lunedì 29 agosto 2011

Romeno, tedesco, italiano: Dieter Schlesak, l’«abitante del tra»

di Afrodita Carmen Cionchin (acionchin@yahoo.it / www.afroditacionchin.ro)

a casa posso essere solo qui –
in volo,
come se allora fossi stato nell’aria
e mi fossi fermato sospeso
fra le mie patrie sulla linea di confine,
nonostante tutti quegli spari 
però, un uccello non sono.

Dieter Schlesak

A Dieter Schlesak – poeta, romanziere e saggista di lingua tedesca nato in Romania, a Sighişoara, dunque sassone di Transilvania, emigrato poi in Germania e da molti anni stabilitosi in Italia – ci si può accostare da diverse prospettive, che seguono e segnano il suo percorso allo stesso tempo umano e letterario-culturale.

Minoranza, esilio, diaspora

Una prima prospettiva è quella della letteratura in lingua tedesca quale letteratura delle minoranze etnico-linguistiche, prospettiva relativa al periodo in cui Schlesak viveva ancora in Romania dove, dopo aver condotto studi di germanistica, aveva svolto l’attività di redattore della rivista “Neue Literatur” – aspetto, questo, che illustra anche la particolare cultura da cui questo autore proviene, quella dei sassoni di Transilvania, di forte impronta mitteleuropea, in quanto austroungarica prima e romena dal 1918. 
Una seconda prospettiva è quella della letteratura dell’esilio, con tutta la problematica che essa implica soprattutto sul piano dell’identità e della crisi dell’identità individuale (che opera con concetti quali «doppia identità», «identità in movimento» o «identità in rottura»). Questo piano entra in scena a partire dal 1969, quando Schlesak fugge in Germania per sottrarsi alla pesante cappa del regime comunista romeno: se “deutsch sein / essere tedesco” è difficile, ancor più difficile è essere un tedesco a Est. Al riguardo, il celebre scrittore triestino Claudio Magris, germanista e specialista della problematica mitteleuropea, così osservava nel 2007: “Credo di aver visto, venticinque anni fa, l’ultimo residuo di una reale presenza tedesca in Transilvania, girando per quelle turrite città da stampa medievale (Kronstadt-Braşov, Hermannstadt-Sibiu, Klausenburg-Cluj); i «sassoni» se ne stavano già andando, specialmente gli scrittori, abbandonavano quelle terre che per secoli erano state anche loro e in cui regnava Ceauşescu. Ora sono quasi tutti in Germania”. E a proposito del “deutsch sein / essere tedesco”, Dieter Schlesak si considera un autore tedesco “di terzo grado”, anche perché dopo la Romania e la Germania, vive oggi in Italia – senza trascurare che la difficoltà di essere tedesco riguarda anche il livello dell’espressione linguistica, con forti implicazioni sul piano psicologico.  
Una terza prospettiva fa riferimento alla letteratura della diaspora – concetto che riguarda il periodo successivo alla Rivoluzione romena del 1989, che portò al crollo del regime comunista di Ceauşescu –, nonché alla letteratura di frontiera, opera cioè di 'scrittori di frontiera', autori che, nella loro creazione, si muovono in realtà culturali adottive. Il concetto di «frontiera», peraltro, è legato a tutta una simbologia che implica la necessità e allo stesso tempo la difficoltà di attraversare le frontiere, non soltanto nazionali, politiche, sociali, ma anche psicologiche, culturali, religiose. Varrà la pena ricordare che, in occasione dell’edizione 2006 del Premio letterario internazionale “Trieste Scritture di Frontiera”, dedicato a Umberto Saba, Dieter Schlesak ottenne il primo premio nella Sezione Scritture di Frontiera – Poesia.  

