Ontologia e fenomenologia del sistema
La concezione, di derivazione marcusiana, di “sistema”, esprime una ricca e articolata descrizione della nuova forma storica dei meccanismi di dominio (come è ormai evidente, in questo testo si considera il potere “francofortianamente” come dominio, la qual cosa non è da ritenersi in contrasto, bensì in interazione con la concezione foucaultiana del potere come categoria relazionale). Tale sistema affonda le sue origini in una certa razionalità tecnologica che conduce ad una totale subordinazione dell’esistenza ad un paradigma produttivo, di senso più che di beni, efficientista e oggettivante, funzionale all’instaurarsi ed al perpetuarsi di una nuova forma di dominio.
Nella realtà sociale, nonostante tutti i mutamenti, il dominio dell’uomo sull’uomo rimane il continuum storico che congiunge la Ragione pretecnologica a quella tecnologica. La società che progetta e intraprende la trasformazione tecnologica della natura trasforma tuttavia la base del dominio, sostituendo gradualmente la dipendenza personale (dello schiavo dal padrone, del servo dal signore del feudo, del feudatario dal donatore del feudo) in dipendenza dall’“ordine oggettivo delle cose” (dalle leggi economiche, dal mercato, ecc.) […] Noi viviamo e moriamo in modo razionale e produttivo. Noi sappiamo che la distruzione è il prezzo del progresso, così come la morte è il prezzo della vita; che rinuncia e fatica sono condizioni necessarie del piacere e della gioia; che l’attività economica deve proseguire, e che le alternative sono utopiche. Questa ideologia appartiene all’apparato stabilito della società; è un requisito del suo regolare funzionamento, fa parte della sua razionalità[1]
Ma a tale esito non si è giunti a causa della tecnica, la mera capacità di fare qualcosa, senza un orientamento di tale fare, quindi in sé neutrale in quanto sprovvista di un telos, bensì a causa dello sviluppo di una determinata tecnologia, la forma storica della tecnica, ovvero lo specifico modo, sempre con finalità e con razionalità storicamente determinate, di impiego di tale capacità. E lo sviluppo della moderna tecnologia, dunque questa tecnologia, ha come esito determinante quello dell’inibizione del pensiero critico.
La nostra società è infatti razionale nei procedimenti ma irrazionale negli scopi, razionale nel suo efficientismo e tuttavia
nell’insieme, irrazionale. La sua produttività tende a distruggere il libero sviluppo di facoltà e bisogni umani, la sua pace è mantenuta da una costante minaccia di guerra, la sua crescita si fonda sulla repressione delle possibilità più vere per rendere pacifica la lotta per l’esistenza – individuale, nazionale e internazionale [infatti] l’a priori tecnologico è un a priori politico in quanto la trasformazione della natura implica quella dell’uomo[2]
La ragione perde infatti quei connotati di trascendenza ed astrattezza, indispensabili per trattare della bidimensionalità tra status quo e sue alternative, tra essere e dover/poter essere, tra esistenza ed essenza, tra “è” e “dovrebbe/potrebbe”, divenendo un pensiero affermativo e positivo, incapace di qualsiasi critica nei confronti dell’ordine stabilito delle cose. In altri termini, viene meno l’antagonismo tra realtà e cultura, poiché viene meno una qualsiasi forma d’opposizione alla realtà esistente.
Questo processo di graduale appiattimento sull’esistente, e pertanto di perdita di libertà o, meglio, di auto-determinazione, lo vorrei ora descrivere passando per alcuni autori che, ferme restando le loro peculiarità e irriducibili differenze, individuano una direttrice fondamentale della sua manifestazione: l’impoverimento del logos, la perdita della sua capacità di trascendimento del già dato, l’oggettivazione del linguaggio e del pensiero.
Il linguaggio subisce tale oggettivazione riducendosi da “metaforico” a “didascalico”, perdendo la capacità d’esprimere dei significati concettuali che trascendano la parola e limitandosi unicamente ad identificare la funzione che una cosa svolge. A questo proposito Marcuse scrive:
I concetti che abbracciano i fatti e in tal modo li trascendono stanno perdendo la loro autentica rappresentazione linguistica. Senza queste mediazioni, il linguaggio tende ad esprimere e a promuovere l’identificazione immediata della ragione col fatto, dell’essenza con l’esistenza, della cosa con la sua funzione […] In questo universo di comportamento parola e concetto tendono a coincidere, o meglio il concetto tende ad essere assorbito dalla parola. Il primo non ha altro contenuto che non sia quello designato dalla parola nell’uso pubblicitario, standardizzato di questa, né ci si aspetta che alla parola segua altra risposta che non sia il comportamento standardizzato, proposto dalla pubblicità (reazione). La parola diventa cliché, e, come cliché, governa la parlata o la scrittura; la comunicazione preclude per tal via lo sviluppo genuino del significato[3]
E tale cliché non favorisce certo lo sviluppo dei significati, ma produce unicamente l’esito utilitaristico della rapida ed efficace descrizione della funzione di una cosa, non lasciando spazio alla critica ed alla riflessione; esso quindi descrive qualcosa ma non significa qualcosa.
Anche Max Horkheimer denuncia la riduzione del pensiero a fredda e lucida funzione calcolante; ciò provoca un generale decadimento sociale, di cui un evidente indicatore è l’imbarbarimento del linguaggio:
l’individuo […] non considera il linguaggio parlato se non come un mezzo per orientare, informare, dare ordini […] Gli uomini devono ripetere i linguaggi della radio, del cinema, dei giornali[4]
Ciò conduce all’esaltazione dello status quo e degli oggetti in esso presenti:
i ragazzi osservando l’auto o l’apparecchio radio imparano presto a conoscerli […] il padre […] è sostituito dal mondo delle cose[5]
Ed alla riduzione strumentale dell’amore in sesso:
La raccomandazione ufficiale delle relazioni extraconiugali nello Stato del Führer certifica che il lavoro privato di coito è lavoro della società di classe in cui lo Stato prende anche l’amore sotto il suo diretto governo[6]
È estremamente significativo notare come l’amministrazione, sotto la forma della cura, del bios sia un tratto fondamentale che attraversa gli ultimi secoli.
Mi sembra che uno dei fenomeni fondamentali del XIX secolo sia stato ciò che si potrebbe chiamare la presa in carico della vita da parte del potere. Si tratta, per così dire, di una presa di potere sull’uomo in quanto essere vivente, di una sorta di statalizzazione del biologico […] di una tecnologia di potere che ha come oggetto e come obiettivo la vita[7]
Tale paradigma, quindi, attraversa e unisce la modernità:
Il nazismo, dopotutto, non è altro che lo sviluppo parossistico dei nuovi meccanismi di potere instaurati a partire dal XVIII secolo […] Potere disciplinare, bio-potere: tutto ciò ha attraversato e sostenuto materialmente fino all’estremo la società nazista (presa in carico e gestione del biologico, della procreazione, dell’ereditarietà, così come della malattia, degli incidenti e via di seguito). Nessuna società è stata più disciplinare e al contempo più assicurativa di quella instaurata, o in ogni caso progettata, dai nazisti. Il controllo dei rischi specifici dei processi biologici era infatti uno degli obiettivi immediati del regime[8]
Risulta così evidente come il biopotere sia un meccanismo inscritto nel funzionamento di tutti gli Stato moderni, dai totalitarismi novecenteschi alle attuali democrazie. Tuttora, infatti, il potere si presenta innanzi tutto come garante della sicurezza, della salute e della prosperità di una popolazione, configurandosi così come una totale e capillare forma di controllo “normalizzante”, permeando tutta la vita e la vita di tutti[9].
Da questi passaggi emerge un dato di estrema importanza per la nostra analisi: intendere il totalitarismo come una fase di un generale processo di allontanamento dal “logos critico” e di ipostatizzazione di logiche di dominio, che è la civilizzazione occidentale. Tale modo d’intendere il processo civilizzante occidentale permette non solo di cogliere i totalitarismi storici come una tappa di tale processo, ma anche, e soprattutto, di individuare possibili linee di sviluppo dello stesso, confluenti in una forma di illibertà post-totalitaria (da Marcuse descritta proprio come sistema) che conferma quindi la continuità del dominio, nell’evoluzione dello stesso, tra i totalitarismi storici e le attuali democrazie.
Il termine «totalitario», infatti, non si applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione economico–tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti. Essa preclude per tal via l’emergere di una opposizione efficace contro l’insieme del sistema. Non soltanto una forma specifica di governo o di dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e di distribuzione, sistema che può essere benissimo compatibile con un “pluralismo” di partiti, di giornali, di “poteri controbilanciantesi”, ecc.[10]
Inoltre, la sussunzione horkheimeriana anche della corporeità nel perimetro delle logiche di dominio, segna un altro importante punto di contatto con Marcuse, che vede nella specifica liberazione sessuale della modernità nient’altro che un ulteriore strumento di controllo. Questa infatti trasforma l’energia vitale per eccellenza, l’Eros (concezione che Marcuse mutua da Sigmund Freud) in gratificazione sessuale che si può manifestare solo secondo tempi e modi codificati, localizzati in determinate zone del corpo e limitati a precisi criteri di svolgimento. Per tal via, l’attività sessuale viene inscritta all’interno della sfera del tempo libero che, tutt’altro che essere tempo liberato, è divenuto quel tempo di ricreazione e riposo amministrati che rendono gli individui ancor più assorbiti nel, funzionali al, funzionari del sistema.
La liberazione della sessualità costretta entro il dominio di queste istituzioni. Quest’ultimo processo porta a una liberazione della sessualità soffocata e rimossa; la libido continua a portare il marchio della rimozione e si manifesta nelle forme orride e ben note nella storia della civiltà; nelle orge sadiche e masochistiche di masse disperate, di “élite sociali”, di bande fameliche di mercenari, di guardiani di prigioni e di campi di concentramento. Una siffatta liberazione della sessualità, offre un necessario sfogo periodico a un’insoddisfazione insostenibile; essa rafforza più che indebolire le radici della costrizione degli istinti; di conseguenza essa viene usata di quando in quando come sostegno di regimi oppressivi[11]
Anche in Theodor W. Adorno, l’origine dei mali socio-politici, dei quali il totalitarismo storico rappresenta solo una fase, è sempre ascrivibile ad una malattia della ragione che, anziché orientarsi verso una autoconsapevolezza critica, si indirizza verso una pianificazione del dominio. Non potendo qui ripercorrere nella sua completezza l’argomentazione adorniana, vorrei almeno sottolineare come per il pensatore francofortese la secolarizzazione, enfatizzata dall’illuminismo, continui paradossalmente a contenere la stessa problematica che voleva superare, poiché è stata intesa come un mero passaggio di consegne dal sacro al profano, dall’autorità di forze trascendenti (sostanzialmente Dio) all’autorità di forze immanenti (la Ragione). Così, la forza totalizzante del mito metastorico, dalla quale il soggetto moderno mira ad emanciparsi, viene ricreata nella storia[12]. Il pensiero infatti elimina il mito irrazionale, rigettandolo, ma si appropria del potere in esso contenuto, cioè dei suoi essenziali caratteri di forza fondativa, autarchia, cominciamento assoluto e chiusura totale in sé. Se il pensiero esce, quindi, da un orizzonte di senso assoluto, entra però nell’ambito dell’assolutizzazione del proprio orizzonte finito: la razionalità moderna smantella il potere totalizzante del mito, ma si rivela essa stessa una ragione totalitaria. Insomma, la malattia del pensiero moderno, che per Adorno è riscontrabile non solo nella secolarizzazione e quindi nell’illuminismo ma anche nell’idealismo hegeliano e di cui si trova un’anticipazione nel cristianesimo, consiste nella pretesa di voler conciliare finito e infinito in un’unica dimensione (problematica questa che richiama quella della marcusiana società unidimensionale), producendo una «proiezione distorta di uno stato pacificato, non più antagonistico, sulle coordinate di un pensiero riflessivo, espressione del dominio»[13].
Tale nuova forma di potere totalitario, radicato nella realtà esistente, produce un’assolutizzazione di quest’ultima, mascherandone le carenze razionali con schemi semplificativi, quali ad esempio, le polarità amico-nemico, potenza-impotenza, bianco-nero, espresse negli
slogan pubblicitari che si siano rivelati efficaci per l’incremento del fatturato. Questa standardizzazione coincide con il ragionare stereotipato e con il desiderio di un infinito, immutato ritornello[14]
A questo proposito è significativo notare come oggi gli slogan non siano solo di tipo commerciale ma anche politico, compresi quelli che si propongono come contestativi e alternativi, dando così origine a quel semplicistico ritornello che si configura come una vera e propria produzione di senso, misero, dell’esistente.
Vale inoltre la pena ricordare come negli stessi anni (seconda metà del Novecente) in Italia, Pasolini così descrive il fenomeno dell’omologazione, nella sua articolazione linguistica:
i centri creatori, elaboratori e unificatori del linguaggio, non sono più le università, ma le aziende [sicché non sarebbe affatto impensabile, anzi lo stiamo vivendo, un mondo] interamente occupato al centro dal ciclo produzione-consumo, che avesse come lingua la sola lingua tecnologica [e nel quale] tutte le altre lingue potrebbero essere tranquillamente concepite come “superflue” (o come sopravvivenze folcloristiche in lenta estinzione) [poiché] Il linguaggio dell’azienda è un linguaggio per definizione puramente comunicativo: i “luoghi” dove si produce sono i luoghi dove la scienza viene “applicata”, sono cioè luoghi del pragmatismo puro[15]
Parallelamente a questa oggettivazione del linguaggio, procede quella del pensiero, sicché l’uomo nella sua totalità è assorbito da questa complessiva dinamica di reificazione che lo rende incapace di trascendere lo status quo, e che si snoda lungo tutta la civilizzazione occidentale e da cui i nostri giorni non sono affatto esenti.
In questo processo, la dimensione “interiore” della mente, in cui l’opposizione allo status quo può prendere radice, viene dissolta. La perdita di questa dimensione, in cui il potere del pensiero negativo – il potere critico della Ragione – si trova più a suo agio, è il correlato ideologico dello stesso processo materiale per mezzo del quale la società industriale avanzata riduce al silenzio e concilia con sé l’opposizione. La spinta del progresso porta la Ragione a sottomettersi ai fatti della vita, e alla capacità dinamica di produrre in maggior copia fatti connessi allo stesso tipo di vita. L’efficienza del sistema ottunde negli individui la capacità di riconoscere che esso non contiene fatti che non siano veicolo del potere repressivo nell’insieme. Se gli individui si ritrovano nelle cose che plasmano la loro vita, essi lo fanno non formulando la legge delle cose, ma accettandola[16]
È inoltre interessante notare come anche per Horkheimer, similmente ad Hannah Arendt, la paura e il terrore siano funzionali a quell’atomizzazione sociale che costituisce l’humus ideale di ogni regime di controllo (post)totalitario: «Il terrore nel quale si rifugia la classe dominante è raccomandato dagli scrittori autoritari fin dal tempo di Machiavelli»[17]; un humus oggi ricostruito sotto forma di situazioni di crisi permanente, che determinano stati di altrettanto permanente angoscia.
Pur non ponendosi nell’ottica della dialettica di una progressiva degenerazione del logos, anche Jürgen Habermas ravvisa nel Novecento un momento di crisi della razionalità, investita da problematiche politiche e economiche. Nelle società liberal-capitalistiche, infatti, le crisi si manifestano sottoforma di irrisolti problemi economici di controllo sociale, causando così un’immediata minaccia per l’integrazione sociale che il capitalismo liberale persegue unicamente tramite logiche di mercato. Nella fase più matura dello stesso capitalismo liberale, questa tendenza viene estremizzata completando così la sostituzione del sistema amministrativo politico con quello economico. Sintomatico di ciò è il passaggio del potere da determinati gruppi dominanti ad anonimi soggetti privati, ed il trionfo della “ideologia della prestazione” che investe ogni ambito della vita. L’economia quindi entra nell’amministrazione, anzi diviene amministrazione, della produzione e della distribuzione di merci, causando un “deficit di razionalità”, ovvero la rimozione dall’orizzonte del pensiero di tutto ciò che risiede al di fuori della logica economica (da intendersi non meramente come crematistica, ma, latu sensu, come razionalità calcolante e strumentale). Ciò è riscontrabile, per Habermas, nella sostituzione del concetto di “senso” con quello di “valore”, nella separazione tra il diritto e la morale, in un generico common sense che è privo di ogni problematicità trascendente, riducendosi a mero utilitarismo, e nel condensarsi nell’arte (come per Marcuse) di tutti quei valori espulsi dalla società borghese. Questo deficit di razionalità, quindi, blocca la società su tutti i livelli al punto tale che, l’unico modo per superare questa impasse è quello di mettere in crisi il sistema avanzando nei suoi confronti delle aspettative per lui impossibili da soddisfare. In tal senso, la più scardinante questione (che aprirebbe la più rivoluzionaria delle crisi) ponibile al sistema è quella della richiesta di una sua legittimazione ad esistere[18]. Una simile istanza potrebbe essere soddisfatta solo in termini etici, poiché è l’etica la base di ogni possibile legittimazione, e l’etica che Habermas propone è, come è noto, un’etica “discorsiva”.
Un’etica rimane […] il fondamento della legittimazione […] Solo l’etica comunicativa assicura l’universalità delle norme lecite e l’autonomia dei soggetti agenti, unicamente con la soddisfacibilità discorsiva delle pretese di validità con cui le norme si presentano, ossia per il fatto che possono pretendersi valide solo le norme su cui tutti gli interessati si accordano […] in quanto partecipi di un discorso, se entrano […] in un processo di formazione discorsiva della volontà[19]
Se nella sua idea di partecipazione, generalizzata e con uguali possibilità, degli uomini ai processi discorsivi di formazione della volontà, l’etica comunicativa habermasiana ricorda le tesi arendtiane sullo spazio pubblico antico, tuttavia l’irriducibile differenza tra i due pensatori risiede nel fatto che Habermas rifiuta la concezione di una spontaneità discorsiva sottratta alla riflessione (il cosiddetto common sense). A questo proposito, è da notare come sia imputabile proprio ad una carenza di razionalità, il sorgere, oggi, di democrazie in cui la libertà è solo apparente. Esse infatti adottano un sistema di norme che, pur non mancando formalmente di spazi per la comunicazione, si fonda
sul timore e sull’assoggettamento alle sanzioni indirettamente minacciate, oltre che sulla pura sopportazione (compliance) determinata dalla consapevolezza della propria impotenza e dalla mancanza di alternative (fantasia imbrigliata) […] La fede nella legittimità si riduce a fede nella legalità [ma] nell’identificazione della giustizia con la legalità c’è […] una forzatura: giungeremo a designare l’essere umano giusto come colui che sa solo obbedire, esente da libertà e responsabilità: una negazione della dignità, questa, che può piacere soltanto agli “organizzatori sociali” di tutte le specie politiche che […] possono solo creare formicai umani […] La voce della giustizia chiama invece sì all’osservanza della legge, ma sempre in nome di ciò che supera la legge e di cui essa è espressione [poiché se] l’obbedienza viene elevata a virtù […] diventa un fine in sé; uno stato permanente in cui le pecore perseguono il bene sottomettendosi costantemente ai loro pastori[20]
Un’ulteriore decifrazione della modernità occidentale è stata recentemente proposta da Michael Hardt ed Antonio Negri che con una prospettiva più prossima alla teoria politica che alla filosofia morale, cui si è fatto riferimento sinora, definiscono come “Impero” quell’articolato e complesso Leviatano che amministra il controllo sociale nella modernità. È certamente opportuno delineare quindi il profilo essenziale di tale tematizzazione.
Similmente a quanto espresso dalla Arendt nel capitolo de Le origini del totalitarismo intitolato Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani, anche Hardt e Negri ritengono che nella modernità lo Stato nazione sia entrato in crisi, perdendo la propria sovranità. Ma diversamente dalla filosofa tedesca (le cui analisi sono ovviamente calibrate sullo scenario internazionale della seconda metà del Novecento) per la quale l’esito fondamentale di tale crisi è la nascita di una massa di apolidi senza Stato e dunque senza diritti, per i due autori la conseguenza più significativa derivante dalla crisi di sovranità dello Stato nazione risiede nello spostamento della sovranità stessa verso un nuovo “soggetto politico”: l’Impero.
La crisi della sovranità dello Stato nazione non ha infatti prodotto la crisi del concetto di sovranità in quanto tale, ma la sua allocazione fra una serie di organismi nazionali e sovranazionali uniti da un’unica logica di potere, originante pertanto un’unica sovranità globale. Le sue caratteristiche sono quelle di essere un sistema di controllo decentrato, deterritorializzante ed onnicomprensivo, le sue frontiere non sono infatti individuabili, cosicché esso si trova a non avere confini o limiti, né territoriali, né storici, né sociali. Territorialmente, si estende sull’intero pianeta, in modo particolare si irradia dal mondo democratico e civilizzato a quello da democratizzare e civilizzare, ovvero da “normalizzare”. Storicamente, si presenta non come un sistema transitorio, ma come l’eternizzazione necessaria di un determinato ordine delle cose. Socialmente, agisce su tutti i livelli della vita, collettiva ed individuale, amministrando le interazioni umane e la (ri)produzione della, o meglio, di una certa natura umana. La sovranità globale e assoluta di cui si è appropriato legittima, ed anzi invoca, il suo potere d’intraprendere guerre eticamente giuste, ovvero in nome della pace e dell’ordine, attraverso interventi militari che hanno ormai assunto l’aspetto di operazioni di polizia internazionale, dato che in un sistema di controllo globale ogni guerra è sempre una guerra civile, combattuta non contro “barbari” esterni, ma contro “ribelli” interni[21].
Quest’analisi si pone in continuità con i lavori foucaultiani sui concetti di biopotere e biopolitica che designano la transizione dalla società della disciplina a quella del controllo[22]. Lo scopo di quest’ultima rimane quello di dare norme alla vita, ma non più tramite meccanismi sanzionatori escludenti, bensì tramite dispositivi prescrittivi che codificano i comportamenti normali e normalizzanti e quelli deviati e devianti: tale normalizzazione non avviene tramite una manifesta imposizione di “valori”, bensì tramite la loro interiorizzazione, con conseguenti atteggiamenti e comportamenti. Tali istanze infatti, dopo essersi sedimentate attraverso una certa archeologia del sapere e genealogia del potere, vengono oggi veicolate, ricevendone una conferma di legittimazione, dall’industria della comunicazione e dello spettacolo, generando un complesso dispositivo di immagini ed idee che producono le opinioni e regolano il discorso pubblico. Non è inoltre da trascurare come tali processi siano supportati da uno sviluppo tecnologico, oggi sempre più prepotente, che, lungi dall’essere un che di neutrale, contribuisce ad una nuova definizione della condizione umana[23]. Dunque, il potere assorbe la vita e per mezzo di essa si riproduce.
Applicando tale prospettiva a quel dispositivo di controllo globale che definiscono come Impero, Hardt e Negri evidenziano come questo si avvalga nella sua opera di un risultato ereditato dagli Stati nazionali: la riduzione della moltitudine a totalità ordinata, a popolo. A tale proposito, attingendo al De Cive di Thomas Hobbes, i due autori scrivono:
“È contrario al governo civile e, in particolare, a quello monarchico, che gli uomini non distinguano bene tra popolo e moltitudine. Il popolo è un che di uno, che ha una volontà unica, e cui si può attribuire un’azione unica. Nulla di ciò si può dire della moltitudine. Il popolo regna in ogni stato, perché anche nelle monarchie il popolo comanda: infatti, il popolo vuole attraverso la volontà di un solo uomo” […] La moltitudine è una molteplicità […] Il popolo tende invece all’identità e all’omogeneità interna […] Il popolo fornisce un’azione e una volontà uniche indipendenti in conflitto con le volontà e le azioni della moltitudine[24]
Su queste basi, il popolo rappresenta tutta la moltitudine, nel senso che niente e nessuno può porsi al di fuori di esso, cioè al di fuori della sovranità imperiale del/sul popolo globale. Pertanto, le dinamiche centrifughe rispetto all’Impero vengono ricondotte in esso. A tal fine, si può osservare l’insorgere di nuovi meccanismi discriminatori.
Con il passaggio all’Impero, le differenze biologiche sono state rimpiazzate da significanti sociologici e culturali intorno ai quali si costituiscono le rappresentazioni dell’odio e della paura della differenza razziale […] Dato che la biologia è stata abbandonata nella sua funzione di supporto e di fondamento [del razzismo …] la cultura finisce per sostituirla nel ruolo che essa svolgeva in precedenza […] La figura mentale del ghetto sopravvive invincibile. Il negro sarà libero, potrà vivere nominalmente senza ostacoli la sua diversità eccetera eccetera, ma egli resterà sempre dentro a un “ghetto mentale”, e guai se uscirà da lì. Egli può uscire da lì solo a patto di adottare l’angolo visuale e la mentalità di chi vive fuori dal ghetto, cioè della maggioranza[25]
Dunque, all’interno dell’Impero vi è un pluralismo di differenze culturali (come da altra prospettiva faceva notare anche Marcuse a proposito del pluralismo della società unidimensionale) e tuttavia ad esse è permesso di esistere solo nella forma del loro assorbimento e della loro amministrazione. Per questo oggi le differenze comunitarie, economiche, etniche, religiose, sono vissute con estrema radicalità, perché rispondono alla disperata ricerca di un’identità autentica, quanto inessenziali, perché parti dello stesso omogeneo sistema che le produce.
Di fronte a tutto questo, i due autori pongono un’alternativa che si sostanzia sia di una pars destruens, critica e decostruttiva, che sovverta i linguaggi e le strutture sociali egemoni, sia di una pars costruens, ri-costruttiva, che crei una credibile ed immanente alternativa politico-sociale[26].
Nella seconda metà del Novecento Marcuse ha parlato di Grande Rifiuto, o negazione determinata, nei confronti dello status quo, vedendo in tutti i non integrati nel sistema, nei cosiddetti outsiders (che in una certa fase egli ipotizzò potessero essere i giovani e gli intellettuali), il nuovo soggetto rivoluzionario di una auspicata rivoluzione culturale, o meglio, “coscienziale” (ridefinendo così i termini-chiave del pensiero marxiano, sua base, come quelli di “classe”, “rivoluzione”, “soggetto rivoluzionario”), volta alla liberazione di uomini e cose e all’edificazione di una società “estetica”, di una “società come opera d’arte” (itinerario intellettuale che va da Ragione e rivoluzione a La dimensione estetica, passando per La fine dell’utopia e Saggio sulla liberazione).
Ricordando in una certa misura tutto ciò, i due autori ora parlano di un “rifiuto costruttivo” che si fondi non su una speranza bensì su una realistica possibilità[27], poiché è l’Impero stesso a generare
un potenziale rivoluzionario assai più grande di quello creato dai moderni regimi di potere, poiché ci mostra, accanto alla macchina di comando, un’alternativa effettiva: l’insieme degli sfruttati e dei sottomessi, una moltitudine che è direttamente, e senza alcuna mediazione, contro l’Impero [In altri termini] È solo a favore dei disperati che ci è data la speranza [28]
Non si può qui non notare come la tematizzazione del rifiuto torni nelle più significative interpretazioni della modernità.
Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali, i pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, “assurdo”, non di buon senso[29]
[1] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit. pp. 152 e 153.
[2] Ibid., pp. 4 e 161. Sul fondamentale tema della tecnica nella modernità cfr., fra gli altri, U. Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano, 2002, A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, Armando, Roma 2003 (su cui cfr. anche la mia recensione, A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica. Problemi socio-psicologici della civiltà industriale, a cura di M. T. Pansera, Armando, Roma 2003, in «B@belonline.net», n. 6, 2004 http://www.babelonline.net/public/Recensione_Gehlen.PDF ), M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1985, M. T. Pansera, L’uomo e i sentieri della tecnica, Armando, Roma, 1998 e il mio Sulla questione della tecnica in M. Heidegger, in F. Sollazzo, Totalitarismo, democrazia, etica pubblica, Aracne, Roma 2011.
[3] Ibid., pp. 97 e 98-99. Sulla dialettica dell’oggettivazione come dialettica del dominio cfr. l’ormai classico M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 1966.
[4] M. Horkheimer, Ragione e Autoconservazione, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, cit., pp. 111-112.
[5] Ibid., pp. 115 e 117. Ci porterebbe ora in un’altra direzione intavolare il seguente discorso, che per la sua importanza va perlomeno ricordato. Pier Paolo Pasolini attribuisce alla pedagogia delle cose, edonisticamente veicolata, una fondamentale funzione educativa che, nel mondo industrialmente avanzato che produce oggetti tecnologicamente avanzati, determina una vera e propria “mutazione antropologica”. Cfr. F. Sollazzo, L’ultimo Pasolini, in «Orizzonti culturali italo-romeni», n. 5, 2013 http://www.orizonturiculturale.ro/it_studi_Federico-Sollazzo.html , Id., Pasolini e la “mutazione antropologica”, in E. Pirvu (cura), Discorso, identità e cultura nella lingua e nella letteratura italiana (Atti del Convegno Internazionale du Studi di Craiova, 21-22 settembre 2012), Universitaria, Craiova 2013, pp. 419-434, Id., Brief Remarks on the Pasolini's Conception of "Anthropological Mutation", in «Café Boheme», 02/12/2012 http://www.cafeboheme.cz/?p=881 , nonché il video che riprende i temi del secondo articolo qui citato, Id., Pasolini e la “mutazione antropologica”, video-lezione di Federico Sollazzo, in «Pagine Corsare», 27/11/2012 http://pasolinipuntonet.blogspot.it/2012/11/pasolini-e-la-mutazione-antropologica.html
[6] Ibid., p. 118.
[7] M. Foucault, Bio-potere e totalitarismo, in S Forti (cura), La filosofia di fronte all’estremo, cit., pp. 77 e 95. Sui concetti di biopotere e di biopolitica gli studi si moltiplicano esponenzialmente, se da un lao ciò espone al pericolo di una moda culturale, rendere un argomento à la carte, dall’altro denota anche la centralità di tale paradigma per l’elaborazione e il completamento del senso della modernità. Tra la più recente bibliografia in materia: L. Bazzicalupo, Biopolitica, Carocci, Roma 2010, J. Butler, La vita psichica del potere, Mimesis, Milano 2013, M. Cometa, Studi culturali, Guida, Napoli 2010 (che nel paragrafo, No global: Pier Paolo Pasolini, nota come Pasolini abbia intuito e autonomamente formulato quel paradigma sociale descritto ora con la formula di biopolitica), S. Marcenò, Biopolitica e sovranità, Mimesis, Milano-Udine 2011, D. Palano, La soglia biopolitica, Aracne, Roma 2012, V. Possenti, La rivoluzione biopolitica, Lindau, Torino 2013, A. Putino, I corpi di mezzo, Ombre Corte, Verona 2011 e U. Vergari, Governare la vita tra biopotere e biopolitica, Tangram, Trento 2010. Si faccia poi sempre riferimento ai testi che hanno dischiuso e orientato il dibattito, fra i principali: G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, Id., Homo sacer, Einaudi, Torino 1995, P. Amato, La natura della democrazia, in A. Vinale (cura), Biopolitica e democrazia, Mimesis, Milano 2007, Id., (cura), La biopolitica, Mimesis, Milano 2004, W. Burroughs, Geografie del controllo, Mimesis, Milano 2001, A. Casula, Legami sociali e soggettività in Michel Foucault, UNI Service, Trento 2009, R. Esposito, Bios, Einaudi, Torino 2004, M. Foucault, Nascita della biopolitica (corso al Collège de France del 1978-79), Feltrinelli, Milano 2012, S. Forti, Biopolitica delle anime, in «Filosofia politica», n. 3, 2003, J. Revel, Michel Foucault, un’ontologia dell’attualità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003 e S. Vaccaro, Biopolitica e disciplina, Mimesis, Milano 2005.
[8] M. Foucault, Bio-potere e totalitarismo, in S Forti (cura), La filosofia di fronte all’estremo, cit., pp. 100-101, saggio già stampato come ultima parte di M. Foucault, Bisogna difendere la società (corrispondente all’ultima parte del corso tenuto da Foucault nel 1976 al Collège de France), Feltrinelli, Milano 1998,.
[9] Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione (corso al Collège de France del 1977-78), Feltrinelli, Milano 2005. A tale proposito, è interessante notare che: «Se il problema pratico, politico e filosofico attuale resta ancora quello della biopolitica, parola ambigua a cui Foucault dava un'accezione piuttosto negativa, qui si tratta di fare emergere i contorni di una biopolitica minore che si applichi a qualunque forma di vita si trovi presa nelle categorie e nei dispositivi di un potere e di una pratica che la tratta come tale – vita esposta e amministrata (…) Qualunque ambito, cioè, in cui la vita in quanto tale diviene la posta in gioco di biopoteri senza luogo. Lì e a partire da lì emerge la funzione cosciente e morale di una biopolitica minore, capace di deviare dalla biopolitica maggiore e dai suoi imperativi funzionali», P. Perticari, Allestimenti per una biopolitica minore, in Id. (cura), Biopolitica minore, manifestolibri, Roma 2003, p. 7. Altrettanto interessante è considerare come «La nozione foucaultiana di “biopolitica”, infatti, intesa come apice dell'intero pensiero occidentale [… possa determinare un “destino ontologico” in cui] qualsiasi differenza tra democrazia e totalitarismo si trova sul punto di svanire e qualsiasi pratica politica si dimostra già imprigionata nella trappola biopolitica [… al punto di dover affermare che] la Pura Vita [questa ”pura vita”, aggiungo io, quella che intende il soggetto come un animale inerme, da difendere eticamente] è una categoria del capitalismo», S. Zizek, Diritti umani per Odradek?, Nottetempo, Roma 2005, pp. 16-17 e, ultima cit., 36.
[10] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit. p. 17; su questo mi permetto di rimandare a F. Sollazzo, Per una (ri)scoperta di Herbert Marcuse, in «Prospettiva persona», n. 49/50, 2004 e Id., L’originalità del pensiero marcusiano, in «Prospettiva persona», n. 52, 2005. Il contenuto di questa citazione dà conto del perché, nell’economia del presente scritto, si siano lasciate in secondo piano le pur preziose analisi arendtiane che leggono il totalitarismo come un determinato evento storico-politico anziché come una vera e propria categoria concettuale; cfr., fra i principali riferimenti in tal senso, H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Comunità, Torino, 1999 e A. Dal Lago, Introduzione, in H. Arendt, La vita della mente, il Mulino, Bologna, 1987, nonché il mio La concezione del totalitarismo nella Arendt e in Marcuse, in «B@belonline.net», n. 5, 2004 http://www.babelonline.net/home/005/pdf/03-sollazzo-la_concezione_del_totalitarismo.pdf
[11] H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino, 1967, p. 219. È affascinante notare qui le affinità con il film di P.P. Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma, 1975.
[12] La figura di Ulisse, descritta nella Dialettica dell’illuminismo, tratteggia le vicende del soggetto moderno che si emancipa dal potere totalizzante del mito per poi, però, riprodurlo.
[13] T. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino, 1970, p. 23.
[14] T. W. Adorno, Contro l’antisemitismo, manifestolibri, Roma, 1994, p. 86.
[15] P. P. Pasolini, Empirismo eretico, Grazanti, Milano, 1977, pp. 18 e 37 e, ultima cit., Id., Scritti corsari, Garzanti, Milano, 2007, p. 17.
[16] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit. pp. 24-25.
[17] M. Horkheimer, Gli ebrei e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, cit., p. 45. Ancora in linea con la Arendt, anche per Horkheimer i germi di ciò si trovano essenzialmente nella kantiana Critica della ragion pratica, il cui imperativo categorico impedisce qualsiasi forma d’opposizione all’autorità dominante: «Secondo la Ragion Pratica il popolo deve obbedire come in una casa di disciplina con la differenza che insieme allo sgherro di qualunque potere deve avere come spinta all’obbedienza e come guardiano, anche la coscienza […] il conoscitore di Kant sa che la “morale interna” non può protestare contro il duro lavoro raccomandato da qualunque potere», Ibid., p. 46; è però da ricordare come per la Arendt questa problematica si superi nella Critica del giudizio: cfr., entrambi di F. Sollazzo, Crisi della facoltà di giudizio e modello democratico, in «B@belonline/print», e in «B@belonline.net», n. 3, 2007 (anteprima online: http://www.babelonline.net/PDF08/Sollazzo_giudizio_democratico.pdf) e La crisi della facoltà di giudizio, in Id., Totalitarismo, democrazia, etica pubblica, cit.
[18] Sul contributo di Habermas per una decifrazione della modernità cfr. F. Sollazzo, La moderna dimensione politica, in Id., Antropologia e politica, in «Lessico di etica pubblica», n. 1, 2012 http://www.eticapubblica.it/public/upload/4.sollazzo-final.pdf
[19] J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Roma-Bari, 1979, pp. 98-99.
[20] Ibid., pp. 106 e 108 e, dopo la prima parentesi, G. Zagrebelsky, L’idea di giustizia e l’esperienza dell’ingiustizia, in G. Zagrebelsky – C.M. Martini, La domanda di giustizia, Einaudi, Torino, 2003, p. 22 e, ultima cit., S. Forti, Banalità del male, in P.P. Portinaro, I concetti del male, Einaudi, Torino, 2002, p. 43.
[21] La trasformazione degli eserciti nazionali in polizia internazionale sarebbe accettabile, e forse addirittura auspicabile, se fosse la conseguenza della «stabilizzazione di uno stato di cittadinanza universale [che] comporterebbe che le violazioni contro i diritti umani non verrebbero giudicate e condannate da un punto di vista morale, ma verrebbero perseguite come le azioni criminose commesse all’interno di un qualsiasi ordine costituito [… ciò] preserverebbe il trattamento legale delle violazioni dei diritti umani da un’indistinzione giuridica e impedirebbe il brutale e immediato affermarsi di discriminazioni morali di “nemici”. Un tale scenario si potrebbe affermare anche a prescindere dal monopolio della violenza di uno stato e di un governo mondiali. Ma come minimo è necessario un Consiglio di sicurezza funzionante, la giurisprudenza vincolante di una corte di giustizia internazionale e l’integrazione dell’Assemblea generale dei rappresentanti dei governi con un “secondo livello” di rappresentanza dei cittadini», J. Habermas, Umanità e bestialità, in «Caffè Europa», n. 33, 1999. Sulla costruzione di un comune paradigma giuridico-politico di appartenenza, va ricordata la posizione di Etienne Balibar che ritiene il “costituzionalismo normativo” habermasiano ormai non più sufficiente alla costruzione di una comune dimensione inter- o sovra-nazionale, per la cui edificazione (e qui Balibar si riferisce all’Europa) non è sufficiente l’espansione dell’ordinamento democratico nazionale ma è necessario un salto qualitativo, un surplus democratico rispetto agli Sati nazione, di cui oggi si dovrebbe far carico «un’opposizione o un movimento sociale», E. Balibar, Quale democrazia per l’Europa? Una risposta a Habermas, «il manifesto», 20/09/2012 e, soprattutto, Id., Cittadinanza, Bollati Boringhieri, Torino 2012.
[22] Cfr., in particolare M. Foucault: i già citati, Bisogna difendere la società, e Nascita della biopolitica, nonché Poteri e strategie, Mimesis, Milano, 1994. Cfr. inoltre L. Bazzicalupo, Il governo delle vite, Laterza, Roma-Bari 2006, S. Catucci, Introduzione a Foucault, Laterza, Roma-Bari, 2005, H. Fink-Eitel, Foucault, Carocci, Roma, 2002 e F. Sollazzo, La concezione del biopotere in Foucault (Seminario presso la Fondazione Basso, Roma 2004), in «B@belonline.net», n. 6, 2004, riedito in «Transfinito», 06/06/2010 http://transfinito.eu/spip.php?article1530. Come è noto, questo è uno dei temi centrali della produzione di Foucault per il quale con il potere moderno «si potrebbe dire che al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte», M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 1988, p. 122.
[23] Sulla produzione delle soggettività tramite l’interiorizzazione dei modelli di dominio veicolati dai mass media e dall’industria del divertimento e, più in generale, sull’impatto sociale dei mass media, esiste una bibliografia amplissima, di cui alcuni significativi risultati sono: J.M. Besnier, L'uomo semplificato, Vita&Pensiero, Milano 2013, A. Castoldi, Congedi, Bruno Mondadori, Milano 2010, V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2007, G. Cuozzo, Gioco d'azzardo, Mimesis, Milano-Udine 2013, P.P. Dal Monte, L' allucinazione della modernità, Editori Riuniti, Milano 2013, P. Ercolani, L’ultimo Dio, Dedalo, Bari 2012, V. Musumeci, Divi a perdere, Lupetti, Milano 2010 e P. Piro, La peste emozionale, l’uomo-massa e l’orizzonte totalitario della tecnica, Mimesis, Milano-Udine 2012, oltreché gli ormai classici G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2008, U. Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 2002, A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit, C. Lasch, La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano 1988 e M. Perniola, Società dei simulacri, Mimesis, Milano-Udine 2011.
[24] M. Hardt – A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano, 2001, p. 107, sulla dicotomia moltitudine-popolo cfr. P. Virno, Grammatica della moltitudine, DeriveApprodi, Roma, 2002. Hardt e Negri criticano l’analisi arendtiana del totalitarismo imputandole di non avere colto tutto ciò ed essersi limitata alla denuncia della distruzione dello spazio pubblico democratico senza aver approfondito cosa si sia ad esso sostituito; ma, a “discolpa” della Arendt, si deve ricordare come ella legga il totalitarismo come un determinato evento storico-politico e non come una categoria concettuale.
[25] M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 182 e, ultima cit., P. P. Pasolini, Lettere luterane, cit., p. 24. Su una nuova forma di razzismo, sganciata da un’accezione biologistica di razza, cfr. E. Balibar, Esiste un “Neorazzismo”?, in I. Wallerstein – E. Balibar, Razza nazione classe, Edizioni Associate, Milano, 1996.
[26] Cfr. dei due autori i recenti Declaration, Argo News, Stockholm 2012, Il comune in rivolta, Ombre Corte, Verona 2012, Questo non è un manifesto, Feltrinelli, Milano 2012, Comune, Rizzoli, Milano 2010, Commonwealth, Harvard U.P., Cambridge 2009 e Multitudine, Rizzoli, Milano 2004.
[27] Sulla questione della realisticità dell’alternativa mi permetto di rimandare al mio Through Sartre and Marcuse: For a Realistic Utopia, in «Analele Universităţii din Craiova Seria: Filosofie», n. 31, 2013, pp. 90-100 http://cis01.central.ucv.ro/analele_universitatii/filosofie/2013/Anale31.pdf
[28] M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 364 e, ultima cit., H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 266 (cit. di Walter Benjamin, ivi).
[29] P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano, 1999, pp. 1723-1724.
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