procedure generali hanno finito per prendere il posto di un’azione basata sui legami personali e i rapporti di mercato sono stati estesi a nuovi campi(11)

Ora, se la razionalità, ed i risultati cui si perviene con il suo utilizzo, è sempre contestualizzata (come già affermava il padre dell’ermeneutica, Hans-Georg Gadamer), ciò significa che l’ordinamento sociale liberalista, che in Nozick sfocia nella teoria dello Stato minimo, può essere, tutt’al più, il migliore ordinamento sociale per la moderna società occidentale, ma non il miglior ordinamento sociale in assoluto. Tutto ciò non toglie certo importanza e valore alla teoria liberalista dello Stato minimo, ma la colloca in una prospettiva in cui tale teoria appare esclusivamente come il possibile frutto di un determinato contesto sociale (avvicinando così, stranamente, il liberalismo ad una delle idee portanti del comunitarismo).
Infine, è interessante ricordare le osservazioni di Norberto Bobbio il quale, cercando di decifrare l’essenza del liberalismo, a partire dal chiarimento della questione “Quale liberalismo?”, afferma che questo, come teoria economica, sostiene l’economia di mercato, e come teoria politica, sostiene lo Stato ridotto al minimo necessario, ma, a ben vedere, queste due teorie si fondono, poiché

Sotto entrambi gli aspetti, economico e politico, il liberalismo è la dottrina dello stato minimo: lo stato è un male necessario, ma è un male. Non si può fare a meno dello stato, e quindi niente anarchia, ma la sfera in cui si estende il potere politico (che è il potere di mettere in galera le persone) sia ridotta ai minimi termini(12)

Ma, avverte lo stesso Bobbio, comunque la si voglia impostare, nessuna società può fare a meno di quel collante costituito da una determinata distribuzione delle ricchezze e delle risorse, infatti «Perché una qualsiasi società stia insieme occorre introdurre anche qualche criterio di giustizia distributiva»(13). Quest’ultima è invece assente in quel ritiro dello Stato dalla sfera dell’economia, dell’istruzione e dell’assistenza, propugnato da Nozick, un ritiro che rischia di innescare dei conflitti sociali che, in assenza di una qualsiasi forma di giustizia distributiva, possono essere sedati solo con mezzi repressivi, il che ricorda, paradossalmente, il modus operandi delle società totalitarie. In altre parole, nelle teorie liberali è presente un individualismo proprietario che fa astrazione dal carattere ineludibilmente sociale e cooperativo di ogni attività umana.

1) N. Matteucci, Il liberalismo, Il Mulino, Bologna 2005, p. 78, e cfr. R. Nozick, La giustizia distributiva, in Anarchia, stato e utopia, Le Monnier, Firenze 1981.
2) Con la perifrasi “Titolo valido”, si è reso l’originale termine di “entitlement”, cfr. Ibidem, p. 160, nota del traduttore.
3) Ibidem, p. 161, prima parentesi p. IX, ultima parentesi mia.
4) Ibidem, p. 163.
5) E’ forse superfluo osservare come tale punto sia in assoluto disaccordo con le posizioni di molti autori continentali.
6) Cfr.F. A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, il Saggiatore, Milano 1986.
7) R. Nozick, Anarchia, stato e utopia, cit., pp. XIII e 159, parentesi mia.
8) Cfr. R. Nozick, Un’impalcatura per utopia, in Ibidem.
9) R. Nozick, La natura della razionalità, Feltrinelli, Milano 1995, p. 12, parentesi mia.
10) Ibidem, p. 170.
11) Ibidem, p. 237.
12) N. Bobbio, Liberalismo vecchio e nuovo, in Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1995, p. 132.
13) Ibidem, p. 121.

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