domenica 31 marzo 2019

Potere disciplinante e libertà controllata. Esiti morali della moderna configurazione del potere

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it; II di 3)

Ontologia e fenomenologia del sistema

La concezione, di derivazione marcusiana, di “sistema”, esprime una ricca e articolata descrizione della nuova forma storica dei meccanismi di dominio (come è ormai evidente, in questo testo si considera il potere “francofortianamente” come dominio, la qual cosa non è da ritenersi in contrasto, bensì in interazione con la concezione foucaultiana del potere come categoria relazionale). Tale sistema affonda le sue origini in una certa razionalità tecnologica che conduce ad una totale subordinazione dell’esistenza ad un paradigma produttivo, di senso più che di beni, efficientista e oggettivante, funzionale all’instaurarsi ed al perpetuarsi di una nuova forma di dominio.

Nella realtà sociale, nonostante tutti i mutamenti, il dominio dell’uomo sull’uomo rimane il continuum storico che congiunge la Ragione pretecnologica a quella tecnologica. La società che progetta e intraprende la trasformazione tecnologica della natura trasforma tuttavia la base del dominio, sostituendo gradualmente la dipendenza personale (dello schiavo dal padrone, del servo dal signore del feudo, del feudatario dal donatore del feudo) in dipendenza dall’ordine oggettivo delle cose” (dalle leggi economiche, dal mercato, ecc.) […] Noi viviamo e moriamo in modo razionale e produttivo. Noi sappiamo che la distruzione è il prezzo del progresso, così come la morte è il prezzo della vita; che rinuncia e fatica sono condizioni necessarie del piacere e della gioia; che l’attività economica deve proseguire, e che le alternative sono utopiche. Questa ideologia appartiene all’apparato stabilito della società; è un requisito del suo regolare funzionamento, fa parte della sua razionalità[1]

Ma a tale esito non si è giunti a causa della tecnica, la mera capacità di fare qualcosa, senza un orientamento di tale fare, quindi in sé neutrale in quanto sprovvista di un telos, bensì a causa dello sviluppo di una determinata tecnologia, la forma storica della tecnica, ovvero lo specifico modo, sempre con finalità e con razionalità storicamente determinate, di impiego di tale capacità. E lo sviluppo della moderna tecnologia, dunque questa tecnologia, ha come esito determinante quello dell’inibizione del pensiero critico.
La nostra società è infatti razionale nei procedimenti ma irrazionale negli scopi, razionale nel suo efficientismo e tuttavia

nell’insieme, irrazionale. La sua produttività tende a distruggere il libero sviluppo di facoltà e bisogni umani, la sua pace è mantenuta da una costante minaccia di guerra, la sua crescita si fonda sulla repressione delle possibilità più vere per rendere pacifica la lotta per l’esistenza – individuale, nazionale e internazionale [infatti] l’a priori tecnologico è un a priori politico in quanto la trasformazione della natura implica quella dell’uomo[2]

   La ragione perde infatti quei connotati di trascendenza ed astrattezza, indispensabili per trattare della bidimensionalità tra status quo e sue alternative, tra essere e dover/poter essere, tra esistenza ed essenza, tra “è” e “dovrebbe/potrebbe”, divenendo un pensiero affermativo e positivo, incapace di qualsiasi critica nei confronti dell’ordine stabilito delle cose. In altri termini, viene meno l’antagonismo tra realtà e cultura, poiché viene meno una qualsiasi forma d’opposizione alla realtà esistente.
Questo processo di graduale appiattimento sull’esistente, e pertanto di perdita di libertà o, meglio, di auto-determinazione, lo vorrei ora descrivere passando per alcuni autori che, ferme restando le loro peculiarità e irriducibili differenze, individuano una direttrice fondamentale della sua manifestazione: l’impoverimento del logos, la perdita della sua capacità di trascendimento del già dato, l’oggettivazione del linguaggio e del pensiero.
Il linguaggio subisce tale oggettivazione riducendosi da “metaforico” a “didascalico”, perdendo la capacità d’esprimere dei significati concettuali che trascendano la parola e limitandosi unicamente ad identificare la funzione che una cosa svolge. A questo proposito Marcuse scrive:

I concetti che abbracciano i fatti e in tal modo li trascendono stanno perdendo la loro autentica rappresentazione linguistica. Senza queste mediazioni, il linguaggio tende ad esprimere e a promuovere l’identificazione immediata della ragione col fatto, dell’essenza con l’esistenza, della cosa con la sua funzione […] In questo universo di comportamento parola e concetto tendono a coincidere, o meglio il concetto tende ad essere assorbito dalla parola. Il primo non ha altro contenuto che non sia quello designato dalla parola nell’uso pubblicitario, standardizzato di questa, né ci si aspetta che alla parola segua altra risposta che non sia il comportamento standardizzato, proposto dalla pubblicità (reazione).  La parola diventa cliché, e, come cliché, governa la parlata o la scrittura; la comunicazione preclude per tal via lo sviluppo genuino del significato[3]