Zwischenschaftler, lo scrittore del tra

La vita di Dieter Schlesak nell’ultimo quarantennio è fortemente contrassegnata dall’esperienza dell’esilio. Dalla prospettiva della cultura romena – e senza considerare ora la questione della ricezione della letteratura dell’esilio in Romania nonché della sua integrazione nella letteratura romena contemporanea – bisogna sottolineare che il cosiddetto “esilio” si riferisce alla comunità di persone originarie della Romania che, vivendo nel “mondo libero” dell’Occidente fra gli anni 1945/1948 e il 1989, hanno svolto un’attività pubblica politico-democratica, anticomunista, impegnata nella promozione dei veri valori del loro Paese di provenienza, a prescindere da come personalmente siano arrivati in Occidente e dal loro statuto di rifugiati politici o meno. La nozione di “esilio” si sovrappone dunque, nel nostro caso, a quella di “esilio militante”; in questo senso, l’impegno e la scrittura di Dieter Schlesak si possono dire esemplari. D’altronde, è stato a ragione evidenziato dalla critica e dallo scrittore stesso che la lingua e la cultura romena sono sempre state al centro della sua attenzione, avendo egli seguito con interesse costante gli sviluppi della scrittura romena ed il destino dei romeni, nell’ambito di un’instancabile attività intenta a far conoscere la letteratura e la cultura romena in particolar modo in Germania, ma anche in Italia.      
In questo contesto risulta assai comprensibile l’autodefinizione identitaria dello scrittore quale Zwischenschaftler, cioè abitante del tra – romeno, tedesco, italiano e nessuno dei tre, in quanto egli non si identifica appieno né in un mondo né nell’altro. È questo il suo stato di “intermediarità” – die Zwischenschaft – che non significa solo non-appartenenza, non sentirsi mai e da nessuna parte a casa, non avere un’identità e non avere frontiere, ma anche, e forse soprattutto, il fatto che in questa non-appartenenza egli trova la sua identità, il suo modo di essere sempre all’interno della propria frontiera.

Mutamento intermediario
Davvero ci sono persone
Che vivono in intermediarietà
In nessuna terra da nessuna parte
E nulla all’orizzonte
e, comunque, sulla terra. […] 
Non sei tedesco in Germania
Non sei italiano in Italia
Non sei romeno in Romania
In Germania sei italiano
In Italia un romeno
In Romania un tedesco.

La frontiera diviene così un “ponte” aperto al mondo, come la scrittura che la esprime, idea rintracciabile anche nel libro dedicato da Schlesak alla rivoluzione romena, Bandiere bucate. Viaggio dentro una rivoluzione, nella traduzione di Mario Pezzella, Moretti & Vitali editore, Bergamo 1997. Da qui si evincono la duplicità della frontiera, i suoi aspetti positivi e negativi, i confini aperti e chiusi, rigidi e flessibili, anacronistici e travolti, protettivi e distruttivi; frontiere visibili e invisibili, nella realtà esterna, ma anche all’interno di un individuo, frontiere che separano le zone recondite e inesplorate della personalità e che vanno anch’esse varcate, se si vogliono conoscere e accettare pure le componenti più problematiche e difficili dell’arcipelago che compone l’identità. Emblematico quanto osservava Claudio Magris nella Prefazione al possente libro di Schlesak intitolato Il farmacista di Auschwitz, Garzanti, Milano 2009: “Schlesak è un notevolissimo scrittore che ha vissuto le contraddizioni della sua identità di autore di lingua tedesca in Romania come un destino di frontiera. Non certo solo quella geopolitica della sua vicenda personale, bensì la frontiera esistenziale che nella storia contemporanea attraversa e divide così spesso non soltanto i territori, ma anche e soprattutto le persone, il loro cuore e la loro intelligenza, separando l’individuo dalla sua lingua, dal suo mondo interiore, da se stesso”.      
Per Dieter Schlesak, l’«intermediarità» – die Zwischenschaft – è arrivata a significare, col tempo, anche l’interdisciplinarietà, oggi così importante, che incorpora tutto – realtà e virtualità – nella rete della globalità. Questa chiave di lettura mette in risalto come il confine tra il vecchio mondo sensoriale e il nuovo mondo immateriale, tra la verità e l’illusione, sia spesso incerto, anche se il nostro compito è quello di cercare incessantemente di stabilirlo. Come Schlesak stesso ha confessato, tale tipo di discorso “interfrontaliero”, tale anamnesi – che vede la patria dei ricordi e lo spazio più vasto dei significati e delle corrispondenze e mira all’Uno, al ritorno a casa ad un livello superiore – rappresenta il nucleo della sua opera, con riferimento proprio all’idea dell’«eterno ritorno», tant’è che proprio un brano delle Osservazioni sull’Antigone di Hölderlin viene scelto come motto del romanzo Zile acasă şi arta dispariţiei (Giorni a casa e l’arte della scomparsa), traduzione e postfazione di Victor Scoradeţ, Ed. Fondazione Culturale Romena, Bucarest 1995. “Tutti i miei libri sono infatti dei ritorni a casa”, ha dichiarato Schlesak in un’intervista.   

L’odissea della vita, la patria della lingua

Se la letteratura è per sua natura una frontiera ed una spedizione alla ricerca di nuove frontiere, un loro spostamento e una loro definizione, per Dieter Schlesak essa ha la possibilità di costruire dei ponti spirituali, metaforici, ponti dell’intermediarità, del dialogo con se stessi e con l’altro, del ritorno a casa, secondo quel modello di odissea tradizionale e classico, che va da Omero a Joyce: l’odissea come viaggio circolare, cammino dell’individuo che parte, attraversa il mondo per ritornare a Itaca, a casa, arricchito e certo cambiato dalle esperienze fatte nel corso del viaggio. Ne nasce così un’identità più profonda, profilata da frontiere né ossessivamente chiuse al mondo, né dissolte in uno stato di indistinzione e di confusione alienante. Come diceva Schlesak a proposito del libro Eine Transsylvanische Reise / Un viaggio transilvano (2004), è una sorta di “arte del ritorno”, di “psicologia del ritorno”, dato che il ritorno a casa può suscitare anche uno stato di shock o la sensazione di estraneità. 
Una consapevolezza accompagna permanentemente vita e opera di Schlesak: die Heimat, la terra natia, la patria, rimane sempre la lingua. “Se non avessi avuto questa patria, sarei morto”, afferma nell’intervista già citata. E, a proposito delle sue tre lingue, aggiunge: “L’italiano mi piace di più come lingua quotidiana, mentre il tedesco è la mia amante immortale ed anche il romeno è un amante, l’amante abbandonata” – tenendo conto che il romeno e il tedesco sono, date le vicende personali e storiche, anche lingue della colpa, della paura, degli interrogatori, degli ordini di esecuzione, per questo segnate da una relazione schizofrenica, mentre l’italiano è integro. 
La lingua resta indissolubilmente legata alla scrittura come “catarsi”, una rivisitazione di sé, della propria storia e dei ricordi, spesso dolorosi o conflittuali, ma pur sempre ricordi che costituiscono l’entità del proprio vissuto con il suo significato. Una finestra che si apre da un’altra angolazione sullo stesso scenario, come si evince anche dai seguenti versi:

Questo poema saggio
che scrivo, purifica.
Rifà i legami perduti
Sviluppa i negativi fotografici del subconscio.
Li trasforma in fotografie.
Pure. Per quanto possibile, li porta verso l’Uno.
Rifà i legami necessari. Vuole dare
 il giusto valore
alla sua natura profonda, che cancella il passo
dei giorni di fuori.

La lingua resta infine indissolubilmente legata alla scrittura, intesa come modus vivendi: “La scrittura e i libri mi hanno aiutato a sopravvivere”, sostiene Dieter Schlesak. È così che si compie il passaggio dalla “realtà” alla “metafora”. Parole come emigrazione, spaesamento, senso di identità, radici, vengono quindi ad assumere valore di metafora esistenziale, con molte forme e variazioni. E le possibilità non sono ancora esaurite...

(«Orizzonti cultutrali italo-romeni», VIII, 2011)

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martedì 2 agosto 2011

Madame Chrysanthème: ovvero il Bianco e Crisantemo

di Erwin de Greef (erwindegreef@libero.it)

Agresser le Japon et les Japonais est une manière de ne pas succomber au désespoir.

Vercier B., “Préface”, in Loti P., Madame Chrysantème

Madame Chrysanthème – così come altre opere di Pierre Loti, tra le quali Aziyadé (1879) e Rarahu (1880/1882) – è una storia costituita da quattro elementi legati tra loro: un Europeo visita un paese esotico e ha una relazione erotica con una donna del luogo. Per mezzo di questa formula romanzesca, Loti mette in gioco: l’uomo, la donna, l’Europa e il Giappone. Per cui, schematizzando, possiamo scrivere:

uomo : Europa = donna : Giappone

Questa equazione si può specializzare se noi consideriamo che, dal punto di vista occidentale – quello di Loti – l’uomo è Bianco, l’Europa è l’Occidente, la donna è l’Altro, il Giappone è l’Oriente. Si tratta di un processo culturale e materiale assai complesso. Spiega a questo proposito Edward Said:

L’orientalismo, quindi, non è solo una fantasia inventata dagli europei sull’Oriente, quanto piuttosto un corpus teorico e pratico nel quale, nel corso delle varie generazioni, è stato effettuato un imponente investimento materiale.(1)

L’avventura di Pierre si sviluppa in Oriente, nella sua globalità come luogo dell’ignoto, del selvaggio, del magico e del violento, soprattutto luogo del soddisfacimento del desiderio. Spazio che è anche formativo dell’uomo forte, che vuole conquistare e dominare. La Trionphante rappresenta l’Occidente – in quanto nave battente bandiera francese lo è anche da un punto di vista di diritto internazionale – ossia è il luogo di identificazione dell’eroe. Luogo plasmato dall’uomo bianco con tutto il suo carico di civiltà e progresso, sempre sicuro, accogliente e rasserenante. Occidente diviene anche la casa dei signori Zucchero e Pruno, che ospita Pierre e proprio per questo è comunque un ambiente europeizzato e per questa via eroticizzato, almeno nelle intenzioni. Da questo luogo nasce il tentativo del narratore di raccontare al lettore un possibile spazio utopico. Nell’appartamento preso in affitto, l’eroe del romanzo cerca di costruire il focolare domestico. Lo ha preconizzato parlandone all’amico Yves, lo vuole realizzare con la complicità, tradita – comunque non condivisa – della musmé. Idea fallimentare fin dalle intenzioni perché l’io narrante pensa la casa come un’alcova, non come il luogo dove svolgere una vita familiare, da focolaio domestico appunto. La sua idea è quindi destinata al fallimento. Da subito, Pierre si sente un estraneo, un escluso, un esiliato: 

Non, je ne me trouve pas du tout chez moi, dans ce gîte étrange; j’y éprouve des impressions de dépaysement extreme et de solitude; rien que la perspective d’y passer la nuit me serre le cœur…(2) (M. C., p. 70)

Per cui, possiamo riscrivere la formula nei seguenti termini:

Bianco : Occidente = Altro : Oriente

Quanto fin qui affermato si può ulteriormente qualificare se consideriamo che l’uomo, il Bianco, rappresenta il Potere: “Il rapporto tra Oriente e Occidente è una questione di potere, di dominio, di varie e complesse forme di egemonia […]” (E. S., p. 15). L’Europa, (l’Occidente) è anche lo Spazio topico. A sua volta, la donna, l’Altro, rappresenta l’Oggetto di valore e il Giappone, (l’Oriente) è lo Spazio eterotopico. Così il viaggio dell’uomo Bianco nell’Altrove – come quello compiuto da Pierre – è sia un’avventura pura sia un insieme di azioni finalizzate all’appropriazione, alla sottomissione, allo sfruttamento dell’Altro e dell’Altrove. Quella dell’uomo Bianco è una vera e propria azione predatoria (anche se non si trova in una colonia): 

La violenza coloniale non si propone soltanto lo scopo di tenere a rispetto quegli uomini asserviti, cerca di disumanizzarli. Niente sarà risparmiato per liquidare le loro tradizioni, per sostituire le nostre lingue alle loro, per distruggere la loro cultura senza dar loro la nostra; […].(3)

In altri termini il desiderio, non il bisogno, di possedere – ricordiamo che Pierre compra la sua donna, non la conquista, non la ama, la possiede – consiste nell’imposizione di una forza distruttrice. L’uomo Bianco è, dunque, espressione di potenza anche se negativa. Da quanto fin qui scritto, si può desumere che:

Potere : Spazio topico = Oggetto di valore : Spazio eterotopico

Questa equazione assume maggiore rilevanza se valutiamo che i termini presi in considerazione sono tra loro legati. L’uomo, il Bianco, esercita il suo Potere attraverso l’erotismo. Il Potere è costruito nel Centro della sua produzione, l’Europa – che è anche Occidente e Spazio topico. Potere espresso per mezzo della sua capacità economica, che è determinata dalla tecnologia(4), anche e soprattutto militare (il Bianco arriva sempre armato): 

In the imperial phase, from the 1880s onwards, the cultural ideology of race became so dominant that racial superiority, and its attendant virtue of civilization, took over even from economic gain or Christian missionary work as the presiding, justifying idea of the empire. […] Race […] like ethnicity, has always been a cultural, as well as a political, scientific and social construction. The implications between them is such as to make them interdependent and inseparable.(5)

A sua volta, la donna, l’Altro, esprime il suo essere Oggetto di valore – determinato da una diametralmente opposta incapacità nel far crescere la propria forza economica – in quanto è comprata dall’uomo Bianco, che per questa via afferma il proprio potere, sotto forma di desiderio erotico. Compie la sua azione al di fuori del Centro di produzione di quel Potere. Il Bianco agisce nella Periferia. Il seguente brano tratto dall’indispensabile Orientalism (1978) di Edward Said spiega il ruolo di appendice (dal punto di vista testuale) e di periferia (dal punto di vista geografico) dell’Oriente:

[…] teorizzare l’Oriente, dargli forma, identità, definizione, col pieno riconoscimento del suo posto nella memoria storica, della sua importanza nella strategia imperiale, del suo “naturale” ruolo di appendice dell’Europa […]. (E. S., p. 91)

Sostiene Todorov che in Madame Chrysanthème, come negli altri romanzi di genere, dobbiamo stabilire due relazioni. Una è di necessità (per essere amata da Loti la donna deve essere del luogo), l’altra è di transitività(6) (l’io narrante ama il paese che visita così come l’uomo ama la donna): “La trovata di Loti consiste nell’aver fatto coincidere esotismo ed erotismo: la donna è esotica, lo straniero è erotico” (T. T., p. 368). Per cui l’equazione che si determina è la seguente:

Erotico : Centro = Esotico : Periferia

Per esprimere l’equazione nella sua interezza dobbiamo scrivere:

Erotico [Uomo, Bianco, Potere] : Centro [Europa, Occidente, Spazio topico] = Esotico [Donna, Altro, Oggetto di valore] : Periferia [Giappone, Oriente, Spazio eterotopico] 

Nell’eccezionale connubio tra le scienze e il colonialismo, dettato come un metronomo dagli studi economici e naturalistici, da Bentham a Darwin, che sfociano nella biologia e nel sociale, la donna è comunque raffigurata come geneticamente inferiore e socialmente subordinata all’uomo, che a sua volta è il centro motore di un sistema maschilista e patriarcale.
Al maschio dominante, all’apice della scala genetica, sempre in lotta per la conquista della donna, quale strumento per la riproduzione e la salvaguardia della razza, e del territorio, come fonte di approvvigionamento del benessere, si contrappone l’universo femminile che, relegato a un ruolo marginale e di periferia, finisce per intersecarsi e identificarsi col territorio da conquistare:  

Thus, from the beginning of the colonial period till its end (and beyond), female bodies symbolise the conquered land. This metaphoric use of the female body varies in accordance with the exigencies and histories of particular colonial situation.(7)

L’ufficiale di marina arriva con la nave militare, la Trionphante, paga una giovane donna, soddisfa i suoi pruriti erotici, predatori, comprandola per venti piastre. Una volta soddisfatto il desiderio, riparte per una nuova destinazione. La donna come il paese straniero si lasciano desiderare, comprare, e infine lasciare. In questo senso – e in modo assolutamente schematico – la relazione è di dominio. Non è certo di reciprocità. L’Altro è desiderabile perché è un oggetto di valore. Il suo valore sta proprio nell’essere femminile. In tal senso, l’uomo gode della stessa superiorità, in rapporto alle donne, di cui gode l’Europeo in rapporto agli altri popoli. L’Altrove, in quanto suscettibile di produrre ricchezza e quindi valore di scambio, è predato. Lo è alla stregua della donna, l’Altro, che è comprata e sfruttata. A questo punto si può affermare che il territorio, per lo stesso principio di somiglianza di cui scrive Todorov, è anch’esso femminilizzato. In altri termini, questo principio mette in risalto l’aspetto di somiglianza, che si realizza nel processo psicologico del Bianco nell’identificazione erotica del territorio da sfruttare e della donna da violentare.
L’incontro dell’uomo con la donna, del soggetto con l’oggetto, in questa ottica discorsiva, è, com’è logico che sia, prima di tutto, un’esperienza dei sensi. Sia in Aziyadé sia in Rarahu, le storie si costruiscono attraverso l’esaltazione della libido maschile: “Mai i miei sensi hanno conosciuto una simile ebbrezza”, dice il protagonista di Aziyadé. Lo stesso accade in Rarahu. La passione erotica maschile non è invece presente in Madame Chrysanthème, che finisce inevitabilmente per essere una parodia degli altri due romanzi. Come afferma il protagonista, metaforizzando il fiore di loto, a fine romanzo nel capitolo LV:

Moi qui ai conservé tant de fleurs fanées, tombées en poussière, que j’avais prises, çà et là, au moment des départs, dans différents lieux du monde; moi qui en ai tant conservé que cela tourne à l’herbier, à la collection incohérente et ridicule, – j’ai beau faire, non, je ne tiens point à ces lotus, bien qu’ils soient les derniers souvenirs vivants de mon été à Nagasaki.(8) (M. C., p. 231)

In Madame Chrysanthème, tutti i personaggi parlano poco. Il discorso diretto è ridotto all’indispensabile. Questo accade sia perché il romanzo è fortemente descrittivo sia perché quella di Loti è un’esperienza dei sensi: “È a causa di questo ruolo fondamentale attribuito all’esperienza dei sensi che la comunicazione verbale è così poco importante” (T. T., p. 369), suggerisce e bene Todorov. Chrysanthème non parla quasi mai. Non osa aprire bocca, come nel capitolo XLVII: “[…] muette, elle me fait signe, sans oser parler, que quelqu’un s’approche…”(9). (M. C., p.) Un altro momento in cui l’io narrante palesa questa condizione di Kikou-San l’abbiamo nel capitolo LI: “Chrysanthème est distraite et silencieuse…”(10). (M. C., p. 218) A sua volta, Pierre impara, almeno prova, il giapponese. Nei viaggi precedenti, impara il turco, e il maori: lingue che lo aiutano, lo agevolano, nello sviluppare il rapporto con le sue donne. Esse sono contente, ma Pierre non lo ritiene indispensabile: 

Aziyadé mi comunica i suoi pensieri più con gli occhi che con la bocca […]. È così brava nella pantomima dello sguardo che potrebbe parlare ancor più di rado o addirittura farne a meno. (T. T., 369) 

Lo stesso si può affermare per Rarahu: “Ella comprendeva vagamente che dovevano esservi degli abissi, in campo intellettuale, tra Loti e lei stessa”(11). Nel rapporto con Chrysanthème non cambia proprio nulla: 

Quel dommage que cette petite Chrysanthème ne puisse pas toujours dormir: elle est très décorative, présentée de cette manière, – et puis, au moins, elle ne m’ennuie pas.(12) (M. C., p. 108)

D’altra parte che Chrysanthème parli è del tutto inutile, secondo Loti sembra che non capisca un’acca. Siamo nel mezzo del capitolo IV, Yves ha indicato la giovane donna all’amico. Pierre la guarda, l’osserva, gli piace. Esce per prendere una boccata d’aria, rientra, torna a guardarla e commenta: 

Nous rentrons; elle est au milieu du cercle, assise; on lui a mis un piquet de fleurs dans les cheveux. Vraiment son regard a une expression, elle a presque un air de penser, celle-ci…(13) (M. C., p. 75)

Chrysanthème, alla stregua delle altre concubine – di cui in qualche modo Aziyadé è un’eccezione – è espressamente detta “un giocattolo bizzarro e grazioso” (capitolo III), sta “a quattro zampe” (capitolo IV), è una “figurina” (capitolo VII), ha “una grazia bizzarra … una grazia carezzevole da gattino” (capitolo X), è una “bambola” (capitolo XI), la loro camera ha “quasi un fetore di belva” (capitolo XXV), è “la piccola creatura per burla” (capitolo XLII), per Ivo, anche Crisantemo “non è sudicia” (capitolo XLIII), un giorno “quando sarà divenuta una vecchia scimmia” (capitolo XLIV), normalmente ha uno “sguardo insignificante … da bambola” (capitolo XLIX). Il suo stesso nome Okané-San non sarà mai utilizzato dall’io narrante, la chiamerà Crisantemo, o alla giapponese Kikou-San. Fa notare Todorov che, in una pagina del diario di Nagasaki, Pierre si ripromette di chiamarla col vero nome, ma non lo farà mai: “[…] è significativo che la promessa non sarà mantenuta: la sua amante è un oggetto di piacere piuttosto che una persona” (T. T., p. 371). Loti decide di comprare la sua musmé per noia, per solitudine. Nel momento in cui impianta la transazione con il signor Kangourou non ha alcun ripensamento, non si sente in difficoltà. Insomma, a lui interessa solo soddisfare il suo desiderio. Non ha accettato di condividere il suo piacere erotico con Jasmin, è molto giovane e la cosa lo spaventa in certo qual modo. Pierre si scandalizza anche per l’atteggiamento freddo, da commercianti, dei parenti di lei: 

Les vieilles dames (la maman sans doute et des tantes) […] Elles me font presque de la peine: c’est que, pour des femmes qui en somme viennent vendre une enfant, elles ont un air que je n’attendais pas: je n’ose pas dire un air d’honnetêté (c’est un mot de chez nous qui, au Japon n’a pas de sens), mais un air d’inconscience, de grande bonhomie, […].(14) (M. C., pp. 72-73)

La riflessione di Pierre è significativa perché mette in luce un aspetto sociale del Giappone dell’epoca Meiji. I genitori vendono le figlie, poi, registrano il contratto presso un ufficio pubblico. Le autorità di polizia sono informate dei fatti e controllano in modo discreto la situazione. 
Per quanto scritto, dobbiamo porci una domanda: qual era la condizione della donna nel Giappone di Loti? In altri termini: il caso Chrysanthème è un’eccezione? Sembrerebbe di no e l’ipotetica è d’obbligo perché per darci una risposta congrua sarebbe necessario sviluppare uno studio antropo-sociologico su quel Giappone, che l’economia testuale del presente studio non consente. Per quel che il narratore ci permette di cogliere, in uno sguardo d’insieme, si può affermare che l’ambiente nel quale agisce l’eroe è traboccante di musmé e geishe. Qui, vendere e comprare relazioni amorose è un’intensa attività remunerativa e socialmente accettata. È un fatto. Allora, per concludere questa prima e breve riflessione, dobbiamo chiederci: Kikou-San è frutto della brutalità solo dell’uomo bianco o è anche il suo sistema socio-culturale di riferimento che attribuisce alla donna, a Kikou-San, un ruolo marginale e subalterno?
Chrysanthème non ama Pierre, è fin troppo evidente. Non è come Aziyadé che muore non appena il suo amante se ne va. Madame Chrysanthème presenta un aspetto quasi comico, comunque di contrasto: la musmé non prova alcun sentimento di pena nel separarsi dal suo amante (ma forse sarebbe meglio scrivere, anche se penoso, padrone). La giovane donna è più triste nel sapere di separarsi da Yves. Per lei Pierre vale solo le venti piastre, che con cautela conta verificandone la bontà. Quasi imbarazzato per il comportamento franco e venale dell’amante, il narratore la giustifica (per legittimare il proprio sentimento di amante tradito): “Une bonne idée que tu as eu là, dis-je, […] tant de gens malintentionnés sont habiles à imiter les monnaies”(15). (M. C., p. 225) In fin dei conti, per lui è stato solo uno scherzo ed è felice (fino a un certo punto perché rinuncia al focolare domestico) che il rapporto si risolva per come era cominciato, uno scherzo. Todorov chiude la sua riflessione su Madame Chrysanthème suggerendo al lettore:

Le due fasi di questa relazione – l’incomprensibile infatuazione per la straniera e il suo abbandono finale – rispecchiano esattamente l’ambivalenza dell’esotismo di Loti: l’uomo europeo è attirato e sedotto, ma ritorna invariabilmente a casa sua; vince così su due fronti: ha il beneficio dell’esperienza esotica (una donna e un paese stranieri) senza mai mettere veramente in discussione la sua appartenenza, né la sua identità. (T. T., p. 372) 

1) Said E. W., Orientalismo, Feltrinelli, UE, Saggi, Milano, 2001, p. 16.
2) «No, non mi sento affatto a casa mia, in quello strano asilo! Provo delle impressioni di estremo disorientamento e di solitudine. Mi si stringe il cuore solo al pensiero di passar la notte in quei luoghi…», (S. C., p. 24).
3) Sartre J., “Prefazione”, in Fanon F., I dannati della terra, Einaudi editore, Torino, 1966, p. XIII.
4) A questo proposito scrive Di Piazza: «Gli eroi del romanzo colonialistico non facevano affidamento sulla forza fisica, come i predecessori epici, ma sulla supremazia tecnologica»; Di Piazza E., L’avventura bianca, Adriatica Editrice, Bari, 1999, p. 258.
5) Young R., Colonial Desire, Routledge, London, 1996, pp. 92-93.
«Nella fase imperiale, dagli anni Ottanta in poi, l’ideologia culturale della razza divenne così dominante che la superiorità di razza, e la sua attesa capacità di civilizzazione, attinse anche dal vantaggio economico o dal lavoro del missionario Cristiano come i presidi, giustificando l’idea dell’Impero. […] Razza […] come etnia è sempre stata una costruzione culturale, tanto quanto politica, scientifica e sociale. Le implicazioni tra loro sono tali da renderli interdipendenti e inseparabili».
6) In Noi e gli Altri, da cui il presente studio prende spunto, Todorov fa riferimento a una “relazione di somiglianza”. Noi, invece, abbiamo preferito esprimerci in termini di “relazione di transitività”. Da una parte, in Madame Chrysanthème, l’io narrante entra in relazione, in quanto soggetto attivo, con l’Altro e l’Altrove e, in quanto Bianco, è dotato di un’autorità decisionale assoluta; dall’altra, questa relazione è, però, condizionata dal suo bisogno di essere amato. La “relazione di somiglianza”, invece, sembra voler mettere in evidenza la unilateralità del rapporto. In altri termini, per Todorov, Pierre ama il Giappone e Crisantemo in quanto “visitatore” e “uomo”. Il racconto di Loti, a nostro avviso, però, implica la partecipazione attiva, e non passiva, di Kikou-San. Dimostra la conclusione del romanzo che, senza l’amore della musmé, per Pierre Loti, il suo vuoto esistenziale rimane tale.   
7) Loomba A., Colonialism/Postcolonialism, Routledge, London, 1998, p. 152.
«Così, dall’inizio del periodo coloniale fino alla sua fine (e oltre), il corpo femminile simbolizza il territorio conquistato. L’uso metaforico del corpo femminile varia in accordo con le esigenze e le storie della particolare situazione coloniale».
8) «Io che ho conservato tanti fiori appassiti e che si polverizzano, fiori presi qua e là, al momento della partenza, in diversi luoghi del mondo; io che ne ho conservati tanti da formarne quasi un erbario, una collezione incoerente e ridicola, no, per quanto mi sforzi, non ci tengo affatto, a questi, quantunque siano gli ultimi ricordi della mia estate a Nagasaki!», (S. C., p. 143)
9) «Muta, mi fa cenno, senza osare d’aprir bocca, che qualcuno, o qualche cosa, si sta avvicinando strisciando», (S. C., p. 112).
10) «Crisantemo è distratta e muta», (S. C., p. 133).
11) Cit. in Ibidem.
12) «Peccato che la mia piccola Crisantemo non possa dormire sempre! È molto decorativa, stesa a terra così, e almeno, quando dorme, non mi annoia», (S. C., p. 50).
13) «Rientriamo. Lei è seduta in mezzo al circolo; le hanno messo un mazzetto di fiori tra i capelli. È proprio vero che il suo sguardo ha un’espressione; pare quasi che pensi, costei…», (S. C., p. 29).
14) «Le vecchie signore (la madre, certo, e delle zie) […] Mi fanno pena, quasi… È che, per essere donne vendute, insomma, per vendere una bambina, hanno un’aria che non m’aspettavo; non oso dire un’aria d’onestà (è una parola nostra, che nel Giappone non ha senso), ma un’aria d’incoscienza, di grande bonarietà», (S. C., p. 26).
15) «– Buona idea, questa! Le dico […] tanti individui poco scrupolosi sono abilissimi nell’imitare le monete», (S. C., p. 138).

Bibliografia

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· Sartre J., “Prefazione”, in Fanon F., I dannati della terra, Einaudi, Torino, 1966.
· Todorov T., Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, Einaudi, Paperbacks, Torino, 1991.
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