di Gustavo Sánchez Velandia (gustavo.sanchez@ehess.fr; II di 4)
Questo taglio che la grafia (la linea del disegno) opera nell’orizzonte della tattilità (1 lo spazio in quanto esperienza corporale 2 la pittura in quanto materialità che interviene in una superficie 3 la vista in quanto superficie corporale sensibile -la retina- colpita da segnali tattili -i fotoni- che portano l’impronta di altri corpi) ricorderà, forse, l’idea di McLuhan secondo la quale la scrittura (alfabetica) opera un taglio nel continuum dell’oralità. Lo stesso McLuhan assimila l’oralità e la tattilità. Giacomo Marramao nel suo Minima temporalia segnala la relazione che esiste fra scrittura e disegno: “Γραφή vale dunque nella duplice significazione di scrittura e pittura: essa è propriamente di-segno, de-cisione. L’incisione, in cui la γραφή per sua essenza consiste, rappresenta in altri termini un taglio, una ferita inferta al corpo dell’essere. Folle per Platone, chi pensa che la verità possa avere dimora in una tale impressione, il cui unico effetto è di alterare il continuum omogeneo del discorso inducendovi l’affezione della differenza.” Ovviamente la pittura che Platone ha in mente non è la pittura che noi, dopo il secolo XX, possiamo avere in mente, ovvero una pittura in cui la componente tattile è decisiva. Abbiamo visto, però, che gli esercizi proposti da Rojas sembrerebbero mostrare che la possibilità di cogliere la differenza si trovi dal lato della tattilità liberandola dai modelli imposti dalla grafia. Sennonché per riuscire a fare questo, Rojas provava pure a liberare la linea dalla sua funzione di separazione fra fondo e figura, fra vuoto e essere, esplorandola come gesto materico, riconnettendola con la tattilità. In atre parole, perché la grafia possa operare la riduzione analitica è necessario che sia stata separata dalla tattilità e occultata in quanto gesto, traccia, materiale, corpo. Il logos che Platone vuole preservare dalla scrittura non è, quindi, l’orizzonte orale-tattile ma una parola separata dalle cose e completamente presente a se stessa. Occultata, quindi, in quanto vibrazione, tonalità, movimento. Si tratta della parola che insegue l’idea, un immagine, anch’essa immateriale, senza corpo. La domanda per l’essere delle cose “che cos’è il tavolo in quanto tavolo” ha proprio lo scopo d’isolare la figura dal suo sfondo, l’ente dalla corporeità caotica in cui è inserito. In questo senso quella possibilità dell’arte di essere trans-rappresentazionale o trans-grammaticale potrebbe chiamarsi anche trans-ontologia.
Si tratta ovviamente di una possibilità. Non ci sono strade necessarie in arte. Se essere trans-ontologici sia ciò che si addice di più all’essenza dell’arte, non è una domanda che interessi a Lucas Ochoa (è ovviamente non è una domanda trans-ontologica). Gli interessa che l’arte possa essere anche pensiero e conoscenza e, quindi, trans-ontologia, e gli interessa difendere tale possibilità. Tale possibilità non è per tanto, automatica: è necessario attivarla con una decisione volontaria. Ma questa decisione, come abbiamo visto con l’esempio dell’illusione Müller-Lyer, non può essere presa soltanto in una istanza mentale (cioè attraverso un linguaggio immateriale, interamente presente a sé stesso nel quale la coincidenza fra concetto e significante è perfetta poiché il significante si è volatilizzato). La ricerca artistica di Ochoa dopo l’incontro con Nelly Rojas si centrerà sul problema di come prendere/attuare tale decisione. Egli continuerà ad esplorare, quindi, il legame fra tattilità e pensiero che l’incontro con Rojas gli aveva aperto partendo dalla condizione di corpo che pensa in relazione ad altri corpi umani e non umani. Potremmo chiamare questa preoccupazione per l’intersoggettività, abbinata alla corporeità, inter-corporeità. L’inter-corporeità come luogo del pensiero.
Tuttavia negli anni che seguirono Ochoa trovò degli ostacoli allo sviluppo di questa possibilità all’interno dei programmi artistici che frequentò in diverse università. Si potrebbe cominciare dalla stessa Rojas, la quale sottometteva le pratiche dello sguardo che comunicava ai suoi allievi, a delle grammatiche della composizione fondate sulla contestata e ambigua idea dell’equilibrio visivo all’interno della superficie pittorica. L’opera era accettabile se concordava con certe regole della composizione che potevano non arricchire o persino contraddire le problematiche che essa esaminava. Per molti all’interno di quelle università ciò che qui abbiamo chiamato arte trans-ontologica non rappresentava una vera problematica artistica. Probabilmente una delle ragioni è che spostare il centro della problematica artistica dall’oggetto al rapporto fra inter-corporeità e pensiero produce una pratica non funzionale ad un mercato artistico. Ma allora perché scomodarsi osteggiandola? Il mercato s’incaricherebbe di annullarla. Si potrebbe rovesciare il problema: il mercato si approfitta dell’incapacità dell’arte di divenire pensiero e conoscenza.
Sebbene l’arte contemporanea abbia provato a fare i conti con il soggettivismo moderno - spostando il fulcro della produzione artistica dal talento di una genialità individuale all’intersoggettività semantica che dipende dai circuiti in cui l’opera è prodotta, fruita, interpretata, non sembra aver esaminato abbastanza il problema della scissione fra sensibilità e ragione (fra corpo e mente), così legato al soggettivismo. Anzi, è probabile che questa scissione si veda accentuata dall’identificazione fra inter-soggettività e linguaggio. Per Ochoa, sebbene il linguaggio sia una pratica intersoggettiva, non necessariamente le pratiche intersoggettive sono linguistiche: una pratica intersoggettiva può eccedere i giochi linguistici in cui essa si da trasformandoli o addirittura fondandone di nuovi. Si potrebbe dire che tutto dipende dalla concezione che abbiamo di linguaggio (cos’è più essenziale la sua componente sincronica-grammaticale o quella diacronica-storica?) ma il problema è che parliamo di linguaggio (uno solo) partendo, quindi, di fatto, da un a-priori: che tutti i fenomeni linguistici siano riconducibili ad una sola forma. Tale forma definirà ciò che è significativo per noi (definendo l’ambito della nostra semantica) mentre il resto (che adesso ha senso solo in quanto rimanda al semantico) farà parte della vita inafferrabile e transitoria dei segni.
Per Ochoa era necessario, dunque, distaccare il pensiero dal linguistico senza che ciò implicasse ricadere nel soggettivismo. Tale ottica translinguistica era precisamente la possibilità che egli intravedeva nell’arte come pratica di pensiero (trans-ontologica, trans-rappresentazionale, trans-grammaticale).
Nella sua immaginazione di artista plastico che riflette interagendo con i materiali visualizza spesso la mente come una materia plastica che interagisce con il mondo e che si estende per tutto il suo corpo. La mente-corpo riceve le impronte del mondo e delle altre menti-corpo, porta nella sua materia le tracce di questi incontri, che si sovrappongono come l’operare costante di una folla di sigilli su di un’argilla tenera capace di trattenere quelle incisioni nella sua materia anche dopo l’azione di altri miliardi di sigilli. Pensare sarebbe qualcosa come mettere in moto quest’intera forma, questo groviglio plastico d’impronte.
Questo taglio che la grafia (la linea del disegno) opera nell’orizzonte della tattilità (1 lo spazio in quanto esperienza corporale 2 la pittura in quanto materialità che interviene in una superficie 3 la vista in quanto superficie corporale sensibile -la retina- colpita da segnali tattili -i fotoni- che portano l’impronta di altri corpi) ricorderà, forse, l’idea di McLuhan secondo la quale la scrittura (alfabetica) opera un taglio nel continuum dell’oralità. Lo stesso McLuhan assimila l’oralità e la tattilità. Giacomo Marramao nel suo Minima temporalia segnala la relazione che esiste fra scrittura e disegno: “Γραφή vale dunque nella duplice significazione di scrittura e pittura: essa è propriamente di-segno, de-cisione. L’incisione, in cui la γραφή per sua essenza consiste, rappresenta in altri termini un taglio, una ferita inferta al corpo dell’essere. Folle per Platone, chi pensa che la verità possa avere dimora in una tale impressione, il cui unico effetto è di alterare il continuum omogeneo del discorso inducendovi l’affezione della differenza.” Ovviamente la pittura che Platone ha in mente non è la pittura che noi, dopo il secolo XX, possiamo avere in mente, ovvero una pittura in cui la componente tattile è decisiva. Abbiamo visto, però, che gli esercizi proposti da Rojas sembrerebbero mostrare che la possibilità di cogliere la differenza si trovi dal lato della tattilità liberandola dai modelli imposti dalla grafia. Sennonché per riuscire a fare questo, Rojas provava pure a liberare la linea dalla sua funzione di separazione fra fondo e figura, fra vuoto e essere, esplorandola come gesto materico, riconnettendola con la tattilità. In atre parole, perché la grafia possa operare la riduzione analitica è necessario che sia stata separata dalla tattilità e occultata in quanto gesto, traccia, materiale, corpo. Il logos che Platone vuole preservare dalla scrittura non è, quindi, l’orizzonte orale-tattile ma una parola separata dalle cose e completamente presente a se stessa. Occultata, quindi, in quanto vibrazione, tonalità, movimento. Si tratta della parola che insegue l’idea, un immagine, anch’essa immateriale, senza corpo. La domanda per l’essere delle cose “che cos’è il tavolo in quanto tavolo” ha proprio lo scopo d’isolare la figura dal suo sfondo, l’ente dalla corporeità caotica in cui è inserito. In questo senso quella possibilità dell’arte di essere trans-rappresentazionale o trans-grammaticale potrebbe chiamarsi anche trans-ontologia.
Si tratta ovviamente di una possibilità. Non ci sono strade necessarie in arte. Se essere trans-ontologici sia ciò che si addice di più all’essenza dell’arte, non è una domanda che interessi a Lucas Ochoa (è ovviamente non è una domanda trans-ontologica). Gli interessa che l’arte possa essere anche pensiero e conoscenza e, quindi, trans-ontologia, e gli interessa difendere tale possibilità. Tale possibilità non è per tanto, automatica: è necessario attivarla con una decisione volontaria. Ma questa decisione, come abbiamo visto con l’esempio dell’illusione Müller-Lyer, non può essere presa soltanto in una istanza mentale (cioè attraverso un linguaggio immateriale, interamente presente a sé stesso nel quale la coincidenza fra concetto e significante è perfetta poiché il significante si è volatilizzato). La ricerca artistica di Ochoa dopo l’incontro con Nelly Rojas si centrerà sul problema di come prendere/attuare tale decisione. Egli continuerà ad esplorare, quindi, il legame fra tattilità e pensiero che l’incontro con Rojas gli aveva aperto partendo dalla condizione di corpo che pensa in relazione ad altri corpi umani e non umani. Potremmo chiamare questa preoccupazione per l’intersoggettività, abbinata alla corporeità, inter-corporeità. L’inter-corporeità come luogo del pensiero.
Tuttavia negli anni che seguirono Ochoa trovò degli ostacoli allo sviluppo di questa possibilità all’interno dei programmi artistici che frequentò in diverse università. Si potrebbe cominciare dalla stessa Rojas, la quale sottometteva le pratiche dello sguardo che comunicava ai suoi allievi, a delle grammatiche della composizione fondate sulla contestata e ambigua idea dell’equilibrio visivo all’interno della superficie pittorica. L’opera era accettabile se concordava con certe regole della composizione che potevano non arricchire o persino contraddire le problematiche che essa esaminava. Per molti all’interno di quelle università ciò che qui abbiamo chiamato arte trans-ontologica non rappresentava una vera problematica artistica. Probabilmente una delle ragioni è che spostare il centro della problematica artistica dall’oggetto al rapporto fra inter-corporeità e pensiero produce una pratica non funzionale ad un mercato artistico. Ma allora perché scomodarsi osteggiandola? Il mercato s’incaricherebbe di annullarla. Si potrebbe rovesciare il problema: il mercato si approfitta dell’incapacità dell’arte di divenire pensiero e conoscenza.
Sebbene l’arte contemporanea abbia provato a fare i conti con il soggettivismo moderno - spostando il fulcro della produzione artistica dal talento di una genialità individuale all’intersoggettività semantica che dipende dai circuiti in cui l’opera è prodotta, fruita, interpretata, non sembra aver esaminato abbastanza il problema della scissione fra sensibilità e ragione (fra corpo e mente), così legato al soggettivismo. Anzi, è probabile che questa scissione si veda accentuata dall’identificazione fra inter-soggettività e linguaggio. Per Ochoa, sebbene il linguaggio sia una pratica intersoggettiva, non necessariamente le pratiche intersoggettive sono linguistiche: una pratica intersoggettiva può eccedere i giochi linguistici in cui essa si da trasformandoli o addirittura fondandone di nuovi. Si potrebbe dire che tutto dipende dalla concezione che abbiamo di linguaggio (cos’è più essenziale la sua componente sincronica-grammaticale o quella diacronica-storica?) ma il problema è che parliamo di linguaggio (uno solo) partendo, quindi, di fatto, da un a-priori: che tutti i fenomeni linguistici siano riconducibili ad una sola forma. Tale forma definirà ciò che è significativo per noi (definendo l’ambito della nostra semantica) mentre il resto (che adesso ha senso solo in quanto rimanda al semantico) farà parte della vita inafferrabile e transitoria dei segni.
Per Ochoa era necessario, dunque, distaccare il pensiero dal linguistico senza che ciò implicasse ricadere nel soggettivismo. Tale ottica translinguistica era precisamente la possibilità che egli intravedeva nell’arte come pratica di pensiero (trans-ontologica, trans-rappresentazionale, trans-grammaticale).
Nella sua immaginazione di artista plastico che riflette interagendo con i materiali visualizza spesso la mente come una materia plastica che interagisce con il mondo e che si estende per tutto il suo corpo. La mente-corpo riceve le impronte del mondo e delle altre menti-corpo, porta nella sua materia le tracce di questi incontri, che si sovrappongono come l’operare costante di una folla di sigilli su di un’argilla tenera capace di trattenere quelle incisioni nella sua materia anche dopo l’azione di altri miliardi di sigilli. Pensare sarebbe qualcosa come mettere in moto quest’intera forma, questo groviglio plastico d’impronte.
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