venerdì 23 settembre 2011

Umberto Galimberti

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Piano (al 2011) delle Opere di Umberto Galimberti presso l'Editore Feltrinelli

Vol. I-III: Il tramonto dell'Occidente nella lettura di Heidegger e Jaspers
Vol. IV: Psichiatria e fenomenologia
Vol. V: Il corpo
Vol. VI: La terra senza il male. Jung dall'incoscio al simbolo
Vol. VII: Gli equivoci dell'anima
Vol. VIII: Il gioco delle opinioni
Vol. IX: Idee: il catalogo è questo
Vol. X: Parole nomadi 
Vol. XI: Paesaggi dell'anima
Vol. XII: Psiche e techne. L'uomo nell'età della tecnica
Vol. XIII: Orme del sacro. Il cristianesimo e la desacralizzazione del sacro
Vol. XIV: I vizi capitali e i nuovi vizi
Vol. XV: Le cose dell'amore
Vol. XVI: La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica
Vol. XVII: L'ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani
Vol. XVIII: Il segreto della domanda
Vol. XIX: I miti del nostro tempo

Licenza Creative Commons
Questa opera di CriticaMente è concessa in licenza sotto la Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported.

domenica 18 settembre 2011

L’originalià del pensiero marcusiano

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Nonostante Hegel e Marx siano stati due imprescindibili punti di riferimento per Marcuse, esistono delle sostanziali differenze fra i tre pensatori, chiaramente esemplificabili nelle loro rispettive posizioni riguardo il concetto di lavoro. Nel saggio Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica Marcuse compie un excursus all’interno di varie concezioni (dalle teorie economiche classiche a Weber, da Hegel a Marx) per giungere infine alla propria posizione sul tema del lavoro. Se le prospettive economiche e weberiane vengono liquidate nell’arco di poche pagine poiché entrambe restringono il concetto lavoro a qualcosa che ha a che fare, sostanzialmente, o con una retribuzione o con delle regole, ben diversa è l’attenzione riservata ad Hegel ed a Marx. Per Hegel il lavoro è un "fare (Tun) ontologico", un evento che domina l’intera esistenza umana e nel quale la coscienza si realizza oggettivandosi; in quest’ottica l’oggettivazione non ha una valenza negativa, essa è una naturale manifestazione materiale della coscienza. Sostanzialmente speculare è l’interpretazione offerta da Marx, il quale però introduce il concetto di alienazione per indicare la sottrazione del prodotto del lavoro al lavoratore; anche in questo caso il problema non è l’oggettivazione, ma l’espropriazione di questa dal lavoratore che l’ha prodotta, da parte del capitale, è questa la problematica ontologica di fondo dell’epoca borghese. Marcuse prende spunto dall’interpretazione marxiana ma la integra con categorie freudiane: all’intemo dell’attuale società il lavoro è visto come un’attività alienante in sé poiché esso consiste nella sottrazione di energie, spazi e tempi dedicati unicamente alle esigenze del sistema, l’alienazione diventa così non alienazione dell’oggetto prodotto ma alienazione delle facoltà psico-fisiche umane. A differenza di Marx, per Marcuse oggettivazione e alienazione coincidono a causa delle modalità lavorative tipiche della società industriale avanzata: «Lavorando, il lavoratore è "presso la cosa" (...) In ogni caso non è "presso di sé", non lascia accadere la propria esistenza, al contrario si pone a servizio dell’"altro da sé stesso", è presso "l’altro da sé", anche quando questo fare dà compimento alla propria vita liberamente assunta»1; si potrebbe riassumere il tutto affermando che la liberazione marxiana è da intendere come liberazione del lavoro, mentre quella marcusiana come liberazione dal lavoro2. L’unica possibilità per sfuggire a questa afflizione ontologica dell’esistenza umana risiede nel gioco. «Anche nel gioco (...) l’uomo ha a che fare con oggetti, solo che l’oggettività ha qui tutt’altro senso e tutt’altra funzione che nel lavoro. Giocando (...) l’uomo non si conforma agli oggetti, alla regolarità ad essi immanente, data dalla loro oggettività specifica (mentre il lavoro nel trattare, utilizzare, dar forma al suo oggetto deve conformarsi al contenuto oggettivo di esso)»3. Solo così l’uomo può vivere in una bidimensionalità (che gli è negata nella corrente organizzazione del lavoro) di oggettività, necessità e libertà, al punto tale che «un singolo lancio di palla da parte di un giocatore rappresenta un trionfo della libertà umana sull’oggettività che è infinitamente maggiore della conquista più strepitosa del lavoro tecnico»4. Inoltre, non si può ignorare che le differenze sopra esposte tra Marx e Marcuse risentono, oltre che di una diversa impostazione concettuale, anche del difforme contesto storico nel quale essi vissero, un contesto che già nel 1933 faceva scrivere a Marcuse (anticipando il nucleo de L’uomo a una dimensione) «All’uomo che lavora è oggi possibile soffermarsi in quelle dimensioni che, al di là della produzione e riproduzione materiale, "riempiono" veramente la vita, solo nei limiti di una piccola "zona residuale" della sua persona e in periodi di tempo minimi: il dopolavoro serale, le domeniche ecc. L’accadere vitale decisivo, che non è ormai altro che il "tempo libero", viene ridotto e storpiato finchè anche questa "zona residuale" non sia assorbita dalla reificazione»5. Ancor prima che nella società industriale avanzata questo modo di procedere è stato fatto proprio dal Fronte del Lavoro nazionalsocialista, infatti «esso si basa sul principio dell’eliminazione della distanza fra lavoro e tempo libero e sull’assimilazione dell’organizzazione del tempo libero con quella del lavoro»6.
I1 tentativo di avvalersi di categorie psicologiche, nell’analisi della realtà sociale, si compie definitivamente in Eros e civiltà, in cui però non si può ignorare che esistano delle forzature e delle interpretazioni eccessivamente libere di Freud; a partire dal rapporlo tra Eros e Thanatos che per Freud sono inscindibili ed immodificabili, mentre Marcuse propone la metamorfosi del secondo in Nirvana e la sua sottomissione al primo, ed ancora, per Freud il principio del piacere non potrà mai coincidere con il principio della realtà in quanto questi rappresentano due istanze totalmente opposte, mentre Marcuse auspica la loro conciliazione sotto la "tutela" dell’Eros. Ma tali modificazioni rispetto all’originale freudiano (mutamenti di cui bisogna sempre essere coscienti) sarebbero delle gravi inesattezze se qui avessimo a che fare con un Marcuse, per così dire, "ricercatore", che non si prefigge altro obiettivo all’infuori di quello di studiare e riportare fedelmente il pensiero di un autore, ma essendo Marcuse stesso un autore non si può pretendere che egli si limiti unicamente a rilerire un altro pensiero; come sempre avviene in questi casi, quando un pensatore volge il suo sguardo sul pensiero di un altro lo fa per trarne lo spunto per nuove, originali e, soprattutto, personali concezioni. E non potrebbe essere altrimenti dato che Freud viene incluso all’intemo di un orizzonte concettuale storico, liberandolo quindi da interpretazioni limitate unicamente al versante teoretico-concettuale. Infatti, per Marcuse la storicità, la dimensione storica è la dimensione originaria della filosofia: qualsiasi forma di pensiero si pone all’intemo di una certa situazione storica. È per questo che, se nella prospettiva freudiana Eros e Thanatos sono due principi immodificabili e indispensabili alla civiltà, nell’ottica marcusiana il secondo dovrebbe e potrebbe essere radicalmente modificato: «In una civiltà repressiva la morte stessa diventa strumento di repressione (...) Essa soffoca gli sforzi "utopistici" (...) In contrasto con ciò, una filosofia che non operi come ancella della repressione, reagisce al fatto della morte col Grande Rifiuto  il rifiuto di Orfeo, il liberatore. La morte può diventare un segno di libertà. La necessità della morte non contraddice la possibilità di una liberazione finale. Come ogni altra necessità, essa può essere resa razionale  senza sofferenza. Gli uomini possono morire senza angoscia se sanno che ciò che amano è protetto dalla miseria e dall’oblio. Dopo una vita compiuta, possono decidersi per la morte  a un momento scelto da loro stessi»7. Ed ancora a proposito delle dissonanze fra Marcuse e Freud, è da ricordare che per il primo la sovrapposizione del principio di prestazione su quello di realtà trova una dimostrazione nel mito freudiano dell’orda primitiva da cui si evince come l’affermarsi e il perdurare della razionalità del dominio sia il frutto di uno sviluppo psichico-sociale che per Freud è "assoluto" mentre per Marcuse è "storico". Se per Freud la prima forma sociale umana è sorta quando un uomo dominante ha strutturato gerarchicamente un gruppo, per Marcuse ciò segna 1’origine della razionalità del dominio; se per Freud il padre primordiale instaura il tabù sessuale sulle donne del gruppo, per Marcuse questo è un espediente per risparmiare energie istintuali da incanalare, in forma sublimata, nel lavoro; se per Freud gli uomini si uniscono per avvantaggiarsi nella lotta per l’esistenza, per Marcuse dalla forma (storica) di tale unione è sorta un’ingiustizia sociale: all’interno della società è presente la problematica marxiana dello sfruttamento il quale si manifesta non solo a livello economico ma originariamente a livello istintuale-pulsionale; se per Freud l’uccisione del padre primordiale e la formazione del clan dei fratelli dà origine alle leggi, alla morale, alla civiltà, poiché una volta placata l’aggressività nei confronti del padre insorge il senso di colpa per il parricidio con conseguente introiezione da parte dei fratelli dei divieti e delle inibizioni paterne, per Marcuse proprio il senso di colpa causa l’interiorizzazione e la sacralizzazione del modello di dominio gerarchico paterno. Tuttavia Marcuse ravvisa nel parricidio un’ambivalenza: esso conferma la razionalità del dominio tramite il senso di colpa (come si è visto), ma potrebbe anche costituire l’inizio di una società senza padre, libera, strutturata sul principio del piacere. E in questo conteso la fantasia e l’arte diventano manifesti del principio del piacere che potrebbe edilicare una società non repressiva solo se fosse in grado di garantire un’organizzazione sociale funzionante in cui l’arte non sia reificata8 ma al contrario svolga il ruolo, con i suoi criteri e i suoi modelli, di punto di riferimento per la società, e ciò è possibile in quanto la penuria (Ananke o Lebensnot) che costringeva alla lotta per l’esistenza e quindi al sacrificio pulsionale è per Marcuse un fattore esogeno rispetto alla natura umana, ed è oggi ampliamente superabile grazie all’elevato livello di sviluppo tecnologico (automazione) raggiunto. Sono questi i presupposti che introducono alla questione della conciliazione rivoluzionaria tra l'Eros ed il Thanatos trasfigurato nel Nirvana.
Inoltre, originale e diversa da quella di Horkheimer è la concezione marcusiana di "teoria critica" della società. Per Horkheimer (che ha definito lo statuto di validità di una teoria critica durante gli anni Trenta, durante la fase spiccatamente materialistica della sua riflessione) la teoria critica è, originariamente, espressione degli interessi e delle lotte sociali di una determinata classe, a differenza della teoria tradizionale che si pone come un mero punto di vista neutrale sulla società9, ma successivamente la teoria critica può, proprio in virtù della sua origine "di parte", muoversi in direzione della ricerca di un superamento dell’ingiustizia sociale. Tale superamento è, per Horkheimer, connesso alla trasformazione della società capitalistica che da società oppressa e oppressiva, a causa di un mercato talmente libero da diventare anarchico e di una smisurata produzione industriale, dovrebbe mutare in una società razionale che orienta il suo mercato e la sua produzione unicamente in direzione della soddisfazione delle necessità e dei desideri vitali umani. Il progetto della teoria critica è quello di una società razionale negli obiettivi ultimi che persegue: essi devono permettere il pieno sviluppo degli uomini. Per tal via la teoria critica, nata come espressione degli interessi propri di una determinata classe sociale, diviene espressione della Ragione, dunque dell’intera società, poiché il suo fine ultimo è quello della soppressione dell’ingiustizia sociale, è questo «il contenuto materialistico del concetto idealistico di ragione»10. L’idea marcusiana di teoria critica poggia invece sui seguenti cardini: la differenza fra razionalismo e irrazionalismo e quella fra status quo e sue altemative. Infatti, solo una teoria critica razionalistica può determinare i concetti di vero, bene e giusto e, conseguentemente, proporre un’organizzazione sociale ad essi tesa; perciò, da tale prospettiva, una determinata forma di organizzazione sociale non è legittimata dalla sua mera esistenza, al contrario, una determinata forma di organizzazione sociale è legittimata solo se supera il libero esame della ragione. «Razionalistica è una teoria della società che pone la prassi da essa postulata sotto l’idea della ratio autonoma, cioè della facoltà umana di afferrare per mezzo del pensiero concettuale il Vero, il Bene ed il Giusto. Ogni azione, ogni definizione di obiettivi all’intemo della società, ma anche l’organizzazione della società nel suo complesso, devono affrontare il verdetto decisivo della ratio. Nell’organizzazione della società tutto abbisogna di una giustificazione razionale per poter sussistere come fatto e come fine (...) La teoria razionalistica della società è perciò essenzialmente critica: essa pone la società sotto l’idea di una critica teorica e pratica, positiva e negativa»11.
Non a caso, anche in uno scritto del 1940, La filosofia tedesca nel ventesimo secolo, rappresentante il contributo di Marcuse ad un progetto di ricerca collettivo dell’Institute of Social Research intitolato German Economy, Politics and Culture 1900-1933 e coordinato da Horkheimer, i germi del nazionalsocialismo vengono individuati in una crisi del potere della ragione, crisi in cui l’autorità e la cultura del passato viene strumentalizzata per esaltare il presente «In questo modo, il ritorno a Kant e Hegel [ma anche a Nietzsche e Freud] diventava una fuga verso i grandi capi del passato; una mentalità che ben presto si è collegata ai capi attuali: gli ultimi scritti di Heinrich Rickert proclamano l’affinità spirituale del neokantismo con il nazionalsocialismo»12.
Ma, avverte Marcuse, «non vi è nessuna certezza che la nuova mentalità scomparirà con la scomparsa del regime nazionalsocialista, poiché la nuova mentalità è legata ad un modello di organizzazione sociale che non è identica al nazionalsocialismo, sebbene quest’ultimo rappresenti la sua forma più aggressiva»13. Infatti le seguenti caratteristiche, tipiche del regime tedesco, si ripetono anche nell’ideologia della società industriale avanzata al punto tale che i seguenti passi, se non fossero segnati da precisi riferimenti storici, potrebbero addirittura appartenere a L’uomo a una dimensione: «Trasformando gli elementi mitologici e metafisici della mentalità tedesca in strumenti di controllo totalitario e di conquista, il nazionalsocialismo distrugge il loro significato mitologico e metafisico. Il loro valore diventa esclusivamente di tipo operativo: vengono resi parte della tecnica di dominio. La filosofia nazionalsocialista apparentemente irrazionale rappresenta in realtà la fine della "metafisica tedesca", la sua liquidazione attraverso uta razionalità tecnica totalitaria (...) Quando definiamo il morale nazionalsocialista un affare di tecnologia, utilizziamo il temine tecnologia in senso letterale. Nella tecnologia non esiste verità o falsità, giusto o sbagliato, bene e male  vi è solo adeguatezza o inadeguatezza ad un fine pragmatico»14.
A differenza di Horkheimer, Marcuse avverte la necessità d’illuminare il retroscena della teoria critica esso è uno sfondo filosofico in quanto la teoria critica «raccoglie l’eredità della filosofia idealistica della ragione, e cioè della tradizione dell’idealismo tedesco e in particolare di Hegel»15: soltanto nel concetto idealistico di ragione si pone la legittimità di una critica sociale che verrebbe meno se tale critica fosse intesa solo come 1’espressione degli interessi di un singolo gruppo o classe sociale; insomma, se la teoria critica tende ad un’organizzazione razionaIe dell’attività umana, deve dare un fondamento filosofico a questo suo obiettivo. «L’idealismo ha quanto meno continuato sempre a sostenere che il materialismo della prassi borghese non è l’ultima parola, e che l’umanità deve essere portata oltre questo punto»16 è per questa via che la teoria critica «si presenta come l’esigenza di un cambiamento reale delle condizioni materiali d’esistenza, di una nuova vita, di una nuova organizzazione del lavoro e del godimento»17. Conseguentemente, una teoria razionalisticamente critica della società si ha quando ragione (il vero), libertà (il giusto) e felicità (il bene) sono unite da reciproci rimandi e finalizzate all’edificazione di una società razionale, libera e felice. La felicità è, allora, una condizione raggiungibile solo tramite la conciliazione della ragione critica con la libertà, ovvero, non è possibile nessuna teoria critica senza il concetto di libertà, che Marcuse identifica in un valore ontologico-esistenziale in quanto il Dasein stesso è caratteizzato dalla categoria della possibilità. «La costante dell’opera di Marcuse va intesa, a questo punto, come una tensione bipolare tra istanza ontologica e istanza critica: tra (a) dimensione ontologico-esistenziale (ma, come vedremo fra poco, non esistenzialistica) della libertà e (b) dimensione critica come necessaria presa di distanza dalla Faktizität»18. Poiché queste dinamiche si svolgono necessariamente all’intemo della storia, è lì che felicità e libertà vanno di volta in volta concettualizzate, ma sempre in direzione di un trascendimento del reale: la libertà e la felicità mutano la forma storica in cui si manifestano, ma restano sempre fedeli alla loro "missione": la liberazione dal dominio della fattualità, qualunque essa sia. Perciò anche il Grande Rifiuto si pone all’intemo della storia e, di conseguenza, della ragione, è infatti ad essa, e non ad un "vitalismo irrazionale", che spetta il compito dell’affrancamento dal fattuale.
Concludendo, in questa prospettiva di critica (ed eventuale rifondazione) dell’esistente, verità, libertà, giustizia e felicità non sono il frutto di un’intima e solitaria valutazione (con il rischio di frammentare tali concetti in un'infinità di punti di vista), bensì appaiono come valori assoluti, ontologicamente connessi all’essere umano, ai quali però solo la ragione può dare una concreta manifestazione all’interno della storia. Paradossalmente, solo all’interno dell’esistenza concreta, delle varie situazioni storiche è possibile appropriarsi, per mezzo di regole pratiche, della verità trascendente: «L’Esserci umano di cui si preoccupa la filosofia si trova in ciascun momento in una determinata situazione storica (...) Lo storicizzarsi della filosofia significa in primo luogo che la filosofia concreta deve esaminare l’Esserci ad essa contemporaneo nella sua situazione storica, per vedere quali sono le sue possibilità di appropriarsi verità, quali verità può realizzare, e quali gli sono necessarie»19, tali questioni verranno riprese qualche anno più tardi nel tentativo di chiarire il contributo della filosofia all’esistenza umana, ovvero «riguadagnare, di contro all’astratto soggetto "logico" dell’idealismo razionale, la piena concrezione del soggetto storico e di eliminare quindi il dominio dell’ego cogito, che era durato incontrastato da Descartes fino a Husserl»20; per questo le origini di ogni riflessione critica sono sempre, marxianamente, le condizioni materiali d’esistenza degli individui. In altri termini Marcuse assimila da Heidegger l’idea che la condizione umana sia una condizione ontologica, ma la integra con la concezione marxiana della costituzione materiale della storicità: «L’esser nel mondo è sì una condizione ontologica, ma non è una condizione ontologica nessuna delle sue modalità storiche, nessuna delle sue forme istituzionali»21. In ciò risiede la grande difficoltà di comprensione del progetto marcusiano, spesso accusato di vaghezza ed astattezza, ma tale indeterminatezza è data dal tentativo di definire la forma storica attuale e l’ipotetica forma storica futura (dunque entrambe momentanee) di valori trascendenti, insomma, la ragione deve sempre essere tesa al superamento del principium individuationis che istituzionalizza la verità, la libertà, la giustizia e la felicità: «Questa universalità è semplicemente l’impossibilità di dare al concetto di verità e a quello di giustizia un contenuto definitivo»22. In quest’ottica l’intera opera di Marcuse è leggibile come il tentativo di far sì che ogni generazione umana scelga autonomamente, razionalmente e liberamente la forma storica di materalizzazione di valori che rimarranno sempre indefiniti e indefinibili, a causa della loro trascendenza, ma allo stesso tempo sempre ontologicamente inerenti all’uomo.

1 H. Marcuse, Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica, in Id., Cultura e società, Einaudi, Torino 1969, p. 170.
2 Cfr. Ibidem e H. Marcuse, Nuove fonti per la fondazione del materialismo storico, in Id., Marxismo e rivoluzione, Einaudi, Torino 1975.
3 G. Bedeschi, La critica dell’organizzazione industriale del mondo moderno, in L. Casini (a cura di), Eros, utopia e rivolta, Franco Angeli, Milano 2004, p. 32.
4 H. Marcuse, Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza economica, in Id., Cultura e società, cit., p. 171.
5 Ibidem, p. 185, nota 2.
6 H. Marcuse, Stato e individuo sotto il nazionalsocialismo, in Id., Davanti al nazismo Laterza, Roma-Bari 2001, p. 30.
7 H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1967, p. 248.
8 Si produrrebbe altrimenti quel fenomeno che in una conferenza del 1941 a New York presso la Columbia University Marcuse definisce come "arte nazista": «Hitler ha definito L’essenza dell’arte come "utilitá". L’utilità dell’arte nazionalsocialista è quella di riconciliare gli uomini con il mondo così com’è» (tradendo del tutto 1’idea di "alienazione artistica") H. Marcuse, Supplemento: l’arte nazista, in Id., Davanti al nazismo, cit., p. 39.
9 Cfr. M. Horkheimer, Teoria tradizionale e teoria critica, in Id., Teoria critica Einaudi, Torino 1974, vol. II.
10 Ibidem, p. 186.
11 H. Marcuse, La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato, in Id., Cultura e società, cit., pp. l4-15. È intessante notare come per Marcuse il liberalismo, concettualmente "avversario" del totalitarismo, sia stato però da quest’ultimo assorbito sia nell’ideologia nazista che nella societá industriale avanzata, cfr. H. Marcuse, Davanti al nazismo, cit.
12 H. Marcuse, La filosofia tedesca nel ventesimo secolo, in Id., Davanti al nazismo, cit., p. 6, parentesi quadra mia.
13 H. Marcuse, La nuova mentalità tedesca, in Id., Davanti al nazismo, cit., p. 46, il manoscritto in lingua inglese intitolato The New German Mentality. Memorandum on a Study in the Psychological Foundations of National Socialism and the Chances for their Destruction fu consegnato all’Office of War Investigations (OWI) nel 1942.
14 Ibidem, pp.5l e 66, si confrontino questi passi con i seguenti paragrafi de L’uomo a una dimensione: La chiusura dell’ universo di discorso, Dal pensiero negativo al pensiero positivo. La razonalità tecnologica e la logica del dominio e Il trionfo del pensiero positivo: la filosofia ad una dimensione.
15 S. Petrucciani, Felicità e ragione. Il contributo di Marcuse all’idea di teoria critica, in L. Casini (a cura di), Eros, utopia e rivolta, cit., p.143.
16 H. Marcuse, Sul carattere affermativo della cultura, in Id., Cultura e società, cit., p. 53.
17 lbidem, p. 54.
18 G. Marramao, Ontologia della libertà. Una rilettura di Herbert Marcuse, in L. Casini (a cura di), Eros, utopia e rivolta, cit., p. 92. Marramao qui distingue tra una prospettiva ontologico-esistenziale ed una esistenzialistica dato che quest’ultima sfocia in un’apologia dell’esistente che è del tutto estranea a Marcuse.
19 H. Marcuse. Sulla filosofia concreta, in Id., Marxismo e rivoluzione, cit., pp.9 e 18.
20 H. Marcuse, La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato, in Id., Cultura e società, cit., p. 31.
21 G. Palombella, Istituzioni e trascendenza in Herbert Martuse, in L. Casini (a cura di), Eros, utopia e rivolta, cit., p. 49.
22 Ibidem, p. 59.

(«Prospettiva persona», n. 52, 2005)

Licenza Creative Commons
Questa opera di CriticaMente è concessa in licenza sotto la Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported.

giovedì 15 settembre 2011

"György Lukács. Filosofo autonomo"

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Tibor Szabó, 
György Lukács. Filosofo autonomo
La Città del Sole, Napoli 2005, 
Prefazione di Lelio La Porta







Licenza Creative Commons
Questa opera di CriticaMente è concessa in licenza sotto la Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported.

martedì 6 settembre 2011

D'essai, "Mammuth" e "Another Year"

di Silvia La Posta (laposta.silvia@gmail.com)

Mammuth
La classe operaia sembra davvero ispirare i due registi Delépine e de Keverne, che le avevano già dedicato il loro primo successo internazionale, Louise Michel (2008).
Anche in questo film è forte il timbro grottesco: vi sono tenere caricature, meschinamente umane e abbrutite dal lavoro sottopagato. Tra queste emerge un enormemente buono Gérard Depardieu, devoto animale da lavoro in cerca di un senso da dare alla propria vita dopo il pensionamento. Un road movie dolce e amaro, poetico, di un realismo meraviglioso perchè sporco, basso, eppure colorato e vitale; un film, che forse deve qualcosa alla memoria della Nouvelle Vague, in cui parola e silenzio assumono pari valore lirico. 
Delépine e de Kervern giocano con la sensibilità materiale della pellicola creando immagini sgranate, sovra-esposte e sature, donando al film un sapore onirico a cui contribuisce la presenza di Miss Ming e delle sue bizzarre opere. Al suo intervento si deve lo spostamento del linguaggio filmico su un piano decisamente più surreale, sovrastando la dimensione realista che vivacizzava la narrazione.
Mammuth resta ad ogni modo un film difficile, sicuramente non appetibile ai più, ma di stile interessante e di forte carattere, che non può passare inosservato agli amanti del cinema d'autore "minore".


Another Year 
Dopo l’agrodolce La felicità porta fortuna (2008), Mike Leigh si riconferma un maestro nel catturare e ritrarre quanto di poetico c’è nella banalità del quotidiano. Per la prima volta il regista inglese affronta il tema dell’invecchiamento, del passaggio dalla maturità alla senilità, simboleggiato dallo scorrere delle stagioni: per ognuna di esse un capitolo del film. Tuttavia, se prima l’amarezza del realismo puro e duro "alla Mike Leigh" risultava alleggerita da una certa ironia delle situazioni, da un gusto per i giochi di parole e per il grottesco, Another Year appare più stanco e riflessivo che mai persino agli affezionati del regista, perdendo quella scintilla di vitalità che pur illuminava la cruda realtà rappresentata dei lavori precedenti. La lentezza della narrazione (ricca di sequenze in tempo reale) e l’aleatorietà di una "trama" vera e propria, caratteristiche che avevano sempre qualificato la tecnica di Leigh, producono in questo caso un senso di disagio che, forse, va oltre le intenzioni del regista.
Notevole invece l’interpretazione del cast, formato per la maggior parte da consolidate conoscenze di Leigh: Ruth Sheen, Lesley Manville, Peter Wight, per citarne alcuni. Volti apparentemente presi dalla strada, quotidiani, ma estratti in realtà dal miglior repertorio inglese, dimostratisi sempre all’altezza di lavorare con un regista esigente e metodico come Leigh. È proprio all’incredibile espressività del volto della Manville che si deve l’ultima inquadratura del film: toccante, vera, struggente nella sua silenziosa e disperata discrezione.

Licenza Creative Commons
Questa opera di CriticaMente è concessa in licenza sotto la Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported.