martedì 22 settembre 2009

Solidarietà

di Girolamo Mario Gullace (gullace.g.mario@hotmail.it)

Venne il giorno
che scacciò la notte,
venne il vento
che scacciò le nubi,
venne un uomo
in quell'azzurro giorno,
venne a lungo,
come viene il seme,
venne il ventre
gravido di donna,
venne al mondo
una vita nuova.
Venne il giorno
che tornò la notte,
venne il vento
che portò le nubi.
Venne grande
quella vita nuova,
ma venne cieca
nella notte lunga.
Venne il vecchio
come viene un saggio,
venne a dire
quello che sapeva,
venne il frutto
di quello che diceva:
venne luce,
si iniziò a vedere
uomo e donna
come cielo e terra,
e venne la catena
delle mani nelle mani,
e venne, edificante,
la solidarietà.
Venne il vento
e soffiò invano,
venne il buio,
e mano nella mano
non venne più la notte


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Resta il dramma

di Girolamo Mario Gullace (gullace.g.mario@hotmail.it)

Resta il dramma, il sigillo finale
che si appone timbro e marchio
di una data e di un luogo,
che lascerà per sempre partendo,
scivolando su infinti oceani,
portando il recapito infernale
di nessun approdo di terra.
E veloci domicili e alberghi
senza tracce note e famigliari.
Resta il dramma, l'unico bagaglio
consentito nella traversata
dell'ultimo spazio della vita,
prima della morte, gli occhi
chiusi di una docile pantera
che dorme nella nostra notte
e improvvisa si desta nella sera,
e mostra, ovali, due fanali gialli,
denti acuminati e lunghi artigli,
il manto vellutato della nera
nave senza più le vele,
senza più timone e stelle.
Il dramma di chi urla: resta,
se mi lasci senza la tua fiamma
mi sciaccia cuore e testa
il nostro amore mai concluso,
inciso nella flemma del tuo corpo
e nel reciso fiore del tuo viso.


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martedì 15 settembre 2009

Riabilitazione della filosofia pratica ed “etica del discorso”

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Grazie al principio dell’amore reciproco gli uomini sono destinati ad avvicinarsi l’un l’altro continuamente, e grazie al rispetto, che essi si debbono vicendevolmente, a tenersi a una certa distanza l’uno dall’altro; e se mai una di queste due grandi forze morali venisse a mancare, allora ‘il nulla dell’immoralità inghiottirebbe nelle sue fauci l’intiero regno degli esseri (morali), come una goccia d’acqua’
I. Kant, Metafisica dei costumi


Lo scandalo è la mera esistenza dell’altro. Ogni altro “occupa troppo posto” e va ricacciato nei suoi limiti che sono quelli del terrore illimitato
M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo


La crisi di quei potenti sistemi concettuali, come lo strutturalismo ed il marxismo, che hanno tentato di pensare il mondo dell’uomo come un tutto unitario e coerente, ha prodotto l’idea che sia impossibile pensare la storia umana in termini di orizzonti generali di senso, e che anzi tale paradigma non rappresenti un progetto di emancipazione ma, al contrario, una gabbia che imprigiona l’uomo(1). E’ questa la scintilla che ha generato le cosiddette etiche pubbliche (o pratiche), che si presentano “socraticamente” come un discorso sulla società non esterno ad essa, come un dibattito coinvolgente non solo e non tanto il puro specialista ma la società nella sua interezza, con l’ambizione e la speranza di pervenire ad una regolamentazione comportamentale condivisa e consapevole dell’uomo nel mondo, anche dopo il tramonto dei grandi sistemi di filosofia della storia.
Il movimento della cosiddetta riabilitazione della filosofia pratica, nato in Germania agli inizi degli anni Sessanta con la formula di Rehabilitierung der praktischen Philosophie, si connota come un movimento di rinascita dell’interesse filosofico per le tematiche della morale, del diritto e della politica, affrontate da una prospettiva alternativa rispetto sia a quella tecnico-scientifica che a quella metafisico-trascendentale(2). Per superare il relativismo ed il pluralismo etico della moderna società, globalizzata e policentrica, il movimento della Rehabilitierung rifiuta sia il modello della razionalità tecnico-scientifica (avvalendosi in ciò delle argomentazioni della prima Scuola di Francoforte) con il suo “divisionismo etico”(3), sia quello metafisico con la sua lontananza dagli ambiti della vita pratica (a partire dalla sua pretesa fondazione trascendentale), volgendosi invece alla ricerca di un modello di razionalità che, conciliando l’ethos con il logos (quindi né tramite una ratio calcolante e strumentale, né tramite la fede in ciò che risiederebbe prima e/o oltre la vita pratica), possa fungere da guida per l’azione.
Hans-Georg Gadamer può essere considerato il padre putativo della Rehabilitierung(4), anche se quest’ultima non deve essere considerata come un movimento unitario, bensì come un generale ambito di riflessione, all’interno del quale si trovano molteplici teorie, fra le quali, una delle fondamentali è costituita dall’etica comunicativa o del discorso, elaborata da Karl-Otto Apel e (soprattutto) da Jürgen Habermas. Se l’ermeneutica filosofica di Gadamer si richiama al paradigma filosofico del “neoaristotelismo” (da Aristotele infatti Gadamer trae la distinzione fra la phrónesis e l’epistème, il sapere morale e quello teoretico), l’etica della comunicazione di Habermas si rifà a quello del “postkantismo” (da Kant infatti Habermas mutua il progetto di un’etica svincolata dalle peculiarità del contesto dell’agire), se il metodo ermeneutico gadameriano si esercita nell’immediatezza della situazione, il metodo discorsivo habermasiano si basa su regole generali che precedono l’azione, se Gadamer può essere considerato “contestualista”, in quanto sottolinea il carattere storico di una ragione che non esiste mai allo stato puro ma solo nelle impurità e nelle particolarità delle diverse tradizioni linguistiche, Habermas lo si può considerare “universalista”, poiché insiste sul valore decontestualizzante della comunicazione linguistica e sulla sua relativa capacità di superare i condizionamenti situazionali. Per descrivere in cosa consista l’etica del discorso, con il suo proposito di fondazione razionale dei principi dell’agire, lo stesso Habermas ne traccia il profilo, definendola come deontologica, cognitivistica, formalistica ed universalistica.

Che cosa vuol dire etica del discorso? In via preliminare vorrei illustrare il carattere deontologico, cognitivistico, formalistico ed universalistico dell’etica kantiana […] I giudizi morali chiariscono come i conflitti d’azione si possono risolvere sulla base di un accordo razionalmente motivato. In senso lato, essi servono a giustificare le azioni alla luce di norme valide o la validità delle norme alla luce di principi degni di essere riconosciuti […] A questo riguardo parliamo di un’etica “deontologica”. Questa intende la giustezza delle norme o dei comandi in analogia con la verità di una proposizione assertoria […] In questo senso noi parliamo anche di un’etica “cognitivistica”. Questa deve poter rispondere alla domanda sul modo come si possano fondare le asserzioni normative […] Sotto questo aspetto, noi parliamo di un’etica “formalistica”. Nell’etica del discorso il posto dell’imperativo categorico viene preso dal procedimento dell’argomentazione morale […] “Universalistica”, noi chiamiamo, infine, un’etica la quale sostiene che questo principio morale (o uno simile) non solo esprime le intuizioni di una determinata cultura o di una determinata epoca, ma vale universalmente(5)

Quindi, l’etica comunicativa riconosce nel discorso lo strumento al quale si deve fare riferimento per dirimere i conflitti morali, attraverso un accordo che legittimi l’esistenza di norme universali, accordo di comprensibile importanza capitale nelle discussioni di carattere etico. A ciò Habermas approda riformulando i passaggi fondamentali del pensiero morale kantiano, svincolandolo da ogni possibile riferimento metafisico, cosicché il discorso possa essere accessibile a tutti e le norme possano essere verificate da chiunque(6):

Da questa prospettiva anche l’imperativo categorico deve venir riformulato nel senso proposto. Invece di prescrivere a tutti gli altri come massima valida quella di cui io voglio che sia una legge universale, io devo proporre a tutti gli altri la mia massima allo scopo di verificare discorsivamente la sua pretesa di universalità. Il peso si sposta da ciò che ciascuno (singolo) può volere senza contraddizione come legge universale a ciò che vogliamo di comune accordo riconoscere come legge universale(7)

In tale modo, la Diskursethik soddisfa le “pretese di validità” (Geltungsansprüche) delle conclusioni alle quali si approda attraverso una discussione ragionevole (ovvero razionalmente sensata); in altri termini, per tale via si può giungere alla costituzione di una tavola di valori condivisi, originanti la cosiddetta “opinione pubblica”. Quest’ultima, nella modernità, nasce nella sfera pubblica borghese che, differentemente da tutte le precedenti impostazioni sociali, affonda le proprie origini nella libera circolazione delle merci e delle notizie: così come la libera circolazione di merci e notizie è un processo che non esclude potenzialmente nessuno, allo stesso modo la formazione dell’opinione pubblica in una società (quella borghese) basata su tale processo, non esclude potenzialmente nessuno (diversamente sia dal mondo greco antico che da quello che va dall’impero romano alla rivoluzione francese, nei quali la sfera pubblica è accessibile, rispettivamente, solo ai cittadini liberi e solo agli esponenti di determinati ceti). Ora, tale libera circolazione di merci e notizie pone il peculiare problema, nuovo, di dover essere amministrata, ma, se è da questa circolazione che sorge l’opinione pubblica, allora amministrare tale circolazione vuol dire amministrare la stessa opinione pubblica. Ed infatti, nasce così un’amministrazione stabile, sottoforma di una attività statuale continuativa: questo è, difatti, il ruolo del potere pubblico borghese, al punto tale che, nella modernità, il termine pubblico diviene sinonimo di statuale. Lo statuale rappresenta quindi il soggetto amministrante la circolazione delle merci e delle informazioni, ma dove tale circolazione è localizzata? In quale dimensione ha luogo? Nella società civile. Ecco perché, solo nella modernità

Come pendant dell’autorità si costituisce la società civile […] Nella trasformazione dell’economia tramandata dall’antichità in economia politica si riflettono i mutati rapporti(8)

Avviene così quella dinamica (già descritta da Hannah Arendt in Vita activa) in base alla quale un potere pubblico che amministra la società civile (intesa come la sfera dei privati), eleva a questione di pubblico interesse la riproduzione della vita, portando quindi tale problematica al di là dei limiti della sfera domestica privata:

Mentre la vita privata si pubblicizza, la sfera pubblica, a sua volta, assume forme di intimità […] (poiché) la società contrappostasi allo Stato da un lato delimita chiaramente un ambito privato nei confronti del pubblico potere, dall’altro, però, eleva a questione di pubblico interesse la riproduzione della vita, oltre i limiti di un potere domestico privato […] A questa sfera privata, divenuta pubblicamente rilevante, della «società civile» allude Hannah Arendt, quando caratterizza, diversificandolo dall’antico, il moderno rapporto della sfera pubblica con quella privata, mediante lo sviluppo del «sociale»(9)

Ora, ciò che Habermas vuole evidenziare, è che la strutturazione delle regole funzionali alla amministrazione della società da parte del potere pubblico, avviene attraverso una modalità senza precedenti: la pubblica argomentazione razionale. Anche se è noto che questo è già il tipico modo di fare politica delle pòleis, l’originalità rilevata da Habermas risiede (oltre che nella diversità del concetto e dei contenuti della politica fra l’antichità e la modernità) nel fatto che in tutte le epoche precedenti a quella borghese la dimensione politica, quella in cui si forma l’opinione pubblica giuridicamente rilevante in quanto produttrice di leggi, non è accessibile a tutti gli uomini, ma solo a quelli che possiedono determinati requisiti (come la libertà nell’antica Grecia e l’appartenenza ad un certo ceto nelle epoche successive), in base ai quali assumono lo status di cittadini, mentre, con la società borghese, la politica diviene potenzialmente accessibile ad ogni uomo che, per il semplice fatto di essere tale, è allo stesso tempo un cittadino: prima dell’avvento della società borghese si è un semplice uomo o un cittadino, dopo si è un uomo e un cittadino. Non potrebbe essere spiegato altrimenti il fatto che solo nella società borghese ogni individuo è, almeno in teoria, libero di muoversi dalla dimensione della società civile a quella della politica, e viceversa: «Alla separazione tra Stato e società corrisponde “la scissione dell’uomo (bourgeois) in uomo pubblico (citoyen) e in uomo privato (homme)”»(10).
Tuttavia, nella modernità mancano spesso e palesemente le condizioni economiche, sociali e culturali, in virtù delle quali ciascun uomo possa essere, di fatto e non solo formalmente, anche un cittadino (veste, quest’ultima, che rimane così solamente “ufficiale” ed “ornamentale”), e tali condizioni vengono a mancare non solo a causa di determinati rapporti di forza nella (ri)produzione della vita (poiché la nostra è «una società mondiale contraddistinta da una distribuzione estremamente ingiusta delle chances di vita»(11)), ma anche (e forse soprattutto) a causa della cosiddetta cultura di massa(12), che si manifesta attraverso quei fenomeni di mercificazione della cultura, di conformismo sociale, di marketing politico, di manipolazione delle opinioni, d’indottrinamento sistematico di nuovi valori, già approfonditamente colti e descritti dalla prima Scuola di Francoforte. Per tal via, l’accesso, potenziale, alla politica è reso, di fatto, impossibile e/o non attraente: l’uomo è esplicitamente impedito e/o latentemente reso disinteressato a divenire un cittadino, è privato delle possibilità concrete e/o delle motivazioni necessarie per decidere responsabilmente tra opzioni con conseguenze prevedibili. Tuttavia, poiché uno dei tratti determinanti della modernità è quello, derivante dalla rivoluzione francese, in base al quale ciascun uomo è depositario del diritto/dovere di non essere un mero “consociato” (ovvero, colui che gode della protezione della legge, ma non del diritto di legislazione, di elaborazione della stessa(13)), anche l’uomo disinteressato al suo status di cittadino è periodicamente chiamato ad esprimere le proprie opinioni politiche che, a causa dell’impossibilità d’accesso alla e/o del disinteresse per la e/o della manipolazione delle informazioni sulla politica stessa, non risultano essere il frutto di una riflessione critica, ma l’esito artificioso prodotto da determinate forze dominanti. In questo modo, l’opinione pubblica degenera da strumento di liberazione ad istanza di conformismo ed oppressione. Questo è ciò che avviene quando l’autocoscienza politica dei cittadini non dispone più di un luogo nel quale poter dare vita ad un’autentica comunicazione pubblica, questo è ciò che avviene quando accademie, università, musei, teatri, ecc. vengono spogliati della loro veste di “infrastrutture culturali”, ed assoggettati ai modelli del mercato. Si assottiglia, così, «quel cuscinetto politico-culturale su cui lo Stato di diritto democratico deve essere poggiato per rimanere stabile»(14). Dinamica, questa, che dalle società occidentali sta contagiando quelle orientali, sempre più tese ad emulare le prime, e descritta da Habermas con il termine di “rivoluzione recuperante”(15). Tale termine, per il pensatore francofortese, sta ad indicare la diffusione su scala planetaria di una cultura industriale (mossa unicamente da logiche economiche), figlia del razionalismo occidentale, con effetti omogeneizzanti, visibili tramite l’irrigidimento di determinati stili di vita ed il conseguente blocco della capacità d’immaginazione rivolta al futuro, al punto tale che, l’unica operazione concettuale che gli individui riescono a portare avanti è quella del recupero nel presente degli elementi già esistenti nel passato. In altri termini, assistiamo ad una irresistibile inclinazione a recuperare i modelli del passato come schemi interpretativi del presente e, soprattutto, del futuro, a vedere, cioè, “il passato come futuro” anziché “il passato per il futuro”. Ma, nonostante che quella della rivoluzione recuperante sia una problematica derivante dall’estremizzazione della ratio illuministica (già notoriamente messa sotto accusa, per primi, da Max Horkheimer e Theodor W. Adorno nella Dialettica dell’illuminismo), ciò non significa che la ragione stessa debba essere depotenziata, al contrario, solo un supplemento di ragione può combattere le problematiche provocate da una razionalità distorta, in quanto viziata da logiche calcolanti e strumentali. Per questo, si può considerare l’etica del discorso come l’esito della

ricerca delle tracce di una Ragione che unifichi senza annullare le distanze, che colleghi senza dare lo stesso nome a cose diverse, che tra estranei renda riconoscibile ciò che vi è in comune, ma lasciando all’altro la sua alterità […] (ma ciò non è possibile) se ci lasciamo semplicemente trascinare nel vortice di atmosfere da fine del mondo invece di farci ammaestrare dai nostri sentimenti […] Ciò di cui abbiamo bisogno sono più pratiche fondate sulla solidarietà; senza di ciò, anche l’agire intelligente rimane privo di fondamento e senza conseguenze. Tali pratiche, tuttavia, da parte loro necessitano di istituzioni razionali, di regole e forme di comunicazione che moralmente non esigano troppo dai cittadini e, anzi, richiedano loro con moderazione il tributo della virtù orientata al bene comune […] Io penso che l’approccio della teoria del discorso possa dare buoni frutti non solo per la morale, ma anche per il diritto e la politica. Così quella della democrazia diventa la questione della istituzionalizzazione di procedure e di circuiti di comunicazione che rendano possibile una formazione più o meno discorsiva della volontà e dell’opinione(16)

La ragione, quindi, può (e per Habermas deve) avere una funzione normativa “filtrata” dai sentimenti e portata avanti dalla e nella comunicazione; tuttavia, nella modernizzazione occidentale, questa funzione è formalmente riconosciuta alla ragione in campo morale, e di fatto disconosciuta in quello giuridico, politico ed istituzionale, nei quali determinati valori (fra i quali svettano il denaro ed il potere) sono stati affrancati dalla ragione ed inseriti in una dimensione delinguistificata, guidata da una logica efficientista. Tale logica si autolegittima attraverso una determinata industria della comunicazione (che comprende tanto l’industria dell’intrattenimento quanto quella dell’informazione), che non solo esprime, ma soprattutto produce valori morali e regole giuridico-politiche preconfezionate, sottraendole, quindi, a processi di formazione tramite discussione. Questa sembra essere la zona d’ombra della teoria dell’agire comunicativo: l’etica del discorso può darsi in maniera autentica solo se in una comunità, i processi decisionali discorsivi non siano né fisicamente impediti, né psicologicamente inibiti, né in alcun modo manipolati, insomma, solo se l’individuo conserva quella libertà materiale ed intellettuale che gli è oggi in larga parte negata; viene altrimenti a mancare la condizione di possibilità par excellence di un “buon esito” dell’agire comunicativo: la libertà dei parlanti. Inoltre, bisogna tenere presente che anche nel caso di una perfetta pratica dialogica, esisteranno sempre posizioni inconciliabili, valori non discutibili, di fronte ai quali non si può fare altro che prenderne atto, riconoscendo da parte di tutti ciò che viene incondizionatamente difeso da ciascuno; pertanto, un regime democratico deve garantire non solo l’esistenza di uno spazio pubblico di confronto, ma anche quella della sfera delle libertà personali, una sfera nella quale ciascuno cura ciò che per lui non è negoziabile: «Un processo democratico non approda (solo) alla formazione di una volontà generale, ma (anche) al riconoscimento dell’area della libertà di ciascuno»(17) (in tale prospettiva, liberalismo e comunitarismo rappresentano, rispettivamente, l’estremizzazione del secondo e del primo dei due poli di quel processo democratico).


1) Cfr. J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981 e J.-F. Lyotard, Il post moderno e la nozione di “resistenza” (intervista del 09/05/94 presso l’Istituto Italiano di Cultura di Parigi), in Rai Educational, Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, www.educational.rai.it, e, per una visione d’insieme, G. Patella, Sul postmoderno, Studium, Roma 1990, e D. Tarizzo, Il pensiero libero, Cortina Milano 2002.
2) Cfr. J. Habermas, Morale Diritto Politica, Comunità, Milano 2001. Per un primo approccio orientativo cfr. AA. VV., «Fenomenologia e società», n. 2, 1988 (monografia intitolata Verso un’etica pubblica), R. Bernstein, La nuova costellazione, Feltrinelli, Milano 1994, W. Privitera, Il luogo della critica, Rubbettino, Soveria Mannelli 1996, S. Maffettone, Etica pubblica, il Saggiatore, Milano 2001, e A. Honneth, Critica del potere, Dedalo, Bari 2002.
3) Il divisionismo etico è quella posizione che divide nettamente i fatti dai valori, ritenendoli appartenenti a categorie del tutto disomogenee, tra le quali non sussiste alcun rapporto: i fatti sono oggetti del conoscere e quindi della scienza, i valori appartengono invece all’ambito delle scelte e delle preferenze soggettive. Il divisionismo etico risale all’empirismo di David Hume (si veda la “legge di Hume”, di George E. Moore) e, più recentemente, alla sociologia avalutativa di Max Weber.
4) Cfr. H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, 2 voll., e H. G. Gadamer, Il problema della coscienza storica, Napoli, Guida 1974.
5) J. Habermas, Si addicono anche all’etica del discorso le obiezioni di Hegel contro Kant?, in W. Kuhlmann (cura), Teoria della morale, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 7-9.
6) Per raggiungere una “situazione discorsiva ideale”, in grado cioè di coinvolgere tutti gli interessati, è altresì necessario che il dialogo si insaturi al livello delle “narrative contingenti”, sempre in fieri, delle quali ciascun uomo è depositario e portatore.
7) J. Habermas, Etica del discorso, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 76; sull’argomento cfr., A. Fabris, Etica del discorso, Carocci, Roma 2006, e U. Steinhoff, Kritik der kommunikativen Rationalität: eine Darstellung und Kritik der kommunokationstheoretischen Philosophie von Jürgen Habermas und Karl-Otto Apel, Mentis, Paderborn 2006.
8) J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Bari 1971, p. 32.
9) Ibidem, pp. 190, 38 e 32, parentesi mia; su ciò cfr. Genesi della sfera pubblica borghese, in Ibidem.
10) Ibidem, p. 151, parentesi mie.
11) J. Habermas, Dopo l’utopia, Marsilio, Venezia 1992, pp. 8-9, è infatti palese che «Il mondo in cui viviamo è allo stesso tempo notevolmente comodo e assolutamente povero […] La contemporanea presenza di opulenza e agonia nel mondo che abitiamo rende difficile evitare interrogativi fondamentali sull’accettabilità etica dell’organizzazione sociale prevalente», A. Sen, Globalizzazione e libertà, Mondadori, Milano 2002, p. 11.
12) «La cultura di massa deriva infatti il suo nome equivoco dal fatto che l’allargamento della diffusione viene raggiunto con l’adattamento alle esigenze di distensione e di distrazione di gruppi di consumatori di livello culturale relativamente basso e senza invece preoccuparsi di educare il vasto pubblico a una cultura sostanzialmente integra […] La cultura si trasforma in merce non solo secondo la forma, ma anche secondo il contenuto, lascia cadere alcuni elementi, la cui ricezione presuppone un certo apprendistato, grazie al quale l’appropriazione “consapevole” accresce a sua volta la consapevolezza. Non già la standardizzazione come tale, ma quel particolare precondizionamento dei prodotti che conferisce loro piena fruibilità, cioè la garanzia di poter essere recepiti senza rigorose premesse e, ovviamente, senza tracce durevoli, pone la commercializzazione dei beni culturali in un rapporto inverso rispetto alla loro complessità […] l’area di risonanza di un ceto colto educato all’uso pubblico della ragione è compromessa; il pubblico è diviso fra minoranze di specialisti che discutono in modo non-pubblico e la grande massa dei consumatori che recepiscono pubblicamente», J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, cit., pp. 198-199 e 209; in sintesi, l’area di coloro che discutono pubblicamente di argomenti pubblicamente rilevanti subisce una mutilazione sia quantitativa (poiché molti sono impossibilitati o disinvogliati a partecipare a tale discussione) che qualitativa (per l’abbassamento culturale dei concetti e dei termini con i quali si trova ad avere a che fare chi desidera partecipare al dibattito).
13) Non a caso, la Dichiarazione dei diritti del 1789 è rivolta sia all’uomo che al cittadino.
14) J. Habermas, Dopo l’utopia, cit., p. 48
15) “Rivoluzione recuperante” è la traduzione letterale di Die nachholende Revolution, titolo di un volume di Habermas tradotto in italiano come La rivoluzione in corso, Feltrinelli, Milano 1990.
16) J. Habermas, Dopo l’utopia, cit., pp. 121, 96, 99 e 128, parentesi mia; cfr. anche, dello stesso autore, La costellazione postnazionale, Feltrinelli, Milano 2002.
17) A. Touraine, Libertà, uguaglianza, diversità, il Saggiatore, Milano 2002, p. 264, parentesi mie.

(«Appunti di Scienze Sociali ed Altro», 06/04/2012)

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domenica 13 settembre 2009

Il personaggio nel romanzo borghese

di Erwin de Greef (erwindegreef@libero.it)

Nell’introdurre “L’archeologia del sapere” (1969), Michel Foucault sostiene che il “discorso” va affrontato nel meccanismo della sua istanza. In relazione al nostro presente motivo di studio questo assunto implica che per comprendere lo sviluppo del personaggio nel romanzo borghese bisogna circoscriverne le “regole di formazione”, ossia le sue norme di esistenza, ma anche di coesistenza, mantenimento, modificazione e scomparsa. Il romanzo borghese nasce nel contesto di una realtà storica e sociale in mutamento nel pieno del XVIII secolo; ossia quando, con i fisiocratici, si conferma la società patriarcale e l’importanza imprescindibile dei “principi della rendita terriera” e, con i primi evoluzionisti, Benoît, Bordeu, Maillat e soci si stabiliscono i principi di continuità nell’evoluzione della specie. In questo contesto storico-culturale l’uomo, in quanto cittadino del mondo, entra in contatto con esperienze di ricerca e di confronto sociali e individuali nuove, senza precedenti nella sua storia. Ecco che allora, nell’ambito del romanzo, si verificano dei mutamenti significativi, profondi e definitivi: il narratore, in quanto soggetto enunciante, si distacca completamente da una visione epica della narrazione e comincia un complesso quanto doloroso confronto con il quotidiano; il personaggio o eroe è posto, anche lui, sullo stesso orizzonte assiologico-temporale, la parola raffigurante dell’autore è sullo stesso piano della parola raffigurata del personaggio e può stabilire con essa (anzi, non può non stabilire) rapporti dialogici e ibride combinazioni. Il lettore, a sua volta, si trova ad essere partecipe di questo rapporto diegetico: in altri termini, la parola raffigurante del narratore finisce per transitare, per mezzo del medium della pagina, verso il lettore che la interpreta: in tal modo si stabiliscono delle relazioni dialogiche intorno all’aspetto diegetico della storia e quindi in relazione al “logos”; si tratta dunque di una relazione intorno ad una verità, esposta, assunta e interpretata come tale o meno. Il romanzo borghese – espressione epica moderna dell’epos omerico così come spiegano Bachtin in “Epos e romanzo”, Lukács in “La teoria del romanzo”, Scholes e Kellogg in “La natura della narrativa” e numerosi altri autori critici, non ultimo Foucault nel già citato “L’archeologia del sapere” – si riscrive per mezzo di una narrativa “a prosa”, come spiega con dovizia di particolari Guglielmi in “Letteratura come funzione e sistema”, con un linguaggio distante dalla cristallizzazione dell’epos omerico e alla ricerca di una sua continua ri-collocazione, ri-qualificazione, per andare incontro all’esigenze implicite, ma anche retoriche e stilistiche, del romanzo moderno e del lettore contemporaneo allo scrittore. La fonte narrativa non è più quella del “passato assoluto”, della tradizione orale che si è stabilizzata con il romanzo epico e, in tono minore e già critico, delle saghe. La fonte del romanzo borghese è il presente, il contesto in cui si muovono gli autori, i personaggi e i suoi lettori. Questo mutato assetto dei protagonisti del romanzo (il narratore, il protagonista e il lettore) sono il frutto di una nuova consapevolezza storica e sociale; in un certo senso, la società ha abbattuto definitivamente le barriere epiche del romanzo omerico in quanto non si riconosce più in quei valori etici, e li ha messi in discussione: la parola in quanto scrittura, la tradizione orale della narrativa quale fonte del narratore, e la distanza epica assoluta. L’eroe del romanzo borghese è un uomo scisso, in crisi, dentro un amletico: “To be or not to be”; non sarà mai più “l’uomo virile” di cui scrive Lukács. Ma c’è di più: col venire meno del passato assoluto l’uomo borghese perde – gli ultimi sussulti sono nel Medioevo con la “Divina Commedia” come spiegano Bahtin e Lukáccs – la dimensione immanente della vita: l’eroe era tale perché guidato dagli dei, la storia era cristallizzata perché scritta nell’oralità della tradizione, il lettore ascoltava come un cristiano il suo Vangelo; in qualche misura la narrativa era dogmatica. Con l’età moderna, con l’empirismo, si ha – lo spiega davvero bene Foucault – la scoperta di una scissione dell’uomo: esso è separato da quel coinvolgimento immanente e si ritrova entro un meccanismo di trascendenza prima e di scissione interiore poi. Ecco, il romanzo è sempre di più espressione di questa frattura dell’uomo sia col mondo circostante, la società, sia e soprattutto dentro se stesso. In questa crisi esistenziale, di passaggio dal “thymos” platonico alla “psiche” lockiana, il suo discorso comincia a svilupparsi dentro se stesso: in quello che Freud chiamerà il rapporto “io-io”, che nel suo complicarsi troverà maggiori ostacoli nel rapporto con la società, quello “io-altri”. Per cui agli albori del romanzo moderno, borghese, nuovo epos, il narratore – Jonathan Swift, Daniel Defoe – si trova per la prima volta a ragionare intorno alla società: le sue crisi, i suoi tradimenti umani, economici, sociali, istituzionali: il personaggio del romanzo borghese è da subito un soggetto in crisi, ma non del tutto consapevole – verrà poco dopo – della sua scissione interiore. Per usare una espressione di R. L. Stevenson, gli eroi del romanzo moderno sono “burattini” senza espressione interiore, non potevano averla allora. Quel che l’eroe sa ed esprime con la complicità attiva del narratore è che, da una parte, la sua perfezione ideale – consapevolmente persa per sempre – è possibile solo attraverso il congiungimento con Dio, la trascendenza, e dall’altra vive la sua scissione sociale. In altri termini, i personaggi di Robinson Crusoe (1719) o di Gulliver (1726) sono dentro un meccanismo di narrazione in cui – usando un’espressione di Mario Praz – emerge la “psicologia sociale”. In altre parole, la distanza tra l’eroe epico e quello del romanzo moderno è data dal fatto che mentre il primo assumeva le fattezze esteriori dell’uomo, ma non la sua scissione interiore; il secondo, promuoveva questo stato di crisi, di scissione: all’immanenza, spiega Bachtin, si sostituisce la trascendenza. Gli eroi moderni sono “cercatori” perché la loro messa in scena è sempre e comunque psicologica. Gli elementi del romanzo, i “motivi”, sono astratti: lo è la sua ansia, il suo mondo è in continuo divenire – non ha un inizio certo e l’ultima parola è sempre da venire, scrive Lukács –; astratta è l’oggettività che l’eroe cerca in quanto esterna alla sua immanenza. Il romanzo moderno è, dunque, una forma narrativa aperta e non chiusa: è l’itinerario di un personaggio che va alla ricerca di se stesso per raggiungere una compiuta conoscenza di sé: al “continuum” del discorso causale-temporale si sostituisce il “discontinuum” dello stesso. La ricerca del “lieto fine” è, come dire, un surrogato di quella dinamica circolare, chiusa, dell’epos greco. Di conseguenza, il romanzo non può essere “poetico” ma “a prosa”, leggibile nella sua linearità, nella sua organizzazione frastica; l’eroe non può essere “eroico”, ma sviluppato nella sua scissione tra l’essere e il dovere essere; egli non è immutabile, ma in divenire come lo è la sua ricerca; il “lieto fine” è la ricompensa che idealmente rimanda, nella sua circolarità, alla perfezione dell’epos; il romanzo è per il lettore moderno quel che era l’epos per il lettore antico. In questo contesto così articolato, l’eroe del romanzo moderno è un soggetto che si deve misurare in un contesto di attualità, nella spasmodica ricerca di una sua continua ri-collocazione. Ancora un’autrice come Jane Austen esprime il personaggio, come nell’epos, in una dinamica d’immanenza, ma che, costretto a confrontarsi con la propria scissione, è fortemente ironizzato proprio per annullare la distanza epica: il suo punto di vista è quello del presente, del continuo divenire. Lawrence Sterne, riprendendo il pensiero di John Locke, in “Tristam Shandy” del 1759, “gioca” con il lettore, lo chiama costantemente in causa, prende le sue pause, ironizza il personaggio, mette in luce le sue particolari fissazioni individuali, il suo “hobby horse”, e fa uso del monologo interiore: inteso come un soliloquio muto, ancora come elemento retorico. Il narratore fa la trama del romanzo: fatto assai rilevante quando, nel XX secolo, il romanziere sfrutterà in molteplici aspetti il “flusso di coscienza”. Emerge in letteratura il biografismo; come afferma Lukács, il superamento del “cattivo infinito”: la riduzione della vita alla propria esistenza finita e il cammino verso la scoperta del proprio sé, l’“eo ipso”. Questo accadrà con autori come Henry Fielding, “Tom Jones”, e W. M. Thackeray, “Vanity Fair”. Sarà con Rousseau, la “Nouvelle Héloïse”, che il narratore getterà le basi per il romanzo come autobiografia e l’autobiografia come romanzo.
In questo quadro, nel XIX secolo, l’Europa è investita da moti di rivolta, di rivoluzione: in Francia la Rivoluzione porterà alla decapitazione dei sovrani e poi al bonapartismo; in Inghilterra vi sarà la Rivoluzione industriale: come osserva con certa soddisfatta ironia il Chesternton, (a memoria), “la cosa più importante che successe in Inghilterra è proprio quella che non successe”. Con la Rivoluzione industriale, qualcuno ha scritto del vapore, si ha – osserva la Barrett – il passaggio ad uno stato di caos sempre più manifesto: si svuotano le campagne, si riempiono le città, si creano sacche di povertà che reagiscono con il pauperismo, il cartismo, il fabianesimo. Si fondano il circolo degli “eccentrici” con Hazlitt e Lamb, sulla scia dei romantici, si crea il “circolo di Oxford” con Newman e soci. Tutto questo porterà a sofferti processi di democratizzazione della nazione: i “Reform Bill”, l’abolizione delle “Corn Laws”, la Grande esposizione del 1851, la nascita dell’Impero, l’“Indian Mutiny” del 1857, ma anche la pubblicazione delle opere di Darwin “The Origin of Species” del 1859, e “The Descent of Man” del 1871. Si sviluppano nuovi temi di confronto che entrano di diritto nel contesto del romanzo borghese: la scrittura si rinnova col rinnovarsi della società, delle sue complicanze, dei suoi motivi di conflittualità. Nella narrativa, gli autori si misurano con i temi del socialdarwinismo: l’ereditarietà (in ogni sua forma) entra nella scrittura: la paternità, la maternità, l’abbandono, le eredità patrimoniali, la genealogia. Assumono notevole rilevanza: i processi psicologici patogeni, i problemi legati alla razza, quelli inerenti al rapporto maschio femmina, alla superiorità dell’uno e all’inferiorità dell’altra. Si formano nuovi generi e sottogeneri: il romanzo sentimentale, quello sociale, fantastico, psicologico, colonialistico, fantascientifico, dell’horror, e così via. Il dato più importante – come hanno messo bene in luce molti autori critici e in modo rilevante Chesterton e Mario Praz – è la presenza imponente, senza precedenti e susseguenti, della scrittura al femminile: si va da Jane Austen, alle sorelle Brontë, Mary Shally, Elisabeth Gaskell, Mary Elisabeth Braddon, Virginia Woolf solo per citarne alcune. Si mette in rilievo come queste figure della narrativa abbiano scritto, in molti casi, romanzi di rilievo assoluto e non solo per l’epoca di riferimento: “Jane Eyre”, “Wuthering Heights”, “Pride and Prejudice”, “Middlemarch”, e altre ancora. Tra queste scrittrici alcune si firmano con nomi maschili, lasciando dietro le quinte di una società maschilista e paternalista, i loro nomi di battesimo: la loro manifestazione possibile e piena; in un’opera del 1811 Jane Austen si firma con un “by a lady”, che ne salva l’origine sociale e l’orgoglio femminile. Nota Virginia Woolf che la scrittura di Charlotte Brontë e George Eliot assunsero una psicologia da narratore interno, implicito, propria del pensare maschile. Non è la rinuncia totale di un’identità, di un’appartenenza, ma più semplicemente la difficoltà di espressione in un mondo dettato dal ritmo dell’uomo: c’è anche una differenza di “lingua”, di cultura, di idee tra uomo e donna. Eppure, come scrive H. James in “A London Life” del 1888, la donna sa anche dedicarsi alla lettura e ha già messo da parte la pittura e il ricamo come attività primarie. D’altra parte – riprendendo il pensiero del Chesterton – il XIX secolo è al femminile: Mary Wollstonecraft scrive già nel 1792 “A Vindication of the Rights of the Women”, emergono figure come quella di Florence Nightingale e filosofi come Mill che difendono – anche in Parlamento – l’universo femminile. La scrittura al femminile è preceduta nel secolo XVIII da opere quali: “Moll Flanders” o “Pamela” e “Clarissa”, dove ancora si avverte con certo fastidio la mano longa dello scrittore. Fin da allora, nella forma romanzata o dell’epistolario, s’avverte la necessità di una mescolanza tra la finzione del personaggio e la realtà del narratore: è la vita interiore che domina il racconto, la storia, la narrazione. Nel secolo decimonono la vita interiore – spiegano Scholes e Kellogg – è regolata per mezzo dell’analisi narrativa, in cui i pensieri del personaggio sono filtrati attraverso la mente del narratore e sono accompagnati da un commento più o meno interpretativo; o per mezzo del monologo interiore che si fa più diretto e drammatico: insomma, si comincia a superare l’elemento retorico. È lo studio dei processi psicologici patogeni che permetterà alla scrittura narrativa, al suo autore, ai personaggi, attraverso la sintassi non prosastica del moderno flusso di coscienza, a spezzare definitivamente la retorica del monologo interiore. È con Tolstoij, nei capitoli XXVII-XXIX di “Anna Karenina”, che si afferma quella forma di fusione tra il monologo interiore con la sua forma retorica e il flusso di coscienza come forma di libera associazione delle idee. Il romanzo è qui che supera le forme del naturalismo alla Zola e il verismo. Si tratta di uno slittamento verso il simbolismo: la “sintassi non prosastica” è l’espressione, e ancor prima il sintomo, di un vero e proprio disagio del narratore di fronte alla parola, che non riesce più a soddisfare fino in fondo la sua urgenza, la sua criticità nel comunicare. Questo è quel succede in “Madame Bovary”, “Night and Day” di Virginia Woolf, in opere di D. H. Lawrence. Se il personaggio è intelligente allora il suo pensiero sarà intelligibile; se malato sarà più poetico. Nell’“Ulysses” J. Joyce fa ricorso agli errori di citazione o alla “coscienza onirica”, ma questa fallisce perché del tutto slegata dalla realtà e, quindi, come si spiega in psicanalisi sfugge ad una codificazione reale. In “Lady Chatterley Lover’s”, Lawrence scopre quella scissione della coscienza tra superiore e inferiore, il subconscio: è il mondo dei miti e dei mostri, il Minotauro, il labirinto; è il “ri-arrivo” di Yeats. È la fine della centralità interiore dell’uomo che, invece, si scopre scisso anche nella coscienza: è l’uomo senza centro individuale di Lawrence, “tutto a pezzi”; è l’impossibilità di trovare un centro univoco per tutti gli esseri umani di Proust. Ecco, allora, che per il primo l’uomo non ha un’anima e per il secondo l’esistenza dipende da una molteplicità di percezioni che rendono la realtà assolutamente relativa. In vero, questi due autori stanno argomentando sul fatto che nel Novecento la caratterizzazione tende ad abbandonare la ricerca di penetrare nella psiche dell’individuo per concentrarsi sulla percezione di impressioni, che in quanto tali non pretendono essere valide come fatti: questa è la tecnica di caratterizzazione di romanzi quali: “Lord Jim”, “The Good Soldier”, “A la recherche du temps perdu”, “Absalom, Absalom!” e “Alexandria Quartet”. Da qui verranno i romanzi del nuovo realismo, del romanzo medio, del romanzo alla Robbe-Grillet. Come scrive Giuseppe Petronio i romanzi dell’assurdo, dello sguardo e dell’oggetto.

Bibliografia


• Aa.vv., Storia della civiltà letteraria inglese, Vol. 2°, Torino, Utet, 1996.

• Chesterton G. K., Il compromesso vittoriano e i suoi nemici, Milano, Bompiani editore, 1945.

• Guglielmi G., Letteratura come sistema e come funzione, Torino, Einaudi editore, La ricerca letteraria, 1967.
• Lukács G., Teoria del romanzo, Roma, Newton Compton italiana, Saggi, 1972.
• Praz M., La letteratura inglese dai romantici al novecento, Milano, Edizioni accademia, Le letture del mondo, 1989.
• Petronio G., (a cura di), Teorie e realtà del romanzo, Roma-Bari, Editori Laterza, Universale, 1977.
• Scholes R, Kellogg R., La natura della narrativa, Bologna, Società editrice il Mulino, Biblioteca, 1970.

• Stevenson R. L., (a cura di Almansi G.), L’isola del romanzo, Palermo, Sellerio editore, La diagonale, 1987.

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mercoledì 9 settembre 2009

Sono in guerra

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Viviamo in un sistema che ci costringe ad impiegare le poche decine di anni che abbiamo a disposizione nella ricerca di denaro, di oggetti e di potere, simboli mitizzati, desiderati, invidiati, attribuendo alla loro carenza la causa della nostra insoddisfazione, infelicità. Siamo talmente ammaestrati da avere dimenticato cosa sia la felicità, e da non poterla addirittura neanche immaginare al di fuori dei paradigmi convenzionalmente deputati a ciò.
Nella mia piccolezza dichiaro guerra a questo sistema, pretendendo di essere felice e pretendendo di esserlo al di fuori dei “meccanismi di felicizzazione”.
Sono orgogliosamente in guerra, incamminato verso una meravigliosa dichiarata sconfitta che, per il solo fatto di avere dichiarato guerra, è vittoria.

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lunedì 7 settembre 2009

La tua pornografia

di Girolamo Mario Gullace (gullace.g.mario@hotmail.it)

Questo mi sembri: un corpo franco,
valli e colli in una successione
di terra che da sé spinga e sgombri
nubi e ombre. Se ti denudi, d'ambra,
la tue membra, mi immagino, nel buio.
Ho pensieri perpendicolari al petto,
un equatore che raccoglie i raggi.
Non so se le mie idee, o il tuo cuore,
hanno quel calore che non passa,
quell'Africa dov'è cresciuto l'uomo,
l'Amazzonia che respira il mondo,
quel perenne impero dell'estate
con la fascia tropicale sulla fronte,
le vergini e inesplorate flore
col furore dei vulcani accesi,
con l'accadere che potrebbe scaturire
nelle vertigini di un'altra geografia:
la tua pornografia, che mi tiene desto
in quel gesto che ti sfugge, o vuoi,
o fai, o sei: una tigre nel sopore
recitato o apparente. Nella brama,
invece, affili quel filo della lama,
che richiama un trasparente ardore

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