di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
Il tentativo di definire le nuove responsabilità dell’uomo moderno, testimonia l’inquietudine e lo spaesamento di un epoca (la nostra) che fa seguito al decentramento del cogito, alla “morte di Dio” ed al politeismo dei valori. Ma proprio la tematizzazione di tali nuove responsabilità rende chiaro come esse non vadano assunte da un soggetto auto-referenziale (che si confronta solo con se stesso), bensì in relazione alla categoria di alterità, sia oggettiva (la natura e le cose) che soggettiva (il prossimo). Così, le grandi questioni filosofiche si allontanano da quella teoria della conoscenza, centrale nella modernità, imperniata sull’egemonia dell’ego cogito, e si riconfigurano attorno alla questione della relazione all’alterità; è quindi nell’ambito di tale relazione che devono essere rintracciate le nuove (co-)responsabilità dell’uomo. All’interno di tale orizzonte etico, il soggetto non appare più come un io auto-fondantesi, bensì come un sé già costituito ed inserito in un mondo di rapporti già istituiti, non creati da lui, ma ai quali è chiamato a corrispondere, anche con il silenzio dell’ascolto; è solo nell’ambito di tale paradigma che il soggetto può tendere alla felicità, individuale e collettiva. Si passa così dalla relazione teoretica, tipica della modernità occidentale, che con il medium della conoscenza(1) lega l’ego all’alter ego, alla relazione etica che tramite il medium della cura unisce il sé agli altri da sé. Per questo, vi sono pensatori (in particolar modo Emmanuel Lévinas, Paul Ricœur e Jacques Derrida) che, criticando ma non rifiutando la tradizione di pensiero di cui l’Occidente è erede, focalizzano la loro attenzione non tanto sullo statuto delle responsabilità dell’uomo moderno (come è, ad esempio, in Hans Jonas), quanto sul modus grazie al quale gli uomini si relazionano, costruendo (quasi come un effetto collaterale) in e per tali relazioni, quelle responsabilità.
L’etica appare, così, non come un insieme di regole procedurali, ma come una modalità di decifrazione dei rapporti fra gli uomini, approdante al rifiuto di qualsiasi forma di lotta per il riconoscimento e di logiche utilitaristiche, che troppo spesso risolvono i nodi politico-morali con la schematica concessione di vantaggi per i meno avvantaggiati, ed esortante alla loro sostituzione con un sentimento di rispetto disinteressato per gli altri, riassunto da quel “comandamento dell’amore” che
è il comandamento che precede ogni Legge è la parola che l’amante rivolge all’amata: ‘Amami’ […] contiene le condizioni della sua propria obbedienza grazie alla tenerezza dell’esortazione ‘Amami’(2)
Per tale via appaiono, inoltre, superabili i termini del conflitto etico-politico contemporaneo fra comunitaristi e liberalisti, fra differenza dei valori e universalismo delle norme, che rischia di rimanere sterile in quanto
Sono queste le problematiche che con Lévinas possono essere superate, sostituendo la soluzione “egologica” husserliana al problema dell’intersoggettività, con la questione dell’alterità(4). Lévinas infatti imputa ad Edmund Husserl l’avere affrontato il problema dell’intersoggettività attraverso la categoria dell’ego cogito che, inevitabilmente, può cogliere l’altro solo come alter ego, ma così facendo, l’ego rimane il momento originario e costituente del mondo e degli altri, rispetto al quale l’alter appare inizialmente con i caratteri dell’estraneità(5). Contestando il “narcisismo del cogito” ed il mito dell’interiorità della coscienza, Lévinas si concentra sull’esteriorità dell’assolutamente altro, emergente dal volto, volendo però liberare la relazione con il volto dell’altro dalla dialettica del riconoscimento, tipica della modernità occidentale(6). Per questo l’altro non è, per Lévinas, descrivibile come alter (io estraneo), ma come autrui, pronome indefinito, riferibile solo alla persona, espressione quindi indicante la presenza di qualcun altro, ma senza la pretesa di identificarlo inserendolo nelle categorie abituali del nostro pensiero:
l’espressione francese autrui, pronome indefinito invariabile, che rifiuta in ogni caso l’articolo, sia quello determinativo che quello indeterminativo, indica nel francese corrente l’altro uomo, l’altro uomo in quanto tale, in quanto differente da me, in definitiva, il prossimo, come oggetto di considerazione giuridica o morale(7)
Il pronome autrui permette a Lévinas di descrivere una relazione con il prossimo alternativa a quella
relazione con l’essere, che si esplica come ontologia, consiste(nte) nel neutralizzare l’essere per comprenderlo o per impossessarsene. Non è quindi una relazione con l’altro in quanto tale, ma la riduzione dell’Altro al Medesimo […] l’ontologia, come filosofia prima che non mette in questione il Medesimo, è una filosofia dell’ingiustizia(8)
Riduzione che rimane una costante anche dell’ontologia heideggeriana, che subordina la relazione con gli altri, alla relazione con l’essere:
l’essere prima dell’ente, l’ontologia prima della metafisica, cioè la libertà (sia anche quella della teoria) prima della giustizia. E’ un movimento nel Medesimo prima dell’obbligo nei confronti dell’Altro(9)
Ora, il fatto che Lévinas critichi la forma di fondamento autocosciente di ogni sapere e potere, assunta nella modernità dalla soggettività umana, non significa che egli rifiuti la questione della soggettività, ma che voglia declinarla in una forma non egocentrata, bensì esposta all’evento dell’altro. Una rilevante conseguenza di tale “riorientamento etico” consiste in una diversa concezione della responsabilità che, da libero atto di volontà, diviene risposta all’appello proveniente da autrui. In questi termini, essendo la responsabilità una risposta data all’Altro, essa si colloca immediatamente in un contesto intersoggettivo, caratterizzabile come “paradigma della cura” (alternativo al “paradigma dei diritti”), nel quale l’Altro, anziché ridursi al Medesimo, mantiene la propria differenza, e nel quale la “morale del debito” viene abbandonata a favore dell’“etica del dono”, tipica delle cosiddette relazioni “deboli” quali l’amore, l’amicizia, la fraternità, l’accoglienza e l’ospitalità, da Lévinas esemplificate in figure quali l’orfano, la vedova, l’ostaggio («Altri, che mi domina nella sua trascendenza è anche lo straniero, la vedova e l’orfano verso cui ho degli obblighi»(10)). Siamo qui di fronte ad una innovativa prospettiva etica, in quanto
Il patto è un accordo di interessi […] Soltanto nel dono c’è una anticipazione assoluta. Se l’etica si costruisce solo sul patto, in fondo è motivata dall’interesse. Lo scatto più grande è essere disponibili all’altro. E questo è il dono. E c’è una parola che lo contrassegna, che si chiama “amore”. Il culmine dell’etica è la capacità di amare(11)
Per realizzare ciò, è però necessario porre al centro della riflessione etica non la libertà, ma la giustizia, intesa come ineludibile condizione di ogni relazione all’alterità, infatti
La relazione di alterità è la dimensione fondamentale dell’etica […] E allora la domanda etica diventa: qual è la giusta relazione con l’altro? […] (ed a sua volta) la giustizia, come la non prevaricazione, è il dare ad ognuno come dicevano i latini – quello che è suo, in una equa spartizione dei beni e delle risorse […] Una delle ragioni fondamentali per cui si scatena nel mondo la violenza è l’ingiustizia(12)
Tuttavia, l’esigenza di riorientare l’etica in direzione della giustizia, può essere compresa solo partendo da una nuova concezione dell’io. La questione dell’alterità, infatti, rende evidente che l’ego si costituisce nell’ambito di una relazione con l’alterità stessa, relazione che, nella prima fase del suo pensiero, Derrida chiama différance(13), intendendo con tale termine non una differenza destinata ad essere dialetticamente assorbita e superata in un momento successivo e superiore, ma l’affermazione positiva di un’esistenza insuperabile nella propria singolarità.
A questo proposito, risulta illuminante il percorso filosofico compiuto da Ricœur nella seconda metà del Novecento(14). Egli, rielaborando l’eredità speculativa dei “maestri del sospetto” Karl Marx, Friedrich Nietzsche e Sigmund Freud, propone la concezione dell’io come identità narrativa che riesce ad autocomprendersi, a trovare una sua ipseità, solo nel confronto con gli altri, strutturandosi infine in una forma di soggettività descrivibile come un “Sé come un altro”. Il filosofo francese, infatti, rileggendo Freud, giunge ad una concezione del sé come contemporaneità di essere ed atto, di pensiero e concretezza:
La riflessione non è tanto una giustificazione della scienza e del dovere, quanto una riappropriazione del nostro sforzo per esistere; di questo compito più vasto l’epistemologia è solo una parte: dobbiamo recuperare l’atto di esistere, la posizione del sé in tutto lo splendore delle sue opere […] La filosofia è etica, ma l’etica non è puramente morale […] Il suo scopo è di cogliere l’ego nel suo sforzo per esistere, nel suo desiderio di essere(15)
Viene così sostituita alla semplicità irriflessiva ed immediata del cogito, la ricchezza delle forme concrete nelle quali il sé si oggettiva nel mondo e le loro possibili interpretazioni (in termini teoretici, Ricœur abbandona qui gli strumenti concettuali heideggeriani, passando a quelli lévinasiani(16)). Questa particolare concezione del sé, viene riassunta nell’espressione “metafora viva”, indicante la commistione fra creatività filosofica e realtà concreta: la metafora offre la possibilità di avere una nuova visione della realtà, “torcendo” (giocando con) il linguaggio, così da poter ridescrivere il mondo, aprendolo a nuovi progetti. La metafora può, dunque, invogliare a riplasmare la realtà, in tal modo, la riflessione filosofica ha uno specifico carattere pratico. Ora, nonostante il fatto che il parallelo con la teoria critica francofortese, sulla necessità e sulle modalità del riorientamento sociale, sia qui immediato, la specificità del pensiero ricœuriano consiste nel non essere più rivolto al cogito, ma al sé, il quale si costituisce in una relazione all’alterità non più modellata sulla dialettica servo/padrone, ma sulla scoperta di forme di alterità interne allo stesso sé, ovvero
è necessario che l’irruzione dell’altro, spezzando la chiusura del medesimo, incontri la complicità di questo movimento di eclissi attraverso cui il sé si rende disponibile all’altro da sé(17)
Nell’amicizia, Ricœur, rintraccia la chiave per avviare tale complicità, disponibilità; l’amicizia è infatti una relazione di reciprocità, nella quale a ciascuno è nota l’identità dell’altro, ma nessuno tende all’annullamento della stessa. Ora, tali considerazioni sono propedeutiche ad un ampliamento del respiro del discorso ricœuriano che, infatti, basa su di esse l’etica, intesa come l’aspirazione a «vivere bene con e per gli altri all’interno di istituzioni giuste»(18), distinguendola dalla morale, intesa come una somma di norme costrittive. Tuttavia, il primato dell’etica sulla morale non deve condurre al rifiuto di quest’ultima, anzi, etica e morale, universalismo e contestualismo, devono essere tenute insieme (pur sempre in un rapporto gerarchico) da quella “saggezza pratica”, che può dare forma alla giustizia e, dunque, alla “vita buona”. Quindi, se il primo grande ambito di riflessione è quello relativo alla nostra “sensibilità” ed ai rapporti personali su di essa basati, per evitare il rischio che, come nelle tragedie del XX secolo «lo spirito di un popolo è pervertito al punto da nutrire una Sittlickheit assassina»(19), il successivo nucleo teorico deve riguardare l’applicazione istituzionale dell’etica, non solo nel campo della politica, quanto, soprattutto, in quello del diritto. Infatti
l’oggetto principale della nostra cura era il legame fra etica e politica, mentre rimaneva una impasse sullo statuto specifico del giuridico […] per quanto meravigliosa possa essere la virtù dell’ amicizia, essa non è in grado di assolvere ai compiti della giustizia e nemmeno di generarla quale virtù distinta. La virtù di giustizia si stabilisce su un rapporto di distanza dall’altro, altrettanto originario del rapporto di prossimità con l’altro, offerto dal suo volto e dalla sua voce. Questo rapporto all’altro, se possiamo osare, è immediatamente mediato dall’istituzione. L’altro, nell’amicizia, è il tu, l’altro, nella giustizia, è il ciascuno, come viene significato dall’adagio latino: suum cuique tribuere, a ciascuno il suo(20)
Insomma, Ricœur punta ad integrare la “poetica dell’amore” con la “prosa della giustizia”:
In effetti, senza il correttivo del comandamento d’amore, la Regola d’oro (la giustizia che, pur incarnandosi in giurisprudenza, resta sempre eccedente rispetto a quest’ultima) sarebbe continuamente forzata nel senso di una massima utilitaristica (come, per Ricœur, avviene in John Rawls, che riduce la società ad un’impresa di distribuzione di beni), la cui formula sarebbe do ut des(21)
Solo una reciprocità non utilitarista consente di amare l’altro come se stesso, applicando così il concetto aristotelico di philautía, inteso non tanto in senso limitativo (delle pulsioni negative) quanto in forma attiva, non solo all’amicizia ma anche al senso di giustizia, infatti
attraverso la reciprocità l’amicizia è congiunta alla giustizia […] in Aristotele stesso l’amicizia fa da transizione fra la prospettiva della ‘vita buona’ […] virtù apparentemente solitaria, e la giustizia, virtù di una pluralità umana di carattere politico […] il tratto, che a lungo sembra avvalorare quella che pare proprio una raffinata forma di egoismo, sotto il titolo di philautía, finisce per sfociare, in modo quasi inatteso, sull’idea che ‘l’uomo felice’ ha ‘bisogno di amici’. L’alterità ritrova, così, quei diritti che la philautía sembrava dover occultare […] Il versante ‘oggettivo’ dell’amore di sé farà sì che la philautía – che di ciascuno fa l’amico di se stesso – non sia mai predilezione non mediata di se stessi, ma desiderio orientato al riferimento del buono(22)
Simili problematiche etico/politiche vengono prese in considerazione anche da Derrida, a partire dalla necessità di un ripensamento delle istituzioni politiche che, nate in un contesto nazionale o continentale, sono oggi chiamate ad agire su scala globale, a rispondere responsabilmente a domande di respiro mondiale(23). Per Derrida, l’ a-venire, è il frutto della risposta che, nel presente, diamo all’eredità di cui siamo portatori, ma la risposta che, in chiave antropologica, la filosofia moderna ha dato(24), consiste nella descrizione dell’uomo come di un essere calcolabile, conseguentemente anche la morale è divenuta una faccenda di contabilità, nella quale una colpa origina un debito. Alternativamente alla “morale del dovere”, delle obbligazioni, Derrida propone un’“etica del dono”, nella quale i temi dell’amicizia, dell’ospitalità, della giustizia, dei diritti umani e del cosmopolitismo vengono definiti come delle vere e proprie relazioni etiche di risposta all’appello dell’altro, eccedenti qualsiasi norma, codice o calcolo di costi e benefici. L’etica del dono rappresenta quindi un superamento della dialettica del riconoscimento, tipica della ragione calcolante che conosce l’altro solo identificandolo secondo le categorie della propria razionalità, ed una conseguente sopportazione dell’aporia del non sapere sull’altro; in altri termini, si tratta qui di un
rifiuto ontologico del tradizionale soggetto forte, del cogito della filosofia occidentale […] (con conseguente presa di posizione) nei confronti delle strutture politico-istituzionali che costituiscono e regolano il nostro lavoro, le nostre competenze e le nostre prestazioni […] (elaborando così) una nuova problematizzazione della responsabilità, problematizzazione che non necessariamente prende per buoni i codici ricevuti dal politico e dall’etico(25)
In questi termini, la giustizia si configura innanzi tutto come una “legge di giustizia” che, senza comandare ed ordinare nulla di particolare, indica verso un senso di ospitalità, scardinante i vincoli e i limiti identitari; essa rappresenta «lo spirito di ciò che orienta o fonda il diritto»(26).
Esiste però una problematica, inerente all’applicazione della legge di giustizia alla pratica politica: tale applicazione può infatti avvenire solo tramite delle leggi condizionate, le quali generano il rischio di un decadimento del senso della legge di giustizia in mere considerazioni economiche, calcolanti (come oggi spesso accade). Si impone così la necessità di articolare un diverso pensiero politico, originante una nuova democrazia-a-venire, nella quale il diritto rimanga costantemente ispirato a qualcosa di superiore ed incontaminabile dalla politica e dal diritto stesso, infatti
la giustizia è diversa dal diritto al quale tuttavia è così vicina, e in verità inscindibile […] Voglio subito insistere per riservare la possibilità di una giustizia, o di una legge che non solamente eccede o contraddice il diritto, ma che forse non ha alcun rapporto con il diritto, oppure ha con esso un rapporto così strano che può tanto esigere il diritto quanto escluderlo(27)
Il principale risvolto politico di tale impostazione risiede nel fatto che, se il diritto è la forma storica della giustizia, esso può manifestarsi solo con un atto di forza, attraverso un potere, un’autorità riconosciuta che lo istituisce. Tuttavia, il fondamento della “forza di legge” è un “fondamento mistico” poiché si giustifica da sé, affermando l’impossibilità di un principio superiore “meta-giuridico”, sicché il diritto, “rappresentante in terra della giustizia”, non ha alcun’altra legittimazione che quella dell’atto di violenza, il quale però, non costituisce un atto ingiusto: la fondazione del diritto si pone anteriormente al diritto stesso, e dunque al di fuori di esso, e non può pertanto essere giudicata con categorie giuridiche (similmente a quanto sostiene Hans Kelsen in merito alla Grundnorm)(28).
Tutto ciò si condensa nell’esigenza di ripensare le grandi idee della nostra tradizione culturale, a cominciare da quelle di uguaglianza, libertà e fraternità; l’amicizia rappresenta il vettore tramite il quale operare tale reinterpretazione. Infatti, quelle relazioni, ed il modello di democrazia da esse derivanti, sottintendono sia una simmetria nella quale chi dona è autorizzato ad aspettarsi qualcosa in cambio, sia una “teologia politica ispocentrica”:
il parricidio e il regicidio non sono senza rapporto con una certa interpretazione genealogica, filiale e soprattutto fraternalista dell’uguaglianza democratica (libertà, uguaglianza, fraternità): lettura del contratto ugualitario istituito tra dei figli e dei fratelli rivali nella successione del padre, per la (s)partizione del kratos nel demos […] perfino dalla teologia politica inconfessata, e altrettanto fallocentrica, fallo-paterno-filio-ispocentrica, della sovranità del popolo – in una parola della sovranità democratica. L’attributo ‘ispocentrico’ attraversa e unisce in un sol tratto tutti gli altri attributi(29)
Al contrario, l’amicizia è una relazione asimmetrica, dissimmetrica, nella quale il dono è sempre eccessivo, immotivato e, soprattutto, incondizionato:
è possibile pensare e mettere in pratica la democrazia, sradicandovi quel che tutte queste figure dell’amicizia (filosofica e religiosa) vi prescrivono di fraternità, ovvero di famiglia e di etnia androcentrica? E’ possibile, facendosi carico di una certa memoria fedele alla ragione democratica ed alla ragione tout court, direi anzi ai lumi di una certa Aufklärung (lasciando così aperto l’abisso che si apre ancora oggi sotto queste parole), non già fondare, laddove non si tratta indubbiamente più di fondare, ma aprire all’avvenire, o piuttosto al “vieni” di una certa democrazia?(30)
In qualsiasi modo si voglia rispondere a tali questioni, il solo fatto che esse siano state in tal modo poste, il solo fatto che una parte non indifferente della filosofia contemporanea abbia concentrato la sua attenzione sul tema dell’alterità, testimonia della necessità (e, direi, dell’urgenza) di un’integrazione fra prospettive filogenetiche ed ontogenetiche; «non ha molto senso decostruire la comunità se non si decostruisce l’individuo»(31).
1) «Conoscere equivale ad impossessarsi dell’essere a partire da niente o a ridurlo a niente, privarlo della sua alterità», E. Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1990, p. 41.
2) P. Ricœur, Amore e giustizia, Morcellania, Brescia 2000, pp. 15-16; cfr., sullo stesso tema, P. Ricœur, Il Giusto, SEI, Torino 1998.
3) A. Da Re, Figure dell’etica, in C. Vigna (cura), Introduzione all’etica, Vita e Pensiero, Milano 2001, p. 110.
4) Su Lévinas cfr. G. Ferretti, La filosofia di Levinas, Rosenberg & Sellier, Torino 1996, G. De Gennaro, Lévinas profeta della modernità, Lavoro, Lecce 2000, S. Malka, Emmanuel Levinas, Jaca Book, Milano 2003, F. Salvarezza, Emmanuel Lévinas, Mondadori, Milano 2003, e M. Vitali Rosati, Riflessione e trascendenza, ETS, Pisa 2003.
5) Tali osservazioni lévinasiane si riferiscono in particolar modo alla “quinta” delle “meditazioni cartesiane” di Husserl, cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, Armando, Roma 1999, su ciò anche C. Dovolich, Pensare l’alterità, in C. Dovolich (cura), Etica come responsabilità, Mimesis, Milano 2003, e G. Lissa, Emmanuel Lévinas, in Ibidem.
6) Cfr. di E. Lévinas, Umanesimo dell’altro uomo, Il Melangolo, Genova 1998, e Il volto infinito, Palomar, Bari 1999.
7) Nota del traduttore in E. Lévinas, Il tempo e l’altro, Il Melangolo, Genova 1993, p. 63; per un chiarimento dell’idea lévinasiana di alterità cfr., dello stesso autore, Alterità e trascendenza, Il Melangolo, Genova 2006.
8) E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., pp. 43-44, parentesi mia; ed ancora: «La filosofia occidentale è stata per lo più un’ontologia. Una riduzione dell’Altro al Medesimo», Ibidem, p. 36; su quest’opera cfr. C. Canzi, Genealogia di Totalità e infinito, ExCogita, Milano 2004. Il confronto con l’eredità husserliana ed heideggeriana è fortemente presente anche in E. Lévinas, Etica come filosofia prima, Guerini, Milano 2001. Un possibile superamento degli esiti solipsistici dell’ontologia grazie all’etica come dimensione relazionale è presente anche in G. Vaccaro, Dall’esistenza alla morale, Cadmo, Firenze 1996.
9) E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 45; su questo cfr. G. Palumbo, Inquietudine per l’altro, Fondazione Vito Fazio-Allmayer, Palermo 2001.
10) E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 220.
11) S. Natoli, Che cosa sono i valori, in Rai Educational, Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, www.educational.rai.it.
12) S. Natoli, L’etica della vita quotidiana, in Rai Educational, Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, www.educational.rai.it, parentesi mia.
13) Sulle tematiche della differenza e dell’alterità nel Novecento cfr. F. Colombo, Rappresentazioni dell’Altro, Guerini, Milano 1999, e A. Ales Bello, Le figure dell’altro, Effatà, Torino 2000.
14) Su Ricœur cfr. A. Montalto, Storia, tempo e racconto in Paul Ricœur, Falzea, Reggio Calabria 2001, D. M. Conanzi, Paul Ricœur, Giappichelli, Torino 2004, F. Brezzi, Introduzione a Ricœur, Laterza, Roma 2006, e J. Michel, Paul Ricœur: une philosophie de l’agir humain, Les Editions du Cerf, Paris 2006.
15) P. Ricœur, Dell’interpretazione, il Saggiatore, Milano 1967, pp. 60-61; sulla definizione del sé come potenza ed atto cfr. anche P. Ricœur, Verso quale ontologia?, in Sé come un altro, Jaca Book, Milano 2002.
16) Per un confronto fra Lévinas e Ricœur cfr. L. Pialli, Fenomenologia del fragile, Ed. Scientifiche italiane, Napoli 1998, e L. Margaria, Passivo e/o attivo, Armando, Roma 2005.
17) P. Ricœur, Sé come un altro, cit., p. 262, e cfr. P Ricœur – G. Marcel, Per un’etica dell’alterità, Lavoro, Roma 1998; sulla transizione ricœuriana delle dialettiche identitarie dal cogito al sé cfr. P. Ricœur, Percorsi del riconoscimento: tre studi, Cortina, Milano 2005, M. Pulito, Identità come processo ermeneutico, Armando, Roma 2003, e L. Altieri, La metafora di Narciso: il Cogito itinerante di Paul Ricœur, La Città del Sole, Napoli 2004.
18) P. Ricœur, Sé come un altro, cit., p. 470.
19) Ibidem, p. 362.
20) P. Ricœur, Il Giusto, cit., pp. 3 e 9, lo stesso autore, infatti, differenzia «le relazioni interpersonali, il cui emblema è l’amicizia, dalle relazioni istituzionali, aventi per ideale la giustizia», P. Ricœur, La persona, Morcellania, Brescia 2006, p. 18; sulla questione della giustizia cfr., dello stesso autore, Il male, Morcellania, Brescia, 1993, e L’idea di giustizia, in Rai Educational, Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, www.educational.rai.it.
21) P. Ricœur, Amore e giustizia, Morcellania, Brescia 2000, p. 40, parentesi mie; sulle tematiche socio-politiche di Ricœur e Derrida cfr. A. M. Nieddu, Amicizia e solitudine tra ricerca di autenticità ed esigenza di giustizia, in C. Di Marco (cura), Un mondo altro è possibile, Mimesis, Milano 2004.
22) P. Ricœur, Sé come un altro, cit., pp. 279, 277 e 278; cfr. A. Bruno, Un’etica della finitezza, Milella, Lecce 2000.
23) Come testimonia il Colloquio di Royamont (1990), dal titolo L’etique du don, successivo a quello di Cerisy-la-Salle (1980), intitolato Le fins de l’homme; su Derrida cfr. M. Vergani, Jacques Derrida, Mondadori, Milano 2000, C. Resta, L’evento dell’altro: etica e politica in Jacques Derrida, Bollati Boringhieri, Torino 2003, M. Ferraris, Introduzione a Derrida, Laterza, Roma 2005, A. Andronico, La disfunzione del sistema: giustizia, alterità e giudizio in Jacques Derrida, Giuffrè, Milano 2006, e M. Iofrida (cura), Apres coup l’inevitabile ritardo: l’eredità di Derrida e la filosofia a venire, Bulzoni, Roma 2006 (Atti delle giornate di Studi in memoria di Jacques Derrida; Bologna 13-14 Giugno 2005).
24) Derrida si riferisce in particolar modo a F. Nietzsche, Genealogia della morale (UTET, Torino 2003), specificatamente alla Seconda dissertazione, contrapponendolo al non-sapere sull’altro, esito ultimo di E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., su ciò cfr. i lavori di C Dovolich, Derrida tra differenza e trascendentale, Mimesis, Milano 1995, Il soggetto etico e la decisione, in «Fenomenologia e società», n. 2, 1999, e Derrida di fronte alla questione etica, in C. Di Marco (cura), Percorsi dell’etica contemporanea, Mimesis, Milano 1999.
25) J. Derrida, Mochlos o il conflitto delle facoltà, in «aut-aut», n. 208, 1995, pp. 13, 40 e 31, parentesi mie.
26) J. Derrida, Spettri di Marx, Cortina, Milano 1994, p. 45; cfr. anche J. Derrida, Sull’ospitalità, Baldini&Castoldi, Milano 2000.
27) J. Derrida – A. Dufourmantelle, L’ospitalità, Baldini & Castoldi, Milano 2002, p. 53, e J. Derrida, Forza di legge – Il «fondamento mistico dell’autorità», Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 50; a proposito del concetto di “forza di legge”, lo stesso Derrida (cfr. Nome di Benjamin, in Ibidem) afferma di avere ragionato attorno a W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus (Einaudi, Torino 1995).
28) Cfr. S. Regazzoni, La decostruzione del politico: undici tesi su Derrida, Il Melangolo, Genova 2006.
29) J. Derrida, Stati canaglia, Cortina, Milano 2003, pp. 38-39.
30) J. Derrida, Politiche dell’amicizia, Cortina, Milano 1995, p. 361.
31) A. Masullo, Considerazioni sull’estraeno, in M. Fimiani (cura), Philía, La Città del Sole, Napoli 2001, p. 30.
Il tentativo di definire le nuove responsabilità dell’uomo moderno, testimonia l’inquietudine e lo spaesamento di un epoca (la nostra) che fa seguito al decentramento del cogito, alla “morte di Dio” ed al politeismo dei valori. Ma proprio la tematizzazione di tali nuove responsabilità rende chiaro come esse non vadano assunte da un soggetto auto-referenziale (che si confronta solo con se stesso), bensì in relazione alla categoria di alterità, sia oggettiva (la natura e le cose) che soggettiva (il prossimo). Così, le grandi questioni filosofiche si allontanano da quella teoria della conoscenza, centrale nella modernità, imperniata sull’egemonia dell’ego cogito, e si riconfigurano attorno alla questione della relazione all’alterità; è quindi nell’ambito di tale relazione che devono essere rintracciate le nuove (co-)responsabilità dell’uomo. All’interno di tale orizzonte etico, il soggetto non appare più come un io auto-fondantesi, bensì come un sé già costituito ed inserito in un mondo di rapporti già istituiti, non creati da lui, ma ai quali è chiamato a corrispondere, anche con il silenzio dell’ascolto; è solo nell’ambito di tale paradigma che il soggetto può tendere alla felicità, individuale e collettiva. Si passa così dalla relazione teoretica, tipica della modernità occidentale, che con il medium della conoscenza(1) lega l’ego all’alter ego, alla relazione etica che tramite il medium della cura unisce il sé agli altri da sé. Per questo, vi sono pensatori (in particolar modo Emmanuel Lévinas, Paul Ricœur e Jacques Derrida) che, criticando ma non rifiutando la tradizione di pensiero di cui l’Occidente è erede, focalizzano la loro attenzione non tanto sullo statuto delle responsabilità dell’uomo moderno (come è, ad esempio, in Hans Jonas), quanto sul modus grazie al quale gli uomini si relazionano, costruendo (quasi come un effetto collaterale) in e per tali relazioni, quelle responsabilità.
L’etica appare, così, non come un insieme di regole procedurali, ma come una modalità di decifrazione dei rapporti fra gli uomini, approdante al rifiuto di qualsiasi forma di lotta per il riconoscimento e di logiche utilitaristiche, che troppo spesso risolvono i nodi politico-morali con la schematica concessione di vantaggi per i meno avvantaggiati, ed esortante alla loro sostituzione con un sentimento di rispetto disinteressato per gli altri, riassunto da quel “comandamento dell’amore” che
è il comandamento che precede ogni Legge è la parola che l’amante rivolge all’amata: ‘Amami’ […] contiene le condizioni della sua propria obbedienza grazie alla tenerezza dell’esortazione ‘Amami’(2)
Per tale via appaiono, inoltre, superabili i termini del conflitto etico-politico contemporaneo fra comunitaristi e liberalisti, fra differenza dei valori e universalismo delle norme, che rischia di rimanere sterile in quanto
l’universalismo astratto ed estrinseco non è capace di valorizzare adeguatamente le diversità; il contestualismo si autoconfina invece in un particolarismo che non sa andare oltre se stesso, in quanto le diversità, benché apprezzate, non riescono a interloquire fra loro(3)
Sono queste le problematiche che con Lévinas possono essere superate, sostituendo la soluzione “egologica” husserliana al problema dell’intersoggettività, con la questione dell’alterità(4). Lévinas infatti imputa ad Edmund Husserl l’avere affrontato il problema dell’intersoggettività attraverso la categoria dell’ego cogito che, inevitabilmente, può cogliere l’altro solo come alter ego, ma così facendo, l’ego rimane il momento originario e costituente del mondo e degli altri, rispetto al quale l’alter appare inizialmente con i caratteri dell’estraneità(5). Contestando il “narcisismo del cogito” ed il mito dell’interiorità della coscienza, Lévinas si concentra sull’esteriorità dell’assolutamente altro, emergente dal volto, volendo però liberare la relazione con il volto dell’altro dalla dialettica del riconoscimento, tipica della modernità occidentale(6). Per questo l’altro non è, per Lévinas, descrivibile come alter (io estraneo), ma come autrui, pronome indefinito, riferibile solo alla persona, espressione quindi indicante la presenza di qualcun altro, ma senza la pretesa di identificarlo inserendolo nelle categorie abituali del nostro pensiero:
l’espressione francese autrui, pronome indefinito invariabile, che rifiuta in ogni caso l’articolo, sia quello determinativo che quello indeterminativo, indica nel francese corrente l’altro uomo, l’altro uomo in quanto tale, in quanto differente da me, in definitiva, il prossimo, come oggetto di considerazione giuridica o morale(7)
Il pronome autrui permette a Lévinas di descrivere una relazione con il prossimo alternativa a quella
relazione con l’essere, che si esplica come ontologia, consiste(nte) nel neutralizzare l’essere per comprenderlo o per impossessarsene. Non è quindi una relazione con l’altro in quanto tale, ma la riduzione dell’Altro al Medesimo […] l’ontologia, come filosofia prima che non mette in questione il Medesimo, è una filosofia dell’ingiustizia(8)
Riduzione che rimane una costante anche dell’ontologia heideggeriana, che subordina la relazione con gli altri, alla relazione con l’essere:
l’essere prima dell’ente, l’ontologia prima della metafisica, cioè la libertà (sia anche quella della teoria) prima della giustizia. E’ un movimento nel Medesimo prima dell’obbligo nei confronti dell’Altro(9)
Ora, il fatto che Lévinas critichi la forma di fondamento autocosciente di ogni sapere e potere, assunta nella modernità dalla soggettività umana, non significa che egli rifiuti la questione della soggettività, ma che voglia declinarla in una forma non egocentrata, bensì esposta all’evento dell’altro. Una rilevante conseguenza di tale “riorientamento etico” consiste in una diversa concezione della responsabilità che, da libero atto di volontà, diviene risposta all’appello proveniente da autrui. In questi termini, essendo la responsabilità una risposta data all’Altro, essa si colloca immediatamente in un contesto intersoggettivo, caratterizzabile come “paradigma della cura” (alternativo al “paradigma dei diritti”), nel quale l’Altro, anziché ridursi al Medesimo, mantiene la propria differenza, e nel quale la “morale del debito” viene abbandonata a favore dell’“etica del dono”, tipica delle cosiddette relazioni “deboli” quali l’amore, l’amicizia, la fraternità, l’accoglienza e l’ospitalità, da Lévinas esemplificate in figure quali l’orfano, la vedova, l’ostaggio («Altri, che mi domina nella sua trascendenza è anche lo straniero, la vedova e l’orfano verso cui ho degli obblighi»(10)). Siamo qui di fronte ad una innovativa prospettiva etica, in quanto
Il patto è un accordo di interessi […] Soltanto nel dono c’è una anticipazione assoluta. Se l’etica si costruisce solo sul patto, in fondo è motivata dall’interesse. Lo scatto più grande è essere disponibili all’altro. E questo è il dono. E c’è una parola che lo contrassegna, che si chiama “amore”. Il culmine dell’etica è la capacità di amare(11)
Per realizzare ciò, è però necessario porre al centro della riflessione etica non la libertà, ma la giustizia, intesa come ineludibile condizione di ogni relazione all’alterità, infatti
La relazione di alterità è la dimensione fondamentale dell’etica […] E allora la domanda etica diventa: qual è la giusta relazione con l’altro? […] (ed a sua volta) la giustizia, come la non prevaricazione, è il dare ad ognuno come dicevano i latini – quello che è suo, in una equa spartizione dei beni e delle risorse […] Una delle ragioni fondamentali per cui si scatena nel mondo la violenza è l’ingiustizia(12)
Tuttavia, l’esigenza di riorientare l’etica in direzione della giustizia, può essere compresa solo partendo da una nuova concezione dell’io. La questione dell’alterità, infatti, rende evidente che l’ego si costituisce nell’ambito di una relazione con l’alterità stessa, relazione che, nella prima fase del suo pensiero, Derrida chiama différance(13), intendendo con tale termine non una differenza destinata ad essere dialetticamente assorbita e superata in un momento successivo e superiore, ma l’affermazione positiva di un’esistenza insuperabile nella propria singolarità.
A questo proposito, risulta illuminante il percorso filosofico compiuto da Ricœur nella seconda metà del Novecento(14). Egli, rielaborando l’eredità speculativa dei “maestri del sospetto” Karl Marx, Friedrich Nietzsche e Sigmund Freud, propone la concezione dell’io come identità narrativa che riesce ad autocomprendersi, a trovare una sua ipseità, solo nel confronto con gli altri, strutturandosi infine in una forma di soggettività descrivibile come un “Sé come un altro”. Il filosofo francese, infatti, rileggendo Freud, giunge ad una concezione del sé come contemporaneità di essere ed atto, di pensiero e concretezza:
La riflessione non è tanto una giustificazione della scienza e del dovere, quanto una riappropriazione del nostro sforzo per esistere; di questo compito più vasto l’epistemologia è solo una parte: dobbiamo recuperare l’atto di esistere, la posizione del sé in tutto lo splendore delle sue opere […] La filosofia è etica, ma l’etica non è puramente morale […] Il suo scopo è di cogliere l’ego nel suo sforzo per esistere, nel suo desiderio di essere(15)
Viene così sostituita alla semplicità irriflessiva ed immediata del cogito, la ricchezza delle forme concrete nelle quali il sé si oggettiva nel mondo e le loro possibili interpretazioni (in termini teoretici, Ricœur abbandona qui gli strumenti concettuali heideggeriani, passando a quelli lévinasiani(16)). Questa particolare concezione del sé, viene riassunta nell’espressione “metafora viva”, indicante la commistione fra creatività filosofica e realtà concreta: la metafora offre la possibilità di avere una nuova visione della realtà, “torcendo” (giocando con) il linguaggio, così da poter ridescrivere il mondo, aprendolo a nuovi progetti. La metafora può, dunque, invogliare a riplasmare la realtà, in tal modo, la riflessione filosofica ha uno specifico carattere pratico. Ora, nonostante il fatto che il parallelo con la teoria critica francofortese, sulla necessità e sulle modalità del riorientamento sociale, sia qui immediato, la specificità del pensiero ricœuriano consiste nel non essere più rivolto al cogito, ma al sé, il quale si costituisce in una relazione all’alterità non più modellata sulla dialettica servo/padrone, ma sulla scoperta di forme di alterità interne allo stesso sé, ovvero
è necessario che l’irruzione dell’altro, spezzando la chiusura del medesimo, incontri la complicità di questo movimento di eclissi attraverso cui il sé si rende disponibile all’altro da sé(17)
Nell’amicizia, Ricœur, rintraccia la chiave per avviare tale complicità, disponibilità; l’amicizia è infatti una relazione di reciprocità, nella quale a ciascuno è nota l’identità dell’altro, ma nessuno tende all’annullamento della stessa. Ora, tali considerazioni sono propedeutiche ad un ampliamento del respiro del discorso ricœuriano che, infatti, basa su di esse l’etica, intesa come l’aspirazione a «vivere bene con e per gli altri all’interno di istituzioni giuste»(18), distinguendola dalla morale, intesa come una somma di norme costrittive. Tuttavia, il primato dell’etica sulla morale non deve condurre al rifiuto di quest’ultima, anzi, etica e morale, universalismo e contestualismo, devono essere tenute insieme (pur sempre in un rapporto gerarchico) da quella “saggezza pratica”, che può dare forma alla giustizia e, dunque, alla “vita buona”. Quindi, se il primo grande ambito di riflessione è quello relativo alla nostra “sensibilità” ed ai rapporti personali su di essa basati, per evitare il rischio che, come nelle tragedie del XX secolo «lo spirito di un popolo è pervertito al punto da nutrire una Sittlickheit assassina»(19), il successivo nucleo teorico deve riguardare l’applicazione istituzionale dell’etica, non solo nel campo della politica, quanto, soprattutto, in quello del diritto. Infatti
l’oggetto principale della nostra cura era il legame fra etica e politica, mentre rimaneva una impasse sullo statuto specifico del giuridico […] per quanto meravigliosa possa essere la virtù dell’ amicizia, essa non è in grado di assolvere ai compiti della giustizia e nemmeno di generarla quale virtù distinta. La virtù di giustizia si stabilisce su un rapporto di distanza dall’altro, altrettanto originario del rapporto di prossimità con l’altro, offerto dal suo volto e dalla sua voce. Questo rapporto all’altro, se possiamo osare, è immediatamente mediato dall’istituzione. L’altro, nell’amicizia, è il tu, l’altro, nella giustizia, è il ciascuno, come viene significato dall’adagio latino: suum cuique tribuere, a ciascuno il suo(20)
Insomma, Ricœur punta ad integrare la “poetica dell’amore” con la “prosa della giustizia”:
In effetti, senza il correttivo del comandamento d’amore, la Regola d’oro (la giustizia che, pur incarnandosi in giurisprudenza, resta sempre eccedente rispetto a quest’ultima) sarebbe continuamente forzata nel senso di una massima utilitaristica (come, per Ricœur, avviene in John Rawls, che riduce la società ad un’impresa di distribuzione di beni), la cui formula sarebbe do ut des(21)
Solo una reciprocità non utilitarista consente di amare l’altro come se stesso, applicando così il concetto aristotelico di philautía, inteso non tanto in senso limitativo (delle pulsioni negative) quanto in forma attiva, non solo all’amicizia ma anche al senso di giustizia, infatti
attraverso la reciprocità l’amicizia è congiunta alla giustizia […] in Aristotele stesso l’amicizia fa da transizione fra la prospettiva della ‘vita buona’ […] virtù apparentemente solitaria, e la giustizia, virtù di una pluralità umana di carattere politico […] il tratto, che a lungo sembra avvalorare quella che pare proprio una raffinata forma di egoismo, sotto il titolo di philautía, finisce per sfociare, in modo quasi inatteso, sull’idea che ‘l’uomo felice’ ha ‘bisogno di amici’. L’alterità ritrova, così, quei diritti che la philautía sembrava dover occultare […] Il versante ‘oggettivo’ dell’amore di sé farà sì che la philautía – che di ciascuno fa l’amico di se stesso – non sia mai predilezione non mediata di se stessi, ma desiderio orientato al riferimento del buono(22)
Simili problematiche etico/politiche vengono prese in considerazione anche da Derrida, a partire dalla necessità di un ripensamento delle istituzioni politiche che, nate in un contesto nazionale o continentale, sono oggi chiamate ad agire su scala globale, a rispondere responsabilmente a domande di respiro mondiale(23). Per Derrida, l’ a-venire, è il frutto della risposta che, nel presente, diamo all’eredità di cui siamo portatori, ma la risposta che, in chiave antropologica, la filosofia moderna ha dato(24), consiste nella descrizione dell’uomo come di un essere calcolabile, conseguentemente anche la morale è divenuta una faccenda di contabilità, nella quale una colpa origina un debito. Alternativamente alla “morale del dovere”, delle obbligazioni, Derrida propone un’“etica del dono”, nella quale i temi dell’amicizia, dell’ospitalità, della giustizia, dei diritti umani e del cosmopolitismo vengono definiti come delle vere e proprie relazioni etiche di risposta all’appello dell’altro, eccedenti qualsiasi norma, codice o calcolo di costi e benefici. L’etica del dono rappresenta quindi un superamento della dialettica del riconoscimento, tipica della ragione calcolante che conosce l’altro solo identificandolo secondo le categorie della propria razionalità, ed una conseguente sopportazione dell’aporia del non sapere sull’altro; in altri termini, si tratta qui di un
rifiuto ontologico del tradizionale soggetto forte, del cogito della filosofia occidentale […] (con conseguente presa di posizione) nei confronti delle strutture politico-istituzionali che costituiscono e regolano il nostro lavoro, le nostre competenze e le nostre prestazioni […] (elaborando così) una nuova problematizzazione della responsabilità, problematizzazione che non necessariamente prende per buoni i codici ricevuti dal politico e dall’etico(25)
In questi termini, la giustizia si configura innanzi tutto come una “legge di giustizia” che, senza comandare ed ordinare nulla di particolare, indica verso un senso di ospitalità, scardinante i vincoli e i limiti identitari; essa rappresenta «lo spirito di ciò che orienta o fonda il diritto»(26).
Esiste però una problematica, inerente all’applicazione della legge di giustizia alla pratica politica: tale applicazione può infatti avvenire solo tramite delle leggi condizionate, le quali generano il rischio di un decadimento del senso della legge di giustizia in mere considerazioni economiche, calcolanti (come oggi spesso accade). Si impone così la necessità di articolare un diverso pensiero politico, originante una nuova democrazia-a-venire, nella quale il diritto rimanga costantemente ispirato a qualcosa di superiore ed incontaminabile dalla politica e dal diritto stesso, infatti
la giustizia è diversa dal diritto al quale tuttavia è così vicina, e in verità inscindibile […] Voglio subito insistere per riservare la possibilità di una giustizia, o di una legge che non solamente eccede o contraddice il diritto, ma che forse non ha alcun rapporto con il diritto, oppure ha con esso un rapporto così strano che può tanto esigere il diritto quanto escluderlo(27)
Il principale risvolto politico di tale impostazione risiede nel fatto che, se il diritto è la forma storica della giustizia, esso può manifestarsi solo con un atto di forza, attraverso un potere, un’autorità riconosciuta che lo istituisce. Tuttavia, il fondamento della “forza di legge” è un “fondamento mistico” poiché si giustifica da sé, affermando l’impossibilità di un principio superiore “meta-giuridico”, sicché il diritto, “rappresentante in terra della giustizia”, non ha alcun’altra legittimazione che quella dell’atto di violenza, il quale però, non costituisce un atto ingiusto: la fondazione del diritto si pone anteriormente al diritto stesso, e dunque al di fuori di esso, e non può pertanto essere giudicata con categorie giuridiche (similmente a quanto sostiene Hans Kelsen in merito alla Grundnorm)(28).
Tutto ciò si condensa nell’esigenza di ripensare le grandi idee della nostra tradizione culturale, a cominciare da quelle di uguaglianza, libertà e fraternità; l’amicizia rappresenta il vettore tramite il quale operare tale reinterpretazione. Infatti, quelle relazioni, ed il modello di democrazia da esse derivanti, sottintendono sia una simmetria nella quale chi dona è autorizzato ad aspettarsi qualcosa in cambio, sia una “teologia politica ispocentrica”:
il parricidio e il regicidio non sono senza rapporto con una certa interpretazione genealogica, filiale e soprattutto fraternalista dell’uguaglianza democratica (libertà, uguaglianza, fraternità): lettura del contratto ugualitario istituito tra dei figli e dei fratelli rivali nella successione del padre, per la (s)partizione del kratos nel demos […] perfino dalla teologia politica inconfessata, e altrettanto fallocentrica, fallo-paterno-filio-ispocentrica, della sovranità del popolo – in una parola della sovranità democratica. L’attributo ‘ispocentrico’ attraversa e unisce in un sol tratto tutti gli altri attributi(29)
Al contrario, l’amicizia è una relazione asimmetrica, dissimmetrica, nella quale il dono è sempre eccessivo, immotivato e, soprattutto, incondizionato:
è possibile pensare e mettere in pratica la democrazia, sradicandovi quel che tutte queste figure dell’amicizia (filosofica e religiosa) vi prescrivono di fraternità, ovvero di famiglia e di etnia androcentrica? E’ possibile, facendosi carico di una certa memoria fedele alla ragione democratica ed alla ragione tout court, direi anzi ai lumi di una certa Aufklärung (lasciando così aperto l’abisso che si apre ancora oggi sotto queste parole), non già fondare, laddove non si tratta indubbiamente più di fondare, ma aprire all’avvenire, o piuttosto al “vieni” di una certa democrazia?(30)
In qualsiasi modo si voglia rispondere a tali questioni, il solo fatto che esse siano state in tal modo poste, il solo fatto che una parte non indifferente della filosofia contemporanea abbia concentrato la sua attenzione sul tema dell’alterità, testimonia della necessità (e, direi, dell’urgenza) di un’integrazione fra prospettive filogenetiche ed ontogenetiche; «non ha molto senso decostruire la comunità se non si decostruisce l’individuo»(31).
1) «Conoscere equivale ad impossessarsi dell’essere a partire da niente o a ridurlo a niente, privarlo della sua alterità», E. Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1990, p. 41.
2) P. Ricœur, Amore e giustizia, Morcellania, Brescia 2000, pp. 15-16; cfr., sullo stesso tema, P. Ricœur, Il Giusto, SEI, Torino 1998.
3) A. Da Re, Figure dell’etica, in C. Vigna (cura), Introduzione all’etica, Vita e Pensiero, Milano 2001, p. 110.
4) Su Lévinas cfr. G. Ferretti, La filosofia di Levinas, Rosenberg & Sellier, Torino 1996, G. De Gennaro, Lévinas profeta della modernità, Lavoro, Lecce 2000, S. Malka, Emmanuel Levinas, Jaca Book, Milano 2003, F. Salvarezza, Emmanuel Lévinas, Mondadori, Milano 2003, e M. Vitali Rosati, Riflessione e trascendenza, ETS, Pisa 2003.
5) Tali osservazioni lévinasiane si riferiscono in particolar modo alla “quinta” delle “meditazioni cartesiane” di Husserl, cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, Armando, Roma 1999, su ciò anche C. Dovolich, Pensare l’alterità, in C. Dovolich (cura), Etica come responsabilità, Mimesis, Milano 2003, e G. Lissa, Emmanuel Lévinas, in Ibidem.
6) Cfr. di E. Lévinas, Umanesimo dell’altro uomo, Il Melangolo, Genova 1998, e Il volto infinito, Palomar, Bari 1999.
7) Nota del traduttore in E. Lévinas, Il tempo e l’altro, Il Melangolo, Genova 1993, p. 63; per un chiarimento dell’idea lévinasiana di alterità cfr., dello stesso autore, Alterità e trascendenza, Il Melangolo, Genova 2006.
8) E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., pp. 43-44, parentesi mia; ed ancora: «La filosofia occidentale è stata per lo più un’ontologia. Una riduzione dell’Altro al Medesimo», Ibidem, p. 36; su quest’opera cfr. C. Canzi, Genealogia di Totalità e infinito, ExCogita, Milano 2004. Il confronto con l’eredità husserliana ed heideggeriana è fortemente presente anche in E. Lévinas, Etica come filosofia prima, Guerini, Milano 2001. Un possibile superamento degli esiti solipsistici dell’ontologia grazie all’etica come dimensione relazionale è presente anche in G. Vaccaro, Dall’esistenza alla morale, Cadmo, Firenze 1996.
9) E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 45; su questo cfr. G. Palumbo, Inquietudine per l’altro, Fondazione Vito Fazio-Allmayer, Palermo 2001.
10) E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., p. 220.
11) S. Natoli, Che cosa sono i valori, in Rai Educational, Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, www.educational.rai.it.
12) S. Natoli, L’etica della vita quotidiana, in Rai Educational, Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, www.educational.rai.it, parentesi mia.
13) Sulle tematiche della differenza e dell’alterità nel Novecento cfr. F. Colombo, Rappresentazioni dell’Altro, Guerini, Milano 1999, e A. Ales Bello, Le figure dell’altro, Effatà, Torino 2000.
14) Su Ricœur cfr. A. Montalto, Storia, tempo e racconto in Paul Ricœur, Falzea, Reggio Calabria 2001, D. M. Conanzi, Paul Ricœur, Giappichelli, Torino 2004, F. Brezzi, Introduzione a Ricœur, Laterza, Roma 2006, e J. Michel, Paul Ricœur: une philosophie de l’agir humain, Les Editions du Cerf, Paris 2006.
15) P. Ricœur, Dell’interpretazione, il Saggiatore, Milano 1967, pp. 60-61; sulla definizione del sé come potenza ed atto cfr. anche P. Ricœur, Verso quale ontologia?, in Sé come un altro, Jaca Book, Milano 2002.
16) Per un confronto fra Lévinas e Ricœur cfr. L. Pialli, Fenomenologia del fragile, Ed. Scientifiche italiane, Napoli 1998, e L. Margaria, Passivo e/o attivo, Armando, Roma 2005.
17) P. Ricœur, Sé come un altro, cit., p. 262, e cfr. P Ricœur – G. Marcel, Per un’etica dell’alterità, Lavoro, Roma 1998; sulla transizione ricœuriana delle dialettiche identitarie dal cogito al sé cfr. P. Ricœur, Percorsi del riconoscimento: tre studi, Cortina, Milano 2005, M. Pulito, Identità come processo ermeneutico, Armando, Roma 2003, e L. Altieri, La metafora di Narciso: il Cogito itinerante di Paul Ricœur, La Città del Sole, Napoli 2004.
18) P. Ricœur, Sé come un altro, cit., p. 470.
19) Ibidem, p. 362.
20) P. Ricœur, Il Giusto, cit., pp. 3 e 9, lo stesso autore, infatti, differenzia «le relazioni interpersonali, il cui emblema è l’amicizia, dalle relazioni istituzionali, aventi per ideale la giustizia», P. Ricœur, La persona, Morcellania, Brescia 2006, p. 18; sulla questione della giustizia cfr., dello stesso autore, Il male, Morcellania, Brescia, 1993, e L’idea di giustizia, in Rai Educational, Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, www.educational.rai.it.
21) P. Ricœur, Amore e giustizia, Morcellania, Brescia 2000, p. 40, parentesi mie; sulle tematiche socio-politiche di Ricœur e Derrida cfr. A. M. Nieddu, Amicizia e solitudine tra ricerca di autenticità ed esigenza di giustizia, in C. Di Marco (cura), Un mondo altro è possibile, Mimesis, Milano 2004.
22) P. Ricœur, Sé come un altro, cit., pp. 279, 277 e 278; cfr. A. Bruno, Un’etica della finitezza, Milella, Lecce 2000.
23) Come testimonia il Colloquio di Royamont (1990), dal titolo L’etique du don, successivo a quello di Cerisy-la-Salle (1980), intitolato Le fins de l’homme; su Derrida cfr. M. Vergani, Jacques Derrida, Mondadori, Milano 2000, C. Resta, L’evento dell’altro: etica e politica in Jacques Derrida, Bollati Boringhieri, Torino 2003, M. Ferraris, Introduzione a Derrida, Laterza, Roma 2005, A. Andronico, La disfunzione del sistema: giustizia, alterità e giudizio in Jacques Derrida, Giuffrè, Milano 2006, e M. Iofrida (cura), Apres coup l’inevitabile ritardo: l’eredità di Derrida e la filosofia a venire, Bulzoni, Roma 2006 (Atti delle giornate di Studi in memoria di Jacques Derrida; Bologna 13-14 Giugno 2005).
24) Derrida si riferisce in particolar modo a F. Nietzsche, Genealogia della morale (UTET, Torino 2003), specificatamente alla Seconda dissertazione, contrapponendolo al non-sapere sull’altro, esito ultimo di E. Lévinas, Totalità e infinito, cit., su ciò cfr. i lavori di C Dovolich, Derrida tra differenza e trascendentale, Mimesis, Milano 1995, Il soggetto etico e la decisione, in «Fenomenologia e società», n. 2, 1999, e Derrida di fronte alla questione etica, in C. Di Marco (cura), Percorsi dell’etica contemporanea, Mimesis, Milano 1999.
25) J. Derrida, Mochlos o il conflitto delle facoltà, in «aut-aut», n. 208, 1995, pp. 13, 40 e 31, parentesi mie.
26) J. Derrida, Spettri di Marx, Cortina, Milano 1994, p. 45; cfr. anche J. Derrida, Sull’ospitalità, Baldini&Castoldi, Milano 2000.
27) J. Derrida – A. Dufourmantelle, L’ospitalità, Baldini & Castoldi, Milano 2002, p. 53, e J. Derrida, Forza di legge – Il «fondamento mistico dell’autorità», Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 50; a proposito del concetto di “forza di legge”, lo stesso Derrida (cfr. Nome di Benjamin, in Ibidem) afferma di avere ragionato attorno a W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Angelus Novus (Einaudi, Torino 1995).
28) Cfr. S. Regazzoni, La decostruzione del politico: undici tesi su Derrida, Il Melangolo, Genova 2006.
29) J. Derrida, Stati canaglia, Cortina, Milano 2003, pp. 38-39.
30) J. Derrida, Politiche dell’amicizia, Cortina, Milano 1995, p. 361.
31) A. Masullo, Considerazioni sull’estraeno, in M. Fimiani (cura), Philía, La Città del Sole, Napoli 2001, p. 30.
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