di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
Con il crollo dei regimi politici totalitari, la problematica del controllo totale sugli individui è stata superata? Molti autori contemporanei ritengono che tale problematica persista all’interno della società odierna, avendo semplicemente mutato forma e modi d’attuazione; ciò rende necessario il ricorso ad un nuovo vocabolario concettuale. Prima di descriverlo è però interessante vedere come le prime tracce della modificazione delle strutture di controllo sociale, siano state notate da autori provenienti dall’Est Europa, ovvero da quei Paesi in cui è stata più tangibile la transizione da vecchie a nuove forme di dominio totale.
Il ricorso ad una “neolingua”, come la chiama George Orwell in 1984, è, secondo Václav Havel, il modo in cui un nuovo potere totalitario (di cui Havel intravede l’avvento nella Cecoslovacchia degli anni Settanta e Ottanta) impedisce il sorgere di un “pensiero eretico”. In alternativa alla liquidazione fisica di tutti quegli strati della popolazione che non aderiscono agli assunti dell’ideologia-verità, tale nuovo totalitarismo mira ad una strumentalizzazione del linguaggio, finalizzata all’inibizione di ogni giudizio indipendente e, quindi, all’accettazione passiva di determinati comportamenti esteriori. Da un totalitarismo violento, che si insedia al potere a “colpi di fucile”, si passa così ad un “totalitarismo mite”, che mantiene il potere a “colpi di linguaggio” standardizzato, originando così delle vere e proprie “logocrazie di massa”. La manipolazione linguistico-concettuale, con relativa alterazione della memoria storica, rappresenta quindi il nuovo strumento di controllo sociale:
La coscienza è memoria […] creature la cui memoria sia effettivamente manipolata, programmata e controllata dall’esterno, non sono più persone in senso proprio […] Questo è ciò che i regimi totalitari tentano incessantemente di ottenere. Persone la cui memoria – individuale o collettiva – venga nazionalizzata, divenga una proprietà dello Stato, completamente manipolabile e controllabile, si trovano del tutto alla mercè dei loro dominanti; sono state deprivate della propria identità; sono indifese e incapaci di mettere in discussione alcunché di ciò che è stato detto loro di credere. Non si ribelleranno mai, non penseranno mai, non creeranno mai (non a caso, oggi non si assiste ad una distruzione della memoria storica, come nel caso del nazi-fascismo, ma al sorgere di una “cattiva memoria storica”, subordinata al controllo del potere, ovvero ad una sorta di industria della storia che produce i ricordi ufficiali, in modo così convincente da riuscire a contaminare la memoria personale, colonizzandola)(1)
Il potere non è più interessato all’adesione fideistica all’ideologia(2), da parte dei cittadini, ma all’instaurarsi di un regime di conformismo che risulti, senza spargimenti di sangue, impossibile da rifiutare, criminalizzando coloro che ne tentano il rigetto. Così, ogni uomo risulta coinvolto nella struttura di questo nuovo potere “autototalitario”, la cui legittimità dipende, come in un circolo vizioso, dall’adesione ad esso da parte dei cittadini.
Nell’universo post-totalitario il male non produce più l’immenso numero di cadaveri degli uomini “di troppo”, perché nella demoralizzazione sistematica che abbassa a vittima innocente nel momento in cui eleva a colpevole, ognuno ha trovato la propria collocazione […] l’autototalitarismo sociale […] dà all’uomo l’illusione di essere una persona con un’identità ed una dignità; gli permette di ingannare la propria coscienza e di mascherare al mondo il suo inglorioso modus vivendi; di confondere il proprio ruolo di vittima con quello di parte in sintonia con l’ordine cosmico(3)
Uscire, grazie ad un pensiero autonomo, dall’indifferenza nei confronti della propria e dell’altrui esistenza è l’unico modo, per Havel, per sottrarre al potere la sua indispensabile risorsa: la complicità di tutti e di ciascuno. Ed è proprio per non avere concesso tale complicità che Jan Patočka, maestro di Havel, muore (nel Marzo del 1977), dopo un estenuante interrogatorio della polizia ceca, lasciando in eredità la concezione di un pensiero filosofico cui spetta la missione di porsi “sulla linea del fronte”, poiché la vera lotta di ogni totalitarismo è condotta essenzialmente contro la riflessione filosofica che, non diversamente dal “Thinking” arendtiano, non ha nulla a che fare con l’accumulazione del sapere, essendo piuttosto una radicale e permanente (ri)costruzione dell’esistente. Per Patočka, la filosofia deve costantemente opporsi all’“ordine del giorno”, alla supina accettazione dell’esistente, a quelle “contingenze secondarie” (poiché la “contingenza primordiale” è quella della finitudine umana) che pretendono docilità, obbedienza, subordinazione. La filosofia, insomma, deve essere una “filosofia del notturno” che, in quanto tale, si oppone a tutte le potenze affermative e positive che vogliono l’assoggettamento della possibilità alla realtà(4).
Insomma, diversi pensatori del Novecento, seppur attraverso una terminologia ed un itinerario concettuale diverso, giungono ad individuare all’interno della società contemporanea, e quindi posteriore al totalitarismo inteso come evento storico, una problematica simile a quella che la Arendt pone alla base del male totalitario: la degenerazione della capacità di pensare autonomamente, ovvero al di fuori di uno schema ideologico, problematica questa che già la stessa Arendt aveva notato essere presente non solo nel cittadino-tipo dello Stato totalitario, ma anche nelle figure antropologiche dell’homo faber e dell’animal laborans.
Possiamo ora introdurre la marcusiana concezione di “sistema”, che rappresenta una ricca e articolata descrizione della nuova forma storica dei meccanismi di dominio. Esso affonda le sue origini in una determinata modalità di produzione tecnologica, ispirata da una falsa razionalità, che conduce ad una totale subordinazione dell’esistenza ad un paradigma d’efficienza e produttività, funzionale all’instaurarsi ed al perpetuarsi di una nuova forma di dominazione:
Il metodo scientifico che ha portato al dominio sempre più efficace della natura giunse così a fornire i concetti puri non meno che gli strumenti per un dominio sempre più efficace dell’uomo da parte dell’uomo, attraverso il dominio della natura(5)
Ma a tale esito non si è giunti per il progresso della tecnica (in sé neutrale in quanto sprovvista di un telos), bensì a causa dello sviluppo di una determinata tecnologia (la forma storica della tecnica), che ha come esito determinante quello dell’inibizione del pensiero critico. Esso infatti perde i suoi tipici connotati di trascendenza ed astrattezza, indispensabili per perseguire ogni possibile “chiarimento ontologico” tra status quo e sue alternative, tra essere e dover essere, tra esistenza ed essenza, tra “è” e “dovrebbe”, divenendo un pensiero affermativo e positivo, incapace di qualsiasi critica nei confronti del reale. In altri termini, viene meno l’antagonismo tra cultura e realtà, poiché viene meno una qualsiasi forma d’opposizione alla realtà, come ad esempio, l’alienazione artistica. L’arte infatti, così come l’alta cultura, risulta “desublimizzata”, ovvero spogliata della sua facoltà d’immaginare una realtà altra, e assorbita all’interno dell’ordine di cose esistente, così, la ragione si trasforma in mero strumento d’analisi e di descrizione di fatti empirici. Anche il linguaggio viene oggettivato, perdendo la capacità d’esprimere dei significati concettuali e limitandosi unicamente ad identificare la funzione che una cosa svolge. «In questo universo di comportamento parola e concetto tendono a coincidere, o meglio il concetto tende ad essere assorbito dalla parola»(6).
Per tal via il pensiero, l’arte, l’alta cultura ed il linguaggio, insomma l’uomo, acquistano quel carattere di “unidimensionalità” consistente nell’incapacità di vedere oltre la dimensione esistente, prospettandone delle alternative.
In questo processo, la dimensione “interiore” della mente, in cui l’opposizione allo status quo può prendere radice, viene dissolta. La perdita di questa dimensione, in cui il potere del pensiero negativo – il potere critico della Ragione – si trova più a suo agio, è il correlato ideologico dello stesso processo materiale per mezzo del quale la società industriale avanzata riduce al silenzio e concilia con sé l’opposizione. La spinta del progresso porta la Ragione a sottomettersi ai fatti della vita, e alla capacità dinamica di produrre in maggior copia fatti connessi allo stesso tipo di vita. L’efficienza del sistema ottunde negli individui la capacità di riconoscere che esso non contiene fatti che non siano veicolo del potere repressivo nell’insieme(7)
Il sistema, quindi, non solo inibisce la formazione di un pensiero critico ma impedisce anche il riconoscimento della presenza di tale forma di repressione. E’ questo infatti l’esito della “desublimazione repressiva”, ovvero dell’assorbimento e dell’appiattimento in un’unica dimensione di tutte quelle forze culturali ed artistiche che, nella società pre-tecnologizzata, costituivano una dimensione opposta a quella reale. L’arte e l’alta cultura sono infatti essenzialmente alienazione, e
L’alienazione artistica è sublimazione. Essa crea immagini di condizioni irriconciliabili con il “principio di realtà” stabilito, le quali diventano tuttavia, come immagini culturali, non solo tollerabili ma persino edificanti ed utili(8)
Ma, nell’attuale momento storico, la desublimazione repressiva riduce queste “immagini culturali” alla società esistente. Anche la liberazione sessuale, che appare come una conquista della modernità, è, a causa della desublimazione, assorbita dal sistema che permette un soddisfacimento sessuale solo secondo tempi e modi da esso imposti. Così l’Eros, inteso come energia libidica che pervade l’intero organismo e si può manifestare in tempi e modalità diverse, si muta in attività sessuale localizzata in precise zone del corpo e limitata a precisi criteri di svolgimento. Per tal via, l’attività sessuale viene inscritta all’interno della sfera del tempo libero, inteso come quel tempo di riposo necessario agli individui per poter essere efficientemente re-immessi nel processo produttivo. Un ulteriore esito della desublimazione è, come già accennato, la trasformazione del linguaggio che, mirando unicamente ad una rapida ed efficace descrizione della funzione di una cosa, non lascia spazio alla critica ed alla riflessione, esso quindi descrive qualcosa ma non significa qualcosa.
I concetti che abbracciano i fatti e in tal modo li trascendono stanno perdendo la loro autentica rappresentazione linguistica. Senza queste mediazioni, il linguaggio tende ad esprimere e a promuovere l’identificazione immediata della ragione col fatto, dell’essenza con l’esistenza, della cosa con la sua funzione […] (il concetto) non ha altro contenuto che non sia quello designato dalla parola nell’uso pubblicitario, standardizzato di questa, né ci si aspetta che alla parola segua altra risposta che non sia il comportamento standardizzato, proposto dalla pubblicità […] La parola diventa clichè(9)
Questa impostazione sociale si condensa in una “coscienza falsamente felice”, la cui illusoria felicità poggia sulla mancata comprensione delle forme di dominio cui è sottoposta. L’uomo che vive in un’unica dimensione, quella del sistema, è dunque colui per il quale la ragione si è identificata con la realtà al punto tale che, al di fuori di quest’ultima, non vi sono altre possibilità d’esistenza. Dunque, la società industriale avanzata è caratterizzata da una nuova forma di repressione che prevede il consenso dei dominati, ottenuto appiattendo le aspirazioni e i bisogni umani sulle necessità del sistema e quindi facendoli coincidere con esso. Si realizza così una nuova forma di amministrazione totale descrivibile come una sorta di sistema democratico totalitario, in cui il controllo e la manipolazione degli individui avviene non tramite gli “arendtiani” strumenti della violenza fisica, della censura e del terrore, bensì attraverso una determinata impostazione tecnologica(10).
Tuttavia, per Herbert Marcuse l’uso repressivo della tecnologia non è altro che l’esito finale di una “scelta iniziale” con la quale una società organizza la vita dei suoi membri, scelta iniziale che può (e per Marcuse deve) essere ridiscussa, ridefinendo i fini e l’orizzonte dello sviluppo tecnologico, mettendo quest’ultimo al servizio di una liberazione spazio-temporale delle facoltà psico-fisiche umane. Ovviamente, tale ipotesi poggia sulla concezione di una sostanziale ambiguità della tecnica: essa può essere sia fonte di asservimento che di liberazione umana. E la liberazione è oggi possibile poiché l’automazione raggiunta dal progresso tecnologico, sotto la spinta del principio di prestazione, permetterebbe un risparmio d’energie, da sottrarre al lavoro e da dedicare allo sviluppo di quelle facoltà umane oggi represse. In altri termini, la società iper-repressiva può affrancarsi dal principio di prestazione, e dalla repressione addizionale (o surplus di repressione) ad esso correlata, conciliandosi il più possibile con il principio del piacere(11). Ci porterebbe ora troppo lontano vedere come, in opere quali Ragione e rivoluzione, La fine dell’utopia, Saggio sulla liberazione e soprattutto La dimensione estetica (ultima sua opera), il Marcuse maturo formuli la proposta del Grande Rifiuto (o negazione determinata) nei confronti dello status quo, vedendo nei giovani e negli intellettuali, ovvero in tutti i non integrati nel sistema, negli outsiders, il nuovo soggetto rivoluzionario di una auspicata rivoluzione coscienziale, volta alla liberazione degli uomini e all’edificazione di una società “estetica”, di una “società come opera d’arte”.
Insomma, per Marcuse il sistema è l’esito di una generale crisi della ragione che comporta inevitabilmente una degenerazione della società. Tale prospettiva è simile a quella adottata da Max Horkheimer nell’analisi del totalitarismo, da lui inteso come una tappa di quel generale processo di degenerazione che è la civilizzazione occidentale; tale modo d’intendere il processo civilizzante occidentale dà al sociologo tedesco la possibilità non solo d’interpretare il regime nazista come una tappa di quello stesso processo, ma anche di individuare le possibili linee di sviluppo dello stesso, confluenti in una forma di illibertà post-nazista, da Marcuse descritta proprio come “sistema”.
Come per la Arendt, anche per Horkheimer la paura e il terrore sono funzionali a quell’atomizzazione sociale che costituisce l’humus ideale per ogni regime totalitario: «Il terrore nel quale si rifugia la classe dominante è raccomandato dagli scrittori autoritari fin dal tempo di Machiavelli»(12); ma diversamente dalla Arendt, per Horkheimer i germi di ciò si trovano essenzialmente nella kantiana Critica della ragion pratica, il cui imperativo categorico impedisce qualsiasi forma d’opposizione all’autorità dominante:
Secondo la Ragion Pratica il popolo deve obbedire come in una casa di disciplina con la differenza che insieme allo sgherro di qualunque potere deve avere come spinta all’obbedienza e come guardiano, anche la coscienza […] il conoscitore di Kant sa che la «morale interna» non può protestare contro il duro lavoro raccomandato da qualunque potere(13)
Dunque, per Horkheimer, la legge universale alla quale il comportamento personale deve tendere non è altro che la legge imposta dall’autorità dominante. Ne consegue che il potere dominate non ha neanche bisogno di opporsi ad una eventuale richiesta di libertà da parte dei cittadini, poiché questi, semplicemente, dimenticano cosa sia la libertà e quindi, come nel marcusiano sistema, non ne avvertono la mancanza.
La libertà sembra subire la stessa sorte della virtù per Valery: non viene contestata, ma dimenticata e in ogni caso imbalsamata, come la parola d’ordine della democrazia dopo l’ultima guerra. Tutti si trovano d’accordo sul fatto che la parola «libertà» non debba più essere usata se non come vuota frase, e che sia utopistico prenderla sul serio(14)
Quasi gettando le fondamenta del marcusiano “uomo a una dimensione”, Horkheimer nota come le più grandi trasformazioni sociali, introdotte dal nazismo e destinate a sopravvivergli, siano riconducibili alla perdita del potere, precedentemente proprio della ragione, di trascendimento della realtà; dal nazismo il pensiero è ridotto in una sorta di funzione economica fredda e lucida, finalizzata al profitto. Come sarà per Marcuse, anche per Horkheimer ciò provoca un generale decadimento sociale, di cui un evidente indicatore è l’imbarbarimento del linguaggio:
L’individuo […] non considera il linguaggio parlato se non come un mezzo per orientare, informare, dare ordini […] Gli uomini devono ripetere i linguaggi della radio, del cinema, dei giornali(15)
Ciò conduce ad un’esaltazione dello status quo e degli oggetti in esso presenti:
I ragazzi osservando l’auto o l’apparecchio radio imparano presto a conoscerli […] il padre […] è sostituito dal mondo delle cose(16)
Ed alla riduzione strumentale dell’amore in sesso:
La raccomandazione ufficiale delle relazioni extraconiugali nello Stato del Führer certifica che il lavoro privato di coito è lavoro della società di classe in cui lo Stato prende anche l’amore sotto il suo diretto governo(17)
Anche Horkheimer, come tutti i pensatori che hanno affrontato queste problