lunedì 30 novembre 2009

L’altra estremità dei sogni

di Erwin de Greef (erwindegreef@libero.it)

corre la notte

ubriaca
con il
vino bianco nel
bicchiere
trasparente e
giallo. ecco,
che mi ritrovo
per le strade della
mia città, una notte
umida
col cielo
nero
di tristi nuvole
memorie calpestate
marciapiedi sgangherati
in mezzo a pochi altri
vagabondi
fasciati nelle loro
giacche con
gli occhi gin & tonica di
Lele pensieroso
per sua moglie
al nono mese a casa
da sola
il pollo arrosto nel
cartoccio con
le patatine
fritte e la pelle
rosolata.
la stranezza di
questa notte
con la tromba di Charley
Parker, le cartine
che rollano
il vino che gira,
le parole che
muoiono spezzate
sul crinale
della nostra
solitudine.
c’è una ragazza
con lunghe ciglia
tristi
carnagione bianca
capelli
neri occhi neri
è la mia
Maria Maddalena
il corpo sacrificale
di questa notte amica
stretta tra
le braccia
dentro il
suo mistero. in
questa città
in questo locale
e poi un
altro e ancora un
altro per poi, alla fine,
ritornare indietro e
scoprire
che Lele non c’è più, che se
n’è andato
lasciando i suoi
occhi gin & tonica
sul tavolino
d’alluminio insieme a un
pacchetto di sigarette
vuoto e
accartocciato
con la scritta
incomprensibile
e nera come
questa notte sotto
il cielo ruvido
di nuvole. la notte rulla
il fumo e
macina l’eroina con
i ragazzi ubriachi
che urlano sul ciglio
della strada. amo
questa notte con
Miro che mi racconta
dei due
anni che non ci siamo
incontrati,
non ci siamo parlati. no,
non ho rispettato
questa santa amicizia.
la ragazza che è
con me adesso ha le
guance rosse ed
è vera
carne e ossa
con occhi tanto neri
da commuovermi.
mi accarezza le mani con
dita calde e sensuali.
scivola questa
notte senza gelo
con le sciarpe annodate
i guanti che ci fissano
da lontano. in
questa notte i lampioni
per le strade
sono vuoti fantasmi
di un antico Palazzo
imperiale vicino
alla Cattedrale. io
guardo quegl’occhi
tagliati e neri
che reggono tutto
il peso dell’Universo.
mi cade la sigaretta mentre
Miro mi
abbraccia e sorride,
ride ubriaco di birra,
canta la nostra amicizia
col cappello a tre
quarti, la barba incolta,
il loden blu
notte. comincia a piovere
ho ancora un bel po’
di strada da fare col
mio carico d’alcool nelle
vene e non voglio nemmeno
ripararmi sotto i
cornicioni
mi bastano il calore dell’
abbraccio di Miro
e le labbra umide di
questa ragazza siciliana a
lavare tutto il veleno
nel mio cuore.
tiro avanti per la strada
sotto la pioggia scrosciante
in questo lunedì da
incorniciare alla
ricerca
dell’altra estremità
dei sogni. questa
notte
pallida
lenta
maestosa
è venuta a
salvarmi
mentre la porta di
casa s’apre
pigramente e
c’infiliamo
sotto le lenzuola
le coperte e il
piumone
rannicchiati in
un sonno senza fine
sotto questa pioggia
battente.

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venerdì 27 novembre 2009

Giornalismo sul Web: ipertestualità e multimedialità

di Grazia Calanna (graziacalanna@lestroverso.it)

“Il quotidiano online è quello che raccoglie in tempo reale, contestualmente alla pubblicazione delle sue notizie, le impressioni e le opinioni dei lettori. Un processo del farsi dell’informazione che cancella totalmente qualsiasi autorità precostituita, che sottopone a verifica costante qualsiasi affermazione, che modifica i dati del gioco mentre questo è in corso e che dà a chi legge, diventato consumatore cliente, la possibilità di accedere ad altre e altrettanto importanti fonti di informazione, tutte raccolte sotto la testata del giornale. Un giornale prodotto direttamente in forma elettronica"(1). Numerose ricerche sulle caratteristiche del pubblico dei giornali online dimostrano che Internet torna a valorizzare il testo, che si presenta come una malta per tenere insieme e organizzare l’ipertestualità e la multimedialità. Per alcuni versi, si può affermare che Internet ha riportato il giornalismo indietro, fino alle origini, e la prova giunge dalla riapertura del dibattito circa il significato della professione sotto tutti gli aspetti (tecnici, etici, contrattuali, editoriali). Si è spesso pronosticato che la diffusione dei media telematici avrebbe portato a un progressivo declino della scrittura. La stato attuale delle cose contraddice le pessimistiche previsioni. Di fatto, i media telematici hanno accresciuto le occasioni di produzione e consumo dei testi scritti innescando un processo di rinnovamento della scrittura che tende ad assumere forme nuove, tanto dal punto di vista linguistico che strutturale e informativo. La scrittura per il web si caratterizza per una certa tendenza alla commistione di tratti tipici delle modalità comunicativa, orale e scritta. La stessa si mantiene a un livello di formalità media e manifesta caratteristiche più prossime a quelle tipiche dei testi scritti che non di quelli orali. Nei testi giornalistici, esclusi alcuni articoli di costume, si evita il ricorso a forme linguistiche che puntino direttamente all’autore. L’uso di verbi alla prima persona singolare e delle relative forme pronominali è assente. Diverso è il caso dei testi di argomento tecnico, in cui la relazione tra autore e lettore può divenire linguisticamente trasparente. In questo caso, la retorica della partecipazione prevede che si impieghi sia la prima persona singolare in contrapposizione con la seconda plurale (io che scrivo – voi che leggete), sia un noi che potremmo chiamare “sinergico”(2). Va precisato, comunque, che la lingua dei quotidiani online deve molto a quella dei quotidiani cartacei ai quali, tranne rare eccezioni, sono strettamente collegati. Immediatezza, aggiornamento continuo delle informazioni, ipertestualità, chiarezza e brevità. Sono queste alcune delle caratteristiche strutturali e linguistiche specifiche del mezzo. Certo è che la necessità di scrivere e aggiornare rapidamente i pezzi determina la presenza di numerosi refusi e incoerenze linguistico-testuali che, a volte, tendono ad abbassare la percentuale di leggibilità.
Dal punto di vista dell’organizzazione della pagina, lo spazio a disposizione per presentare la notizia, contrariamente alle convinzioni comuni sulle dimensioni sconfinate del web, è molto limitato, con l’esigenza di asciugare al massimo la scrittura, finendo col proporre un’esposizione del fatto sostanzialmente coincidente con il modello delle 5 W. Soprattutto nel giornalismo italiano, tradizionalmente portato a preferire uno stile di scrittura paraletterario, il ritorno alla formula reporting rappresenta un rilevante cambio di prospettiva. Il giornalismo online preferisce notizie ancorate all’avvenimento e alla scrittura oggettiva. Il web ha fatto emergere un modello di unità di base del giornalismo, la notizia online, costruita intorno a quattro concetti principali: capacità di sintesi, precisione del fatto, chiarezza espositiva e suggestione dell’approfondimento(3).
Internet impone la brevità, senza preconcetti. Non è vero che nel web la gente cerca solo pillole d’informazione. Anzi, se c’è la qualità anche la quantità è apprezzata. Ai livelli profondi dell’ipertesto occorre un gran lavoro di sintesi e di ricerca dell’espressione più semplice e forte. È il nuovo modo di leggere che condiziona il nuovo modo di scrivere(4). Ciascuno dei generi della scrittura online (posta elettronica, sito aziendale, web-zine o web magazine, e-zine o newsletter tematica, portale, weblog) richiede competenze specifiche. Tutti, però, ne richiedono due fondamentali: costruire ipertesti e scrivere in termini visivi. Il sociologo Theodor Holm Nelson descrive l’ipertesto come una “Combinazione di un testo in linguaggio naturale con la capacità del computer di seguire interattivamente, visualizzandole in modo dinamico, le diverse ramificazioni di un testo non lineare che non può essere convenientemente stampato su di una pagina convenzionale”(5). Non è un caso che si dica costruire, e non scrivere ipertesti. Costruire, perché un testo per il web richiede una progettazione ancora più accurata di quella di un testo destinato alla stampa. Sul web il testo acquista una nuova dimensione: si espande in profondità, anziché in lunghezza. L’unità di misura non è più la pagina. I “blocchi di testo” diventano “blocchi di lettura” che, attraverso i link di collegamento, permettono al lettore di ricevere una grande quantità d’informazioni. Passare dalla scrittura lineare alla scrittura profonda e sfruttare tutte le potenzialità dell’ipertesto, non significa solo disarticolare un documento in tanti pezzi e poi riunirli, di schermata in schermata. Significa, inoltre, chiedersi chi è il lettore, cosa vuole sapere e in quale sequenza, quale priorità attribuisce alle informazioni, con quale ritmo vuole soddisfare la sua sete di conoscenza. Prima di scrivere, dunque, è necessario organizzare le informazioni su diversi livelli e collegarle per mezzo di link. Questo lavoro di progettazione e di organizzazione è il compito fondamentale dello scrittore online. In questa rivoluzione dello spazio, saper condurre il lettore nei labirinti ipertestuali, senza fargli perdere l’orientamento, significa saper coniugare libertà e rigore, irregolarità e regolarità, facendo ricorso a diverse strategie. Tra queste particolarmente importante è quella della piramide rovesciata. E’ necessario cominciare dalla conclusione, dalla notizia vera e propria, per scendere, via via, in maggiori dettagli proprio come avviene nelle prime pagine dei giornali: titolo, foto, occhiello, sommario, didascalia, inizio articolo, rimando alla pagina interna. Altrettanto importane è scrivere in termini visivi. Ancora più che sulla carta, nel web il formato è parte integrante del processo di scrittura. Testi, grafica e impaginazione vengono concepiti insieme. L’unione tra parola e immagine è una sfida intrigante per lo scrittore che, abituato a pensare in bianco e nero, deve imparare a lavorare in termini visivi: scegliere le parole pensando allo spazio in cui abiteranno, ai colori, ai caratteri, ai fondi che andranno a scolpire, al filo di memoria che riusciranno a tenere dopo tre o quattro click. La grafica studiata per il web, libera e senza canoni prestabiliti, ha sconvolto le convenzioni della grafica tradizionale, mescolando gli stili, le idee, e premiando aspetti quali la semplicità e la chiarezza, anziché l’eleganza e la distinzione(6).
Internet ha prodotto quattro mutamenti fondamentali del giornalismo. Dall’esterno, ha fatto pressione sulle redazioni rendendo disponibili informazioni dettagliate su moltissimi soggetti, persino documenti considerati non pubblicabili. Ha reso possibile una gestione degli approfondimenti facilitata dallo stoccaggio di grandi quantità di materiali informativi. Ha trasformato il peso e il numero delle notizie in una massa critica, che modifica la percezione degli avvenimenti facendoli intendere non più come singole disfunzionalità ma come problemi cronici di sistema. Il tutto, mettendo in campo reti di comunicazione che hanno aumentato le possibilità di interagire, dando facilmente voce a chi ha qualcosa da dire su specifici argomenti. Il problema chiave per un giornalista web è quello della selezione. Chi naviga su internet sosta, mediamente, su una singola pagina non più di venti secondi. Per il giornalismo online questo fenomeno si riflette sulla capacità di valutare la notizia dal punto di vista della rilevanza del fatto, dell’incisività espressiva, della sinteticità dei contenuti. Nella maggioranza delle testate, il lavoro redazionale è svolto, quasi esclusivamente, attraverso l’assemblaggio di flash d’agenzia, materiali d’archivio e rinvii alle altre risorse della rete(7). Internet rappresenta uno strumento indispensabile per il lavoro giornalistico non solo per l’offerta informativa che mette a disposizione ma, soprattutto, per la velocità con cui la fornisce. Riguardo alle fonti, anche per il web, vale la distinzione classica tra primarie e secondarie. Tutte le istituzioni hanno un proprio sito. Quelli forniti sono dati ufficiali, la cui credibilità è strettamente legata alla struttura di riferimento. La disponibilità di queste informazioni consente un lavoro di maggiore precisione e completezza. Una documentazione enorme, un grande archivio, cui il giornalista può attingere alla ricerca di elementi importanti, spesso, nascosti dietro le parole. Esistono poi i siti da considerare fonti secondarie. Privi di autorevolezza ufficiale ma portatori di notizie, indiscrezioni, tutti da vagliare e il cui utilizzo coinvolge direttamente la responsabilità di chi ne fa uso. Un esempio tipico è quello del blog o diario digitale che registra eventi in ordine cronologico. Il fenomeno, lo ricordiamo, nasce negli Stati Uniti all’inizio del 1999. In Italia si manifesta nel 2001 con la nascita di blog.it. Un anno dopo, nel mondo, si contavano quasi un milione di blogger. Dopo l’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York e con la guerra in Iraq del 2003, i blog hanno conosciuto uno sviluppo continuo perché sono diventati i luoghi in cui leggere testimonianze dirette e storie inedite. Un personal jornalism che ha visto protagonisti attivi gli stessi militari del fronte, raccontanti in diretta quanto accadeva attorno a loro(8).
Dopo aver parlato delle fonti, non si può concludere senza ricordare che un altro “problema” del giornalismo online è quello della credibilità. Steve Outing, direttore di “Conten Spotlight”, sito specializzato sulla scrittura di prodotti editoriali per il web, propone alcune regole per migliorare l’impatto sull’opinione del lettore(9). Sarebbero sette le regole di trasparenza per l’editoria in rete: il prestigio della testata, che fa leva sul rapporto fra edizione cartacea e edizione online; la presentazione del giornalista che firma l’articolo, con link diretto alla sua biografia; la proprietà del sito, da presentare nella pagina “Chi Siamo”, direttamente raggiungibile da tutte le pagine del sito; la pubblicazione della linea politica del giornale; la possibilità di trovare e scaricare il codice etico; la professionalità delle risorse impiegate; la disponibilità a pubblicare rettifiche, sfruttando la tempestività di intervento consentita da Internet.

1) Alberto Berretti – Vittorio Zambardino, Internet. Avviso ai naviganti, Donzelli, Roma 1995.
2) Ilaria Bonomi – Andrea Masini – Silvia Morgana, La Lingua Italina e i Mass Media, Carocci, Roma 2003.
3) Alberto Papuzzi, Professione Giornalista, Donzelli, Roma 2003.
4) Alessandro Lucchini, Content Management, Apogeo, Milano 2002.
5) Domenico Fiormonte – Ferdinanda Cremascoli, Manuale di scrittura, Bollati Boringhieri, Torino 1998.
6) Alessandro Lucchini, Manuale di Relazioni pubbliche, IULM – The McGraw-Hill Companies, Milano 2001.
7) Alberto Papuzzi, Professione Giornalista, Donzelli, Roma 2003.
8) Giuseppe Farinelli – Ermanno Paccagnini – Giovanni Santambrogio – Angela Ida Villa, Storia del giornalismo italiano. Dalle origini ad oggi, UTET, Torino 2004.
9) Alberto Papuzzi, Professione Giornalista, Ed. Donzelli, Roma 2003.


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mercoledì 25 novembre 2009

“Il Bello musicale” in Hanslick

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Colui che ha talento musicale è spinto a creare un pezzo da un canto interiore e non da un sentire interiore puro e semplice.
E. Hanslick, Il Bello musicale

Nel 1854 viene pubblicato per la prima volta Il Bello musicale di Eduard Hanslick, il testo verrà poi continuamente ampliato dall’autore sino alla sedicesima edizione. Quest’opera contiene un elemento fondamentale di tutta la riflessione musicologica di Hanslick: l’idea che la musica, nonostante possa suscitare dei sentimenti, non li possa esibire, non li possa descrivere.
La musica, secondo Hanslick, utilizza degli strumenti specifici (l’eufonia, il ritmo, le note, la melodia, l’armonia, i timbri) per esprimere delle “idee musicali”, delle “forme sonore in movimento” che risiedono nella fantasia del compositore e che, lungi dall’essere una descrizione di qualcosa (neanche, come spesso si crede, di sentimenti), rappresentano una metafora che allude a qualcosa che non è di questo mondo e che, pertanto, non è né dicibile né razionalmente comprendibile, ma intuibile grazie all’allusione metaforica della musica.
In base a questa impostazione l’ascoltatore deve allora porsi in una condizione di “ricezione estetica” e non “patologica”. Quest’ultima la si ha quando nella musica si cercano dei contenuti concettuali che dovrebbero produrre degli “effetti morali”, quando, perciò, si considera la musica solo come uno strumento per tendere ad uno scopo esterno alla musica stessa; la ricezione estetica, invece, la si ha quando, a partire dalla consapevolezza che la musica non contiene concetti né esibisce sentimenti, ma è allusione, a partire dalla fantasia dell’artista, ad una dimensione altra, che si può solamente intuire (non essendo traducibile nei linguaggi del logos), la si ascolta unicamente per se stessa: «Un pezzo è udito e goduto veramente solo da colui che ne riporta non solo un’impressione generale sul sentimento, ma anche un’intuizione indimenticabile determinata proprio da quel dato pezzo» (E. Hanslick, Il Bello musicale, Aesthetica, Palermo 2001, p. 99).

("Periodico Italiano webmagazine", 10/11/2009)


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lunedì 23 novembre 2009

Musica e Filosofia

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Sono molti i pensatori contemporanei che hanno riflettuto sul rapporto fra arte e filosofia, solo per menzionare alcuni fondamentali passaggi, da Giovanni Gentile (La filosofia dell’arte) a Martin Heidegger (L’origine dell’opera d’arte), dall’idea di “chiasma” (unione di bellezza e verità) in Walter Benjamin alle riflessioni di Herbert Marcuse sul valore “sociale” dell’arte. Pur nelle ovvie differenze, in queste riflessioni è presente una sorta di comune leit motiv: quello di porre arte e filosofia non in un rapporto gerarchico fra di loro, ma in una relazione paritaria, nella quale risultano essere sfumati i rispettivi confini.
Non c’è quindi da stupirsi se alcuni pensatori, convenzionalmente passati alla storia come filosofi, si siano dedicati alla composizione musicale. Solo per fare alcuni esempi: Jean-Jacques Rousseau (che con il “melagogo” va alla ricerca di un nuovo genere musicale che sintetizzi strumenti e voce), Friedrich Nietzsche (che nei suoi “Lieder” vuole mostrare come sia la musica a scegliere la parola, che viene sempre travolta dalla musica stessa), Theodor W. Adorno (in cerca di un nuovo equilibrio “dialettico” fra compositore/musicista e musica). Ma, al di là delle rispettive specificità, è fondamentale cogliere come il trait d’union di queste riflessioni e di queste esperienze compositive risieda nel ritenere l’autentica filosofia, l’arte, in generale, e la musica, in particolare, come delle manifestazioni di avvicinamento a ciò che, nella sua essenza, rimarrà sempre indicibile, inesprimibile, ineffabile, palesando, quindi, i limiti della conoscenza umana, che solo attraverso istantanee intuizioni può percepire l’Assoluto.

("Periodico Italiano webmagazine", 06/11/2009)

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martedì 17 novembre 2009

Alterità

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Il tentativo di definire le nuove responsabilità dell’uomo moderno, testimonia l’inquietudine e lo spaesamento di un epoca (la nostra) che fa seguito al decentramento del cogito, alla “morte di Dio” ed al politeismo dei valori. Ma proprio la tematizzazione di tali nuove responsabilità rende chiaro come esse non vadano assunte da un soggetto auto-referenziale (che si confronta solo con se stesso), bensì in relazione alla categoria di alterità, sia oggettiva (la natura e le cose) che soggettiva (il prossimo). Così, le grandi questioni filosofiche si allontanano da quella teoria della conoscenza, centrale nella modernità, imperniata sull’egemonia dell’ego cogito, e si riconfigurano attorno alla questione della relazione all’alterità; è quindi nell’ambito di tale relazione che devono essere rintracciate le nuove (co-)responsabilità dell’uomo. All’interno di tale orizzonte etico, il soggetto non appare più come un io auto-fondantesi, bensì come un già costituito ed inserito in un mondo di rapporti già istituiti, non creati da lui, ma ai quali è chiamato a corrispondere, anche con il silenzio dell’ascolto; è solo nell’ambito di tale paradigma che il soggetto può tendere alla felicità, individuale e collettiva. Si passa così dalla relazione teoretica, tipica della modernità occidentale, che con il medium della conoscenza(1) lega l’ego all’alter ego, alla relazione etica che tramite il medium della cura unisce il agli altri da sé. Per questo, vi sono pensatori (in particolar modo Emmanuel Lévinas, Paul Ricœur e Jacques Derrida) che, criticando ma non rifiutando la tradizione di pensiero di cui l’Occidente è erede, focalizzano la loro attenzione non tanto sullo statuto delle responsabilità dell’uomo moderno (come è, ad esempio, in Hans Jonas), quanto sul modus grazie al quale gli uomini si relazionano, costruendo (quasi come un effetto collaterale) in e per tali relazioni, quelle responsabilità.
L’etica appare, così, non come un insieme di regole procedurali, ma come una modalità di decifrazione dei rapporti fra gli uomini, approdante al rifiuto di qualsiasi forma di lotta per il riconoscimento e di logiche utilitaristiche, che troppo spesso risolvono i nodi politico-morali con la schematica concessione di vantaggi per i meno avvantaggiati, ed esortante alla loro sostituzione con un sentimento di rispetto disinteressato per gli altri, riassunto da quel “comandamento dell’amore” che

è il comandamento che precede ogni Legge è la parola che l’amante rivolge all’amata: ‘Amami’ […] contiene le condizioni della sua propria obbedienza grazie alla tenerezza dell’esortazione ‘Amami’(2)

Per tale via appaiono, inoltre, superabili i termini del conflitto etico-politico contemporaneo fra comunitaristi e liberalisti, fra differenza dei valori e universalismo delle norme, che rischia di rimanere sterile in quanto

l’universalismo astratto ed estrinseco non è capace di valorizzare adeguatamente le diversità; il contestualismo si autoconfina invece in un particolarismo che non sa andare oltre se stesso, in quanto le diversità, benché apprezzate, non riescono a interloquire fra loro(3)

Sono queste le problematiche che con Lévinas possono essere superate, sostituendo la soluzione “egologica” husserliana al problema dell’intersoggettività, con la questione dell’alterità(4). Lévinas infatti imputa ad Edmund Husserl l’avere affrontato il problema dell’intersoggettività attraverso la categoria dell’ego cogito che, inevitabilmente, può cogliere l’altro solo come alter ego, ma così facendo, l’ego rimane il momento originario e costituente del mondo e degli altri, rispetto al quale l’alter appare inizialmente con i caratteri dell’estraneità(5). Contestando il “narcisismo del cogito” ed il mito dell’interiorità della coscienza, Lévinas si concentra sull’esteriorità dell’assolutamente altro, emergente dal volto, volendo però liberare la relazione con il volto dell’altro dalla dialettica del riconoscimento, tipica della modernità occidentale(6). Per questo l’altro non è, per Lévinas, descrivibile come alter (io estraneo), ma come autrui, pronome indefinito, riferibile solo alla persona, espressione quindi indicante la presenza di qualcun altro, ma senza la pretesa di identificarlo inserendolo nelle categorie abituali del nostro pensiero:

l’espressione francese autrui, pronome indefinito invariabile, che rifiuta in ogni caso l’articolo, sia quello determinativo che quello indeterminativo, indica nel francese corrente l’altro uomo, l’altro uomo in quanto tale, in quanto differente da me, in definitiva, il prossimo, come oggetto di considerazione giuridica o morale(7)
Il pronome autrui permette a Lévinas di descrivere una relazione con il prossimo alternativa a quella

relazione con l’essere, che si esplica come ontologia, consiste(nte) nel neutralizzare l’essere per comprenderlo o per impossessarsene. Non è quindi una relazione con l’altro in quanto tale, ma la riduzione dell’Altro al Medesimo […] l’ontologia, come filosofia prima che non mette in questione il Medesimo, è una filosofia dell’ingiustizia(8)

Riduzione che rimane una costante anche dell’ontologia heideggeriana, che subordina la relazione con gli altri, alla relazione con l’essere:

l’essere prima dell’ente, l’ontologia prima della metafisica, cioè la libertà (sia anche quella della teoria) prima della giustizia. E’ un movimento nel Medesimo prima dell’obbligo nei confronti dell’Altro(9)

Ora, il fatto che Lévinas critichi la forma di fondamento autocosciente di ogni sapere e potere, assunta nella modernità dalla soggettività umana, non significa che egli rifiuti la questione della soggettività, ma che voglia declinarla in una forma non egocentrata, bensì esposta all’evento dell’altro. Una rilevante conseguenza di tale “riorientamento etico” consiste in una diversa concezione della responsabilità che, da libero atto di volontà, diviene risposta all’appello proveniente da autrui. In questi termini, essendo la responsabilità una risposta data all’Altro, essa si colloca immediatamente in un contesto intersoggettivo, caratterizzabile come “paradigma della cura” (alternativo al “paradigma dei diritti”), nel quale l’Altro, anziché ridursi al Medesimo, mantiene la propria differenza, e nel quale la “morale del debito” viene abbandonata a favore dell’“etica del dono”, tipica delle cosiddette relazioni “deboli” quali l’amore, l’amicizia, la fraternità, l’accoglienza e l’ospitalità, da Lévinas esemplificate in figure quali l’orfano, la vedova, l’ostaggio («Altri, che mi domina nella sua trascendenza è anche lo straniero, la vedova e l’orfano verso cui ho degli obblighi»(10)). Siamo qui di fronte ad una innovativa prospettiva etica, in quanto

Il patto è un accordo di interessi […] Soltanto nel dono c’è una anticipazione assoluta. Se l’etica si costruisce solo sul patto, in fondo è motivata dall’interesse. Lo scatto più grande è essere disponibili all’altro. E questo è il dono. E c’è una parola che lo contrassegna, che si chiama “amore”. Il culmine dell’etica è la capacità di amare(11)

Per realizzare ciò, è però necessario porre al centro della riflessione etica non la libertà, ma la giustizia, intesa come ineludibile condizione di ogni relazione all’alterità, infatti


La relazione di alterità è la dimensione fondamentale dell’etica […] E allora la domanda etica diventa: qual è la giusta relazione con l’altro? […] (ed a sua volta) la giustizia, come la non prevaricazione, è il dare ad ognuno come dicevano i latini – quello che è suo, in una equa spartizione dei beni e delle risorse […] Una delle ragioni fondamentali per cui si scatena nel mondo la violenza è l’ingiustizia(12)

Tuttavia, l’esigenza di riorientare l’etica in direzione della giustizia, può essere compresa solo partendo da una nuova concezione dell’io. La questione dell’alterità, infatti, rende evidente che l’ego si costituisce nell’ambito di una relazione con l’alterità stessa, relazione che, nella prima fase del suo pensiero, Derrida chiama différance(13), intendendo con tale termine non una differenza destinata ad essere dialetticamente assorbita e superata in un momento successivo e superiore, ma l’affermazione positiva di un’esistenza insuperabile nella propria singolarità.

A questo proposito, risulta illuminante il percorso filosofico compiuto da Ricœur nella seconda metà del Novecento(14). Egli, rielaborando l’eredità speculativa dei “maestri del sospetto” Karl Marx, Friedrich Nietzsche e Sigmund Freud, propone la concezione dell’io come identità narrativa che riesce ad autocomprendersi, a trovare una sua ipseità, solo nel confronto con gli altri, strutturandosi infine in una forma di soggettività descrivibile come un “Sé come un altro”. Il filosofo francese, infatti, rileggendo Freud, giunge ad una concezione del sé come contemporaneità di essere ed atto, di pensiero e concretezza:

La riflessione non è tanto una giustificazione della scienza e del dovere, quanto una riappropriazione del nostro sforzo per esistere; di questo compito più vasto l’epistemologia è solo una parte: dobbiamo recuperare l’atto di esistere, la posizione del sé in tutto lo splendore delle sue opere […] La filosofia è etica, ma l’etica non è puramente morale […] Il suo scopo è di cogliere l’ego nel suo sforzo per esistere, nel suo desiderio di essere(15)

Viene così sostituita alla semplicità irriflessiva ed immediata del cogito, la ricchezza delle forme concrete nelle quali il sé si oggettiva nel mondo e le loro possibili interpretazioni (in termini teoretici, Ricœur abbandona qui gli strumenti concettuali heideggeriani, passando a quelli lévinasiani(16)). Questa particolare concezione del sé, viene riassunta nell’espressione “metafora viva”, indicante la commistione fra creatività filosofica e realtà concreta: la metafora offre la possibilità di avere una nuova visione della realtà, “torcendo” (giocando con) il linguaggio, così da poter ridescrivere il mondo, aprendolo a nuovi progetti. La metafora può, dunque, invogliare a riplasmare la realtà, in tal modo, la riflessione filosofica ha uno specifico carattere pratico. Ora, nonostante il fatto che il parallelo con la teoria critica francofortese, sulla necessità e sulle modalità del riorientamento sociale, sia qui immediato, la specificità del pensiero ricœuriano consiste nel non essere più rivolto al cogito, ma al sé, il quale si costituisce in una relazione all’alterità non più modellata sulla dialettica servo/padrone, ma sulla scoperta di forme di alterità interne allo stesso sé, ovvero

è necessario che l’irruzione dell’altro, spezzando la chiusura del medesimo, incontri la complicità di questo movimento di eclissi attraverso cui il sé si rende disponibile all’altro da sé(17)

Nell’amicizia, Ricœur, rintraccia la chiave per avviare tale complicità, disponibilità; l’amicizia è infatti una relazione di reciprocità, nella quale a ciascuno è nota l’identità dell’altro, ma nessuno tende all’annullamento della stessa. Ora, tali considerazioni sono propedeutiche ad un ampliamento del respiro del discorso ricœuriano che, infatti, basa su di esse l’etica, intesa come l’aspirazione a «vivere bene con e per gli altri all’interno di istituzioni giuste»(18), distinguendola dalla morale, intesa come una somma di norme costrittive. Tuttavia, il primato dell’etica sulla morale non deve condurre al rifiuto di quest’ultima, anzi, etica e morale, universalismo e contestualismo, devono essere tenute insieme (pur sempre in un rapporto gerarchico) da quella “saggezza pratica”, che può dare forma alla giustizia e, dunque, alla “vita buona”. Quindi, se il primo grande ambito di riflessione è quello relativo alla nostra “sensibilità” ed ai rapporti personali su di essa basati, per evitare il rischio che, come nelle tragedie del XX secolo «lo spirito di un popolo è pervertito al punto da nutrire una Sittlickheit assassina»(19), il successivo nucleo teorico deve riguardare l’applicazione istituzionale dell’etica, non solo nel campo della politica, quanto, soprattutto, in quello del diritto. Infatti

l’oggetto principale della nostra cura era il legame fra etica e politica, mentre rimaneva una impasse sullo statuto specifico del giuridico […] per quanto meravigliosa possa essere la virtù dell’ amicizia, essa non è in grado di assolvere ai compiti della giustizia e nemmeno di generarla quale virtù distinta. La virtù di giustizia si stabilisce su un rapporto di distanza dall’altro, altrettanto originario del rapporto di prossimità con l’altro, offerto dal suo volto e dalla sua voce. Questo rapporto all’altro, se possiamo osare, è immediatamente mediato dall’istituzione. L’altro, nell’amicizia, è il tu, l’altro, nella giustizia, è il ciascuno, come viene significato dall’adagio latino: suum cuique tribuere, a ciascuno il suo(20)
Insomma, Ricœur punta ad integrare la “poetica dell’amore” con la “prosa della giustizia”:

In effetti, senza il correttivo del comandamento d’amore, la Regola d’oro (la giustizia che, pur incarnandosi in giurisprudenza, resta sempre eccedente rispetto a quest’ultima) sarebbe continuamente forzata nel senso di una massima utilitaristica (come, per Ricœur, avviene in John Rawls, che riduce la società ad un’impresa di distribuzione di beni), la cui formula sarebbe do ut des(21)

Solo una reciprocità non utilitarista consente di amare l’altro come se stesso, applicando così il concetto aristotelico di philautía, inteso non tanto in senso limitativo (delle pulsioni negative) quanto in forma attiva, non solo all’amicizia ma anche al senso di giustizia, infatti

attraverso la reciprocità l’amicizia è congiunta alla giustizia […] in Aristotele stesso l’amicizia fa da transizione fra la prospettiva della ‘vita buona’ […] virtù apparentemente solitaria, e la giustizia, virtù di una pluralità umana di carattere politico […] il tratto, che a lungo sembra avvalorare quella che pare proprio una raffinata forma di egoismo, sotto il titolo di philautía, finisce per sfociare, in modo quasi inatteso, sull’idea che ‘l’uomo felice’ ha ‘bisogno di amici’. L’alterità ritrova, così, quei diritti che la philautía sembrava dover occultare […] Il versante ‘oggettivo’ dell’amore di sé farà sì che la philautía – che di ciascuno fa l’amico di se stesso – non sia mai predilezione non mediata di se stessi, ma desiderio orientato al riferimento del buono(22)

Simili problematiche etico/politiche vengono prese in considerazione anche da Derrida, a partire dalla necessità di un ripensamento delle istituzioni politiche che, nate in un contesto nazionale o continentale, sono oggi chiamate ad agire su scala globale, a rispondere responsabilmente a domande di respiro mondiale(23). Per Derrida, l’ a-venire, è il frutto della risposta che, nel presente, diamo all’eredità di cui siamo portatori, ma la risposta che, in chiave antropologica, la filosofia moderna ha dato(24), consiste nella descrizione dell’uomo come di un essere calcolabile, conseguentemente anche la morale è divenuta una faccenda di contabilità, nella quale una colpa origina un debito. Alternativamente alla “morale del dovere”, delle obbligazioni, Derrida propone un’“etica del dono”, nella quale i temi dell’amicizia, dell’ospitalità, della giustizia, dei diritti umani e del cosmopolitismo vengono definiti come delle vere e proprie relazioni etiche di risposta all’appello dell’altro, eccedenti qualsiasi norma, codice o calcolo di costi e benefici. L’etica del dono rappresenta quindi un superamento della dialettica del riconoscimento, tipica della ragione calcolante che conosce l’altro solo identificandolo secondo le categorie della propria razionalità, ed una conseguente sopportazione dell’aporia del non sapere sull’altro; in altri termini, si tratta qui di un

rifiuto ontologico del tradizionale soggetto forte, del cogito della filosofia occidentale […] (con conseguente presa di posizione) nei confronti delle strutture politico-istituzionali che costituiscono e regolano il nostro lavoro, le nostre competenze e le nostre prestazioni […] (elaborando così) una nuova problematizzazione della responsabilità, problematizzazione che non necessariamente prende per buoni i codici ricevuti dal politico e dall’etico(25)

In questi termini, la giustizia si configura innanzi tutto come una “legge di giustizia” che, senza comandare ed ordinare nulla di particolare, indica verso un senso di ospitalità, scardinante i vincoli e i limiti identitari; essa rappresenta «lo spirito di ciò che orienta o fonda il diritto»(26).
Esiste però una problematica, inerente all’applicazione della legge di giustizia alla pratica politica: tale applicazione può infatti avvenire solo tramite delle leggi condizionate, le quali generano il rischio di un decadimento del senso della legge di giustizia in mere considerazioni economiche, calcolanti (come oggi spesso accade). Si impone così la necessità di articolare un diverso pensiero politico, originante una nuova democrazia-a-venire, nella quale il diritto rimanga costantemente ispirato a qualcosa di superiore ed incontaminabile dalla politica e dal diritto stesso, infatti

la giustizia è diversa dal diritto al quale tuttavia è così vicina, e in verità inscindibile […] Voglio subito insistere per riservare la possibilità di una giustizia, o di una legge che non solamente eccede o contraddice il diritto, ma che forse non ha alcun rapporto con il diritto, oppure ha con esso un rapporto così strano che può tanto esigere il diritto quanto escluderlo(27)

Il principale risvolto politico di tale impostazione risiede nel fatto che, se il diritto è la forma storica della giustizia, esso può manifestarsi solo con un atto di forza, attraverso un potere, un’autorità riconosciuta che lo istituisce. Tuttavia, il fondamento della “forza di legge” è un “fondamento mistico” poiché si giustifica da sé, affermando l’impossibilità di un principio superiore “meta-giuridico”, sicché il diritto, “rappresentante in terra della giustizia”, non ha alcun’altra legittimazione che quella dell’atto di violenza, il quale però, non costituisce un atto ingiusto: la fondazione del diritto si pone anteriormente al diritto stesso, e dunque al di fuori di esso, e non può pertanto essere giudicata con categorie giuridiche (similmente a quanto sostiene Hans Kelsen in merito alla Grundnorm)(28).
Tutto ciò si condensa nell’esigenza di ripensare le grandi idee della nostra tradizione culturale, a cominciare da quelle di uguaglianza, libertà e fraternità; l’amicizia rappresenta il vettore tramite il quale operare tale reinterpretazione. Infatti, quelle relazioni, ed il modello di democrazia da esse derivanti, sottintendono sia una simmetria nella quale chi dona è autorizzato ad aspettarsi qualcosa in cambio, sia una “teologia politica ispocentrica”:

il parricidio e il regicidio non sono senza rapporto con una certa interpretazione genealogica, filiale e soprattutto fraternalista dell’uguaglianza democratica (libertà, uguaglianza, fraternità): lettura del contratto ugualitario istituito tra dei figli e dei fratelli rivali nella successione del padre, per la (s)partizione del kratos nel demos […] perfino dalla teologia politica inconfessata, e altrettanto fallocentrica, fallo-paterno-filio-ispocentrica, della sovranità del popolo – in una parola della sovranità democratica. L’attributo ‘ispocentrico’ attraversa e unisce in un sol tratto tutti gli altri attributi(29)

Al contrario, l’amicizia è una relazione asimmetrica, dissimmetrica, nella quale il dono è sempre eccessivo, immotivato e, soprattutto, incondizionato:

è possibile pensare e mettere in pratica la democrazia, sradicandovi quel che tutte queste figure dell’amicizia (filosofica e religiosa) vi prescrivono di fraternità, ovvero di famiglia e di etnia androcentrica? E’ possibile, facendosi carico di una certa memoria fedele alla ragione democratica ed alla ragione tout court, direi anzi ai lumi di una certa Aufklärung (lasciando così aperto l’abisso che si apre ancora oggi sotto queste parole), non già fondare, laddove non si tratta indubbiamente più di fondare, ma aprire all’avvenire, o piuttosto al “vieni” di una certa democrazia?(30)

In qualsiasi modo si voglia rispondere a tali questioni, il solo fatto che esse siano state in tal modo poste, il solo fatto che una parte non indifferente della filosofia contemporanea abbia concentrato la sua attenzione sul tema dell’alterità, testimonia della necessità (e, direi, dell’urgenza) di un’integrazione fra prospettive filogenetiche ed ontogenetiche; «non ha molto senso decostruire la comunità se non si decostruisce l’individuo»(31).

1) «Conoscere equivale ad impossessarsi dell’essere a partire da niente o a ridurlo a niente, privarlo della sua alterità», E. Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1990, p. 41.

2) P. Ricœur, Amore e giustizia, Morcellania, Brescia 2000, pp. 15-16; cfr., sullo stesso tema, P. Ricœur, Il Giusto, SEI, Torino 1998.

3) A. Da Re, Figure dell’etica, in C. Vigna (cura), Introduzione all’etica, Vita e Pensiero, Milano 2001, p. 110.

4) Su Lévinas cfr. G. Ferretti, La filosofia di Levinas, Rosenberg & Sellier, Torino 1996, G. De Gennaro, Lévinas profeta della modernità, Lavoro, Lecce 2000, S. Malka, Emmanuel Levinas, Jaca Book, Milano 2003, F. Salvarezza, Emmanuel Lévinas, Mondadori, Milano 2003, e M. Vitali Rosati, Riflessione e trascendenza, ETS, Pisa 2003.

5) Tali osservazioni lévinasiane si riferiscono in particolar modo alla “quinta” delle “meditazioni cartesiane” di Husserl, cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, Armando, Roma 1999, su ciò anche C. Dovolich, Pensare l’alterità, in C. Dovolich (cura), Etica come responsabilità, Mimesis, Milano 2003, e G. Lissa, Emmanuel Lévinas, in Ibidem.

6) Cfr. di E. Lévinas, Umanesimo dell’altro uomo, Il Melangolo, Genova 1998, e Il volto infinito, Palomar, Bari 1999.

7) Nota del traduttore in E. Lévinas, Il tempo e l’altro, Il Melangolo, Genova 1993, p. 63; per un chiarimento dell’idea lévinasiana di alterità cfr., dello stesso autore, Alterità e trascendenza, Il Melangolo, Genova 2006.

8) E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., pp. 43-44, parentesi mia; ed ancora: «La filosofia occidentale è stata per lo più un’ontologia. Una riduzione dell’Altro al Medesimo», Ibidem, p. 36; su quest’opera cfr. C. Canzi, Genealogia di Totalità e infinito, ExCogita, Milano 2004. Il confronto con l’eredità husserliana ed heideggeriana è fortemente presente anche in E. Lévinas, Etica come filosofia prima, Guerini, Milano 2001. Un possibile superamento degli esiti solipsistici dell’ontologia grazie all’etica come dimensione relazionale è presente anche in G. Vaccaro, Dall’esistenza alla morale, Cadmo, Firenze 1996.

9) E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 45; su questo cfr. G. Palumbo, Inquietudine per l’altro, Fondazione Vito Fazio-Allmayer, Palermo 2001.

10) E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 220.

11) S. Natoli, Che cosa sono i valori, in Rai Educational, Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, www.educational.rai.it.

12) S. Natoli, L’etica della vita quotidiana, in Rai Educational, Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, www.educational.rai.it, parentesi mia.

13) Sulle tematiche della differenza e dell’alterità nel Novecento cfr. F. Colombo, Rappresentazioni dell’Altro, Guerini, Milano 1999, e A. Ales Bello, Le figure dell’altro, Effatà, Torino 2000.

14) Su Ricœur cfr. A. Montalto, Storia, tempo e racconto in Paul Ricœur, Falzea, Reggio Calabria 2001, D. M. Conanzi, Paul Ricœur, Giappichelli, Torino 2004, F. Brezzi, Introduzione a Ricœur, Laterza, Roma 2006, e J. Michel, Paul Ricœur: une philosophie de l’agir humain, Les Editions du Cerf, Paris 2006.

15) P. Ricœur, Dell’interpretazione, il Saggiatore, Milano 1967, pp. 60-61; sulla definizione del sé come potenza ed atto cfr. anche P. Ricœur, Verso quale ontologia?, in Sé come un altro, Jaca Book, Milano 2002.

16) Per un confronto fra Lévinas e Ricœur cfr. L. Pialli, Fenomenologia del fragile, Ed. Scientifiche italiane, Napoli 1998, e L. Margaria, Passivo e/o attivo, Armando, Roma 2005.

17) P. Ricœur, Sé come un altro, cit., p. 262, e cfr. P Ricœur – G. Marcel, Per un’etica dell’alterità, Lavoro, Roma 1998; sulla transizione ricœuriana delle dialettiche identitarie dal cogito al sé cfr. P. Ricœur, Percorsi del riconoscimento: tre studi, Cortina, Milano 2005, M. Pulito, Identità come processo ermeneutico, Armando, Roma 2003, e L. Altieri, La metafora di Narciso: il Cogito itinerante di Paul Ricœur, La Città del Sole, Napoli 2004.

18) P. Ricœur, Sé come un altro, cit., p. 470.

19) Ibidem, p. 362.

20) P. Ricœur, Il Giusto, cit., pp. 3 e 9, lo stesso autore, infatti, differenzia «le relazioni interpersonali, il cui emblema è l’amicizia, dalle relazioni istituzionali, aventi per ideale la giustizia», P. Ricœur, La persona, Morcellania, Brescia 2006, p. 18; sulla questione della giustizia cfr., dello stesso autore, Il male, Morcellania, Brescia, 1993, e L’idea di giustizia, in Rai Educational, Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, www.educational.rai.it.

21) P. Ricœur, Amore e giustizia, Morcellania, Brescia 2000, p. 40, parentesi mie; sulle tematiche socio-politiche di Ricœur e Derrida cfr. A. M. Nieddu, Amicizia e solitudine tra ricerca di autenticità ed esigenza di giustizia, in C. Di Marco (cura), Un mondo altro è possibile, Mimesis, Milano 2004.

22) P. Ricœur, Sé come un altro, cit., pp. 279, 277 e 278; cfr. A. Bruno, Un’etica della finitezza, Milella, Lecce 2000.

23) Come testimonia il Colloquio di Royamont (1990), dal titolo L’etique du don, successivo a quello di Cerisy-la-Salle (1980), intitolato Le fins de l’homme; su Derrida cfr. M. Vergani, Jacques Derrida, Mondadori, Milano 2000, C. Resta, L’evento dell’altro: etica e politica in Jacques Derrida, Bollati Boringhieri, Torino 2003, M. Ferraris, Introduzione a Derrida, Laterza, Roma 2005, A. Andronico, La disfunzione del sistema: giustizia, alterità e giudizio in Jacques Derrida, Giuffrè, Milano 2006, e M. Iofrida (cura), Apres coup l’inevitabile ritardo: l’eredità di Derrida e la filosofia a venire, Bulzoni, Roma 2006 (Atti delle giornate di Studi in memoria di Jacques Derrida; Bologna 13-14 Giugno 2005).

24) Derrida si riferisce in particolar modo a F. Nietzsche, Genealogia della morale (UTET, Torino 2003), specificatamente alla Seconda dissertazione, contrapponendolo al non-sapere sull’altro, esito ultimo di E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., su ciò cfr. i lavori di C Dovolich, Derrida tra differenza e trascendentale, Mimesis, Milano 1995, Il soggetto etico e la decisione, in «Fenomenologia e società», n. 2, 1999, e Derrida di fronte alla questione etica, in C. Di Marco (cura), Percorsi dell’etica contemporanea, Mimesis, Milano 1999.

25) J. Derrida, Mochlos o il conflitto delle facoltà, in «aut-aut», n. 208, 1995, pp. 13, 40 e 31, parentesi mie.

26) J. Derrida, Spettri di Marx, Cortina, Milano 1994, p. 45; cfr. anche J. Derrida, Sull’ospitalità, Baldini&Castoldi, Milano 2000.

27) J. Derrida – A. Dufourmantelle, L’ospitalità, Baldini & Castoldi, Milano 2002, p. 53, e J. Derrida, Forza di legge – Il «fondamento mistico dell’autorità», Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 50; a proposito del concetto di “forza di legge”, lo stesso Derrida (cfr. Nome di Benjamin, in Ibidem) afferma di avere ragionato attorno a W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus (Einaudi, Torino 1995).

28) Cfr. S. Regazzoni, La decostruzione del politico: undici tesi su Derrida, Il Melangolo, Genova 2006.

29) J. Derrida, Stati canaglia, Cortina, Milano 2003, pp. 38-39.

30) J. Derrida, Politiche dell’amicizia, Cortina, Milano 1995, p. 361.

31) A. Masullo, Considerazioni sull’estraeno, in M. Fimiani (cura), Philía, La Città del Sole, Napoli 2001, p. 30.

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sabato 14 novembre 2009

Oscuri Traguardi

di Grazia Calanna (graziacalanna@lestroverso.it)

La spessa lama dell’impotenza
trafigge il cuore
inondando il cammino
di fiumi color porpora

Il frastuono del silenzio
sgretola l’anima

Stilla dopo stilla
la vita si scioglie
come burro sul fuoco

Il respiro si perde
all’ombra gelida dell’indifferenza

Lo sguardo si spegne
sulla soglia del tempo buio
dove la notte insegue la notte
senza mai calore / stupore
senza mai sorrisi / recisi
senza mai certezze / carezze

E il passo …
scivola lento
verso oscuri traguardi

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lunedì 9 novembre 2009

"Il Quaderno" di Saramago

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Il Quaderno è il volume in cui l’ottantasettenne José Saramago, premio Nobel per la Letteratura nel 1998, raccoglie i testi da lui pubblicati sul suo blog, dal Settembre 2008 al Marzo 2009. Questo è il primo libro di Saramago che viene pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri poiché Einaudi, la casa editrice che da decenni pubblica in Italia le opere dello scrittore e che fa parte dell’universo editoriale Mondadori, che fa capo a Silvio Berlusconi, si è rifiutata di pubblicarlo.
Il Quaderno
è una lucida analisi della realtà contemporanea, i suoi temi vanno dagli ultimi atti del mandato di George W. Bush alla Casa Bianca ai commenti sui comportamenti di Silvio Berlusconi, dalla crisi economica mondiale alla questione di Guantánamo, da una censura che agisce non impedendo di esprimersi ma punendo chi tocca determinati argomenti (come è toccato in sorte a Roberto Saviano che viene citato dallo scrittore portoghese) ai bombardamenti sulla Striscia di Gaza, dal ricordo della notte in cui Barack Obama vinse le elezioni statunitensi a quello del poeta Fernando Pessoa e di Rosa Parks, la sarta di colore di Montgomery, Alabama, che si rifiutò di lasciare il proprio posto in autobus ad una persona bianca.
Il Quaderno
, insomma, ci consegna un Saramago critico della realtà in cui viviamo, analizzata con razionalità e raccontata con passione.
(José Saramago,
Il Quaderno, Bollati Boringhieri, Prefazione di Umberto Eco, pp. 160, € 15,00)

("Periodico Italiano webmagazine", 22/10/2009)

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martedì 3 novembre 2009

La meraviglia dell'amore

di Grazia Calanna (graziacalanna@lestroverso.it)

Svegliarsi, con le nitide carezze del sole. Era questa una delle ragioni che aveva spinto Bianca ad accelerare i tempi di un trasferimento, rimandato troppo a lungo. Per ventitré anni, aveva vissuto ad Iverness, città a nord della Scozia, situata alla foce del fiume Ness. Nonostante gli sforzi, non si era mai ambientata come avrebbe sperato. Si sentiva lontana, mille galassie, da quella gente. Tutti cordiali, “per carità”, ma nulla, proprio nulla, in confronto alla totale sintonia che sentiva di avere nei confronti di un popolo, cui sapeva di appartenere, che conosceva solo grazie ai racconti del nonno Marcello. Sin da bambina, nel pomeriggio, rinunciava a giocare con i compagni di scuola, preferendo accovacciarsi sulla morbida poltrona di velluto blu, sommersa da mille coperte - soffriva maledettamente il freddo - per dedicarsi all’ascolto di quelle che amava definire favole variopinte.

Racconti di una vita realmente vissuta, in un luogo che appariva magico, refrattario all’incedere del tempo: la Sicilia. Terra di odori, sapori e consuetudini, tramandate, di generazione in generazione, con la naturalezza e, in eguale misura, l’urgenza di una donna a sfamare il proprio bambino. Dopo la dipartita del nonno, colui che l’aveva cresciuta, si sentiva totalmente depredata. Non aveva più alcun motivo per restare. Aveva bisogno di colmare il vuoto gelido della solitudine. Sapeva di poterlo fare solo recandosi incontro alle proprie radici. Voleva perdersi, nel caloroso abbraccio di una madre lussureggiante, tra la sicilitudine delle sue genti. Specchiarsi nelle acque cristalline dei suoi mari temperati, per ritrovare se stessa.

Sarebbe tornata nella casa dei suoi genitori, a Modica, ridente cittadina barocca, nella Sicilia sud orientale.
«Buongiorno, buongiorno… buongiorno, buongiorno!!!».
La sveglia parlante - perché mai aveva deciso di puntarla - la distolse dal ristoro del sonno. Tra bus, aereo, treno, e ancora bus, era stato un lungo, complicatissimo, estenuante viaggio. Era il suo primo giorno in Sicilia. E certo, non avrebbe potuto sprecarlo dormendo. Spalancò le imposte della propria finestra e la luce del sole, quasi, l’accecò. Non ebbe neanche il tempo di riprendesi che sentì bussare alla porta.
“Chi sarà mai? - pensò -”.
«Arrivo, arrivo - disse -. Un momento».
Cercò le pantofole, non le trovò. Procedette scalza e inciampò nell’enorme valigia piazzata, frettolosamente, in prossimità della porta d’ingresso.

La sera prima, era smoderatamente stanca, a stento aveva trovato la forza per trascinarla dentro casa.
«Salve - esordì un giovane, all’incirca trentenne, dallo splendido sorriso -. Mi chiamo Valerio. Sono il tuo dirimpettaio. Ti ho vista arrivare, ieri, all’imbrunire, ma ho preferito non presentarmi subito. Non vorrei pensassi che sono una persona invadente».
Bianca non ebbe il tempo di dire grazie. Il tipo bizzarro, per la foga di liberarsene - probabilmente intimidito dal silenzio della sua interlocutrice - le scaraventò tra le mani un pacco ben confezionato, con tanto di nastrini di stoffa luccicante.
«Per te. Un piccolo dono di benvenuto», aggiunse serafico.
E si dileguò.
La curiosità - da sempre - era il suo punto debole. Tanto che, nell’immediato, non si preoccupò di rincorrere l’uomo per ringraziarlo.

Rientrò in casa, si sedette comodamente, al centro del suo enorme e solitario lettone, e iniziò a scartare il regalo, avendo cura di non sgualcirne la carta. Era una confezione di caffè tostato, in chicchi. Non resistette alla tentazione di aprirla immediatamente.
Voleva lasciarsi inebriare dall’odore, ripensando alle parole del caro nonnetto.
«Mi manca - le diceva continuamente - il rito del caffè. Quello vero. Quello che nessuno sa preparare e vivere come noi. Vedi - aggiungeva -, non basta saperlo fare. È necessario trovarsi nel posto giusto, con la giusta compagnia. Gli elementi da contorno - credimi - giovano a renderlo unico. Una meravigliosa bevanda aromatica, forte e scura. Il massimo? Un caffè ristretto, da gustare caldo, insieme ad un amico fidato».
Un grosso gatto, con fare agile e flessuoso, saltando dalla finestra, fece rapida irruzione nella stanza.

Per lo spavento, la ragazza - ancora insonnolita - fece volare in aria la scatola.
Centinaia di chicchi di caffé si sparsero, oltreché sul letto, sul pavimento di marmo a tinte verdazzurro. Dopo essersi data della stupida - in fondo si trattava di un innocuo micione - sorrise e, più che mai di buon umore, iniziò a raccogliere i chicchi, riponendoli amorevolmente dentro la scatola color bronzo.
Il gatto, dal canto suo, rimase immobile, come per studiarla. Poco dopo, prese a fare le fusa, strusciandosi, con il pelo folto e morbido, tra le gambe della ragazza.
«Siamo affamanti?», domandò Bianca, certa che avrebbe capito.
«Miaoooo», rispose il nuovo arrivato, come a voler dir di si. La ragazza si spostò in cucina, all’improvviso sentì i morsi della fame, e realizzò - ricordò - di non avere nulla da mangiare.

«Dovrai accontentarti di un pò d’acqua».
Riempì una vecchia ciotola e la poggiò a terrà. Il gatto - poco pretenzioso - sembrò gradire il gesto e, da quel momento, divennero inseparabili.
Bianca non ebbe difficoltà ad ambientarsi. Più il tempo correva in avanti, più aveva l’impressione di trovarsi in quel luogo da sempre. Bastava un piccolo pretesto, a volte, anche solo uno sguardo complice, un sorriso, e si ritrovava per strada, nei bar, al mercatino - ovunque insomma - a chiacchierare con i passanti.
Grazie all’aiuto di Valerio - il vicino di casa che, poi, ricordò di ringraziare per l’accoglienza - non ebbe difficoltà a trovare lavoro. Faceva l’interprete e, nonostante che le paghe non fossero altissime, ogni mese, riusciva a sbarcare il lunario. Era visibilmente serena, soddisfatta.

Amava trascorre i momenti di svago in giro per quella fetta d’isola fantastica, baciata dal sole, rigogliosa di vita e di colore, che le parole del nonno, con la maestria di un artista intento ad ultimare il migliore dipinto, le avevano impresso a fuoco nella memoria. Il più delle volte Valerio le faceva da cicerone e alla fine, prima del rientro a casa, inevitabilmente, si fermavano in un bar, uno dei tanti, l’importante - lo ricordava bene - erano il luogo e la compagnia giusta.
Da quelle parti, il caffè, aveva sempre lo stesso inconfondibile sapore, accompagnato da un profumo intenso, gradevole. Avvolgente, come un’eterna primavera. Un sabato, dopo una piacevole passeggiata in Corso Umberto, delizioso salotto modicano, i due amici, come solevano fare tre volte al mese, fecero breve tappa in Chiesa San Pietro, vero e proprio orgoglio cittadino, grandiosa “imperatrice” della città.

Un tacito accordo li voleva immobili, con lo sguardo fisso verso l’altare - in religioso silenzio -.
Ognuno formulava la propria semplice preghiera. E poi … fuori, a rincorrersi, allegramente, per la ripida scalinata.
Chi fosse arrivato giù per ultimo, avrebbe pagato da bere, in una rinomata caffetteria del centro storico, comodamente seduti nelle confortevoli poltrone di pelle bordeaux.
«Sei felice?», chiese Valerio, intento a giocherellare con la tazzina. Ultimato il caffè, amava farla rotare sul piattino. “Prima o poi - pensava Bianca - la farà cadere”.
«Onestamente, non mi sono mai posta il quesito. La vita è un bene prezioso. Abbiamo il dovere di rispettarla e, altrettanto, riceveremo rispetto. Quanto alla tua domanda credo che, piuttosto di non esserlo mai, sia assolutamente necessario rischiare per esserlo».

Esattamente quello che pensava Ico. Neanche si conoscessero dalla nascita, quei due.
Erano legati - cuore a cuore - da un filo invisibile che li teneva uniti, malgrado la loro reciproca inconsapevolezza.
Ico? Chi era Ico? La parte più semplice del discorso è che Ico è il diminutivo di Ludovico. Semplicemente, “lui”, preferiva lo chiamassero “con formula abbreviata”, sottolineava con fare spiritoso.
Per quanti hanno sempre creduto che anche le cose hanno un’anima, ecco svelato l’arcano.
Niente di più vero!
Ico era l’ultimo dei chicchi sparsi da Bianca in giro per la stanza, in occasione del suo primo risveglio a Modica. Il birbantello, con la complicità di Micione - basti pensare, di quel mattino, al momento dello spostamento di Bianca in cucina - era riuscito a sfuggire al controllo della ragazza.

Con la forza di due braccia trasparenti, passando per le vie della seta - le lenzuola apparivano come soffici montagne morbide e lucenti - per meglio godere il panorama, si era arrampicato sulla maestosa lampada di ceramica dipinta a mano.
In seguito, avrebbe pensato ad una migliore sistemazione.
Nell’immediato, l’importante era muoversi indisturbato per la casa evitando, accuratamente, di farsi scoprire dalla padrona.
Un tempo non avrebbe desiderato altro che farsi macinare per poi trasformarsi, insieme ai propri fratelli, in quella bevanda quasi “mistica”, irrinunciabile. Orgoglio, tramandato, da padre in figlio, da una vecchia dinastia di chicchi, la famiglia dei “Coffee Gold King”, alla quale si sentiva onorato di appartenere. Oggi, le cose erano cambiate. Amava Bianca, profondamente.

Trovarsi catapultato fuori da quella scatola e vederla, era stata un’esperienza unica, indimenticabile, che lo aveva scosso dal profondo, risvegliando sensi sopiti da un destino apparentemente segnato.
I suoi occhi trasparenti si erano tuffati nell’azzurro limpido degli occhi di Bianca, sprofondando in direzione del cuore, fino a varcare la soglia dei sogni di una giovinezza intatta, gelosamente custoditi tra i cassetti dell’anima.
Amava osservarla. Nella corsa dei preparativi prima di recarsi a lavoro, tra le faccende domestiche, indaffarata tra i fornelli - era una vera e propria maga delle leccornie al cioccolato -.
E ancora, nelle pause dedite alla lettura. L’espressività del volto della giovane, permetteva al dignitoso chicco di cogliere ogni singola emozione generata dalla forza della parola.

Si divertiva da matti a spiarla quando, intenta a bagnare le piante, soleva umettarsi le labbra. Trovava armonioso ogni singolo gesto di quella creatura sublime, senza eguali per la capacità di fare, animata da una perfetta combinazione di sentimenti intensi ed esclusivi.
Leggero … leggero, danzava al ritmo del vento. Si sentiva piccolo e impotente, sconosceva la forza del proprio pensiero che, con grazia, si insinuava - confondendola - nel pensiero di lei.
«Piroette di gioia librino stelle cristalline. Fasci di luce argentea illuminino la notte … Che il mio ti amo giunga carezzevole al tuo candido cuore», cantava accorato.
Presto comprese che doveva farsi coraggio. Non poteva restare nell’ombra tutta una vita. Doveva rischiare per essere felice. Doveva mostrasi e lottare in nome del proprio nobile sentimento.
E rifletteva. Certo, finché Bianca non avesse saputo della sua esistenza, cosa avrebbe potuto sperare?

Un punto a proprio vantaggio, sapeva di averlo.
La ragazza, inequivocabilmente, amava il caffè, motivo per cui, pensava: “In parte ama anche me”.
- Ottimista ?! -.
Qualcuno, un certo Kahlil Gibran, scriveva: “È sempre accaduto che l’amore abbia ignorato quanto fosse profondo, fino al momento del distacco”.
Quelle parole, insegnamento di uno dei suoi scrittori preferiti, bombardavano, senza tregua, sentimento e ragione.
Ico sapeva che - a breve - Bianca avrebbe lasciato la città per motivi di lavoro. Voleva “mostrarsi”, conoscerla, o meglio farsi conoscere, prima della partenza.
Chissà, forse il momentaneo allontanamento, l’avrebbe aiutata a comprendere la vera essenza di un moto interiore fuori dall’ordinario.

E così eccolo - come per incanto - sul pomposo cuscino avorio, ben saldo, tra i ricami a punto croce della zia Nellì. Bianca pensò di avere avuto una svista, poiché, la frazione di secondo successiva, non lo vide più.
L’agile scatto di due vigorose gambe trasparenti permise all’intrepido chicco di spostarsi con l’astuzia di un furetto. Aveva ideato una precisa strategia. Sarebbe comparso per gradi, fino a diventarle familiare, indispensabile ...
- Presuntuoso!? -.
Apparve in bagno, nel cesto della spesa, sul dondolo del piccolo fertile giardino, in prossimità dei fornelli e, a tappe alterne, sul magnifico lettone… la sua “zona” prediletta!
Perché mai? Penserà qualcuno…
«Ma è quella del nostro primo incontro …», sarebbe stata la risposta chiarificatrice del chicco imbarazzato e con tono da finto indifferente!
Avrebbe voluto - era una vera e propria tentazione - depositarsi sul fondo della tazzina preferita da Bianca, ma desistette. La mossa appariva azzardata. Rischiava di restarvi intrappolato per via della scivolosità delle spesse pareti smaltate.
Bianca, dal canto suo, si sentiva confortata. Viveva quella presenza misteriosa come un evento naturale. Giorno dopo giorno, si nutriva di gioia autentica, senza l’assillo, ma con la chiara certezza che lo avrebbe rivisto.
Arrivò il giorno della partenza. Quel pomeriggio si sentiva inquieta. Non aveva ancora “intravisto” il suo chicco. Quest’ultimo, da bravo furbetto, non si era mostrato appositamente.
- Faceva il prezioso!? -.
Dopo le fatiche di una notte insonne, trascorsa a scrivere, approfittò della distrazione di Bianca, intenta salutare l’amico Valerio, per infilarle nella borsa, con l’aiuto di Micione, il suo piccolo biglietto.
La ragazza, partì alla volta di Milano, sarebbe tornata al più presto. Certo, non avrebbe resistito a lungo senza il calore di quella sua terra accogliente e luminosa.
Ico, la cui tristezza, a dir poco, lo aveva sbiancato, si era battuto contro il suo stesso impeto.
Una lotta, accanita.
Senza esclusione di colpi.
Per un attimo aveva pensato di nascondersi tra i maglioni dell’amata, dentro quell’enorme valigia.
- Non poteva distaccarsene, non voleva! -.
Alla fine, egli stesso ebbe a stupirsi. Prevalse il buon senso.
Doveva lasciarla libera.
Al rientro, ogni cosa sarebbe andata per il verso giusto perché - così credeva - la vita, per quanto, a volte, sia crudele, alla fine, ti rende quel che ti appartiene.

Giunta all’aeroporto “Fontanarossa” di Catania, Bianca, aprì la borsetta per prendere la carta d’identità. Era talmente piena - sembrava stesse per esplodere - che ebbe difficoltà a trovare i documenti.
Nella frenesia della ricerca, l’infiltrato - il biglietto - cadde.
Un’ora dopo, lo raccolse un’anziana signora dai modi gentili.
Lo srotolò e lo lesse: “Attendo! Sulla lama del tempo. Sospeso ad un fil di fiato. Ricolmo da fitte polveri, annaspo nella pungente lucidità per un amore che non può placarsi. Corri, corri, … corri! Torna da me, vita mia”.
La donna si commosse. Avrebbe voluto consegnarlo alla legittima destinataria ma non c’erano indicazioni, mancava persino la firma dell’autore. Decise di lasciarlo, lì, dove lo aveva raccolto. In realtà, qualche indizio c’era ma la poverina, affranta da un comprensibile senso d’impotenza, non ebbe a notarlo. Il colore della scrittura, ad esempio, era insolito: bruno dorato.
Il foglio - una piccola pergamena - emanava un irresistibile ghiotto profumo. L’ardimentoso innamorato, per scrivere, aveva usato la sua inseparabile microscopica penna stilografica, il cui serbatoio, per alimentare il pennino, anziché d’inchiostro era ricolmo di caffè.
In quel di Milano, i giorni divennero interminabili. Il tempo si dilatava con fare crudele. Tutto grigio intorno, per le strade - avvolte nella nebbia - e nel cuore, assetato di luce.
La giovane soffriva, sentiva la mordace necessità di tornare a casa.
Sentiva il richiamo di una voce sconosciuta, invisibile carezza dell’anima.
Al calar della sera, amava volgere lo sguardo fuori della finestra della propria camera.
Avrebbe voluto spingersi fino al confine con la propria isola.
Il cielo appariva solcato da ampie distese di nuvole salvo i giorni in cui il vento le spazzava via scompigliando, al contempo, le chiome frondose delle grandi querce piazzate - come due guardie severe - all’ingresso dell’albergo.
Sentiva la mancanza del sole e delle sue carezze al risveglio!
Fortunatamente le cose cambiano e, con esse, gli stati d’animo.
Quella mattina, era partita da due mesi e ventisette giorni, si sentì euforica. “Ricorda di sorridere sempre - si ripeteva - arriverà il momento che non sarà più necessario ricordalo”.
Il nonno, con fare affettuoso, le aveva ripetuto quelle parole fino alla fine dei suoi giorni, ad ogni singolo risveglio della diletta nipote.
Bianca, con indescrivibile zelo, aveva quasi ultimato un arduo lavoro di traduzione per conto dell’ateneo lombardo, dipartimento di Scienza dell’Alimentazione.
Presto, sarebbe stato pubblicato, come inserto speciale, all’interno della prestigiosa rivista internazionale “LifeLife”. La ragazza, animata da incontenibile entusiasmo - l’argomento sembrava esserle piovuto addosso dal cielo - si era documentata sull’ambizioso piano sviluppato dall’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione assieme al “Cofee Sceince Information Centre”.
Il progetto, che in prima battuta si prefiggeva l’obiettivo di dare un supporto significativo alla conoscenza, era volto alla realizzazione di un modello “Info-Biologico” utile a stabilire, preventivamente, mediante una coerente combinazione di scienze mediche e informatiche, gli effetti prodotti dal caffè sullo stato fisico e psichico dell’organismo.
Quando si dice: “il caso” !!!
Non senza pensare al suo fantomatico coinquilino, che, indubbiamente, all’ascolto, sarebbe stato fiero delle proprie origini, aveva appreso che il caffè, se bevuto in giusta quantità … “si possono bere tranquillamente fino a quattro tazzine al giorno - puntualizzavano gli esperti”, giova al benessere dell’uomo.
“La presenza di numerose sostanze antiossidanti, di cui la principale è la caffeina, alcaloide del gruppo delle purine, ci consentono di affermare, senza esitazione alcuna, che il caffè fa bene alla salute. Non trascurabile, è, poi, il ruolo svolto dal caffeone, olio essenziale che si forma grazie alla torrefazione conferendo, alla bevanda, il caratteristico aroma …”. Aveva tradotto vivificata da nuova curiosità. Curiosità che andava ad aggiungersi a quella che la natura le aveva già abbondantemente donato! Lavorava, giorno e notte, senza darsi tregua. Con abilità e attenzione, ai limiti dell’inverosimile. Il peso della fatica? Non lo sentiva affatto!

Sapeva che prima avrebbe ultimato il lavoro, prima sarebbe tornata a casa.
Ico si consumava nell’attesa…
Era confuso, agitato.
Come si dice, con l’animo in preda ai marosi!
Ignaro dell’accaduto, cercava di immaginare Bianca con in mano il suo biglietto.
Pensava e ripensava a quello che avrebbe potuto provare leggendolo.
Viveva, tra alti e bassi, come a cavallo di una pericolosa curva ad andamento variabile.
L’attesa consuma i giorni, essiccandoli come fiori al sole cocente. Disidratata la vita si spegne, tra infiniti frastuoni di un logorroico silenzio”.
Fortunatamente, non era da solo, poteva contare sulla presenza di Micione, amico spietatamente sincero, prezioso.
Vero e proprio toccasana.

E si … perché l’innamorato, suo malgrado, in quanto tale, perde qualunque facoltà di discernimento. Il più delle volte, quando non ha certezza d’esser ricambiato, l’attende un amaro risveglio, cui, spesso, va incontro da solo, depredato persino della capacità del pensiero che fugge via, lontano, da colui che si ama - colei, in questo “uni tragico” caso - strappandolo alla debole presa della ragione.
Al pari di Morfeo, Micione, cercava di allietare le notti di Ico donando il proprio aiuto incondizionato.
- Gatto anomalo!? -.
Offriva il proprio soffice pelo, accogliendolo nella più confortevole delle culle.
E quando nulla giovava a spedire l’amico all’indispensabile ristoro del sonno, ascoltava senza fiatare - pardon … miagolare - le struggenti liriche dedicate a Bianca.

«Non voglio più tediarti», disse il chicco.
«Credo molto nel valore chiarificatore e terapeutico della scrittura - rispose Micione, impettito e con fare serioso da docente universitario -. In tal senso, la poesia è utile, per comunicare con gli altri e, soprattutto, con se stessi».
Il gatto, aveva compreso che l’amico doveva continuare a scrivere. Così facendo, avrebbe potuto placare l’immane tristezza che punzecchiava il suo minuscolo cuore.
Un’altra lunga notte trascorse - in silenzio -.
Tutto appariva immobile, seppur le solide mura dell’antico edifico non riuscivano a contenere quel portentoso ciclone di sentimenti in subbuglio.
Di buon mattino giunse Valerio, aveva le chiavi perché doveva - così aveva promesso - prendersi cura del giardino.

Era in compagnia di Rosetta, una simpatica signora cicciotella, all’incirca cinquantenne. Dopo aver bagnato con cura le piante, schiuse tutte le finestre - non lo aveva mai fatto prima -.
Intanto Rosetta, fischiettando ad oltranza, prese a spazzare e spolverare ogni singola camera.
La donna, accese la vecchia radio piazzata quasi al centro del salotto, in prossimità del camino, inondando la casa di musica e buon umore.
I due - Ico e Micione - divennero euforici, capirono immediatamente che Bianca sarebbe tornata presto. Avrebbero voluto abbracciarsi per la contentezza.
Le sproporzioni fisiche - certo - impedivano il gesto, così presero a saltellare allo stesso irrefrenabile ritmo.
Quando rimasero da soli, Ico, cercò carta e penna.
Doveva scrivere.
Non poteva aspettare - non un secondo di più -.
«Ho percorso, cieco e scalzo, un cammino lastricato di spilli aguzzi, arrugginiti da fiumi di lacrime invisibili che ho versato in silenzio. Ho sempre saputo che saresti tornata. Ho atteso e sopportato il peso grave dell’assenza. Sfinito, ti accolgo e sfamo il mio dolore con il cibo della vita che mi rendi».
Com’era solito fare Micione ascoltò, senza interrompere la lettura.
I giorni si susseguivano trascinandosi dietro - come un’enorme palla al piede - il peso opprimente della monotonia.
E di Bianca … nessuna traccia!
Nei momenti di massimo sconforto, Ico andava a rifugiarsi tra i cuscini che campeggiavano sul letto della ragazza, alla ricerca di un respiro, di una traccia, di un odore familiare che potessero ricongiungerlo a lei.
L’amabile gatto, continuava, imperterrito, a vegliare sull’amico indifeso. Intimorito dall’oramai concreta possibilità di un’errata interpretazione dei fatti - erano trascorse due settimane dalla tanto decantata pulizia della casa - lo raggiunse.

Con passo felpato e, con voce suadente, disse: «Finché l’alba farà il suo esordio nei nostri cuori. Finché sarà vita, sarà inconsapevolmente gioia. La gioia di vivere tutte le giornate, belle e meno belle, che coronano l’esistenza all’insegna della consapevolezza dell’essere».
Lacrime trasparenti precipitarono in direzione del cuore.
Erano lacrime di contentezza, dettate dalla chiara certezza che nessun tesoro è più prezioso della lealtà di un amico.
E lesse, ancora e… ancora.
Con voce accorata.
Con quanto fiato aveva in gola.
Con il pensiero fisso, in direzione di quell’unica magistrale musicista. Colei che faceva vibrare le possenti corde del suo piccolo cuore in una sinfonia paradisiaca, eterna.
«“Speranza ciarlatana. Sovrasti l’animo, falciando i miei giorni. Eppur ti sento, presente, a ricolmare il vuoto per la tua assenza”».

Come per incanto, un fascio di luce bianca inondò la stanza.
Capriccio di una Luna piena - maestosa regina di un cielo stellato, in una limpida notte di luglio - che chiedeva di essere contemplata? O segno rivelatore?
Gli occhi verde smeraldo del gatto incrociarono quelli trasparenti dell’amico.
“E se Bianca - pensarono all’unisono - dopo aver udito, per chissà quale strana alchimia, abbia voluto rispondere inviando un segnale?”.
Nessuno dei due proferì parola. Sprofondarono nel sonno, l’uno accanto all’altro.
Sospesi - come per prodigio - da volontà e coscienza.

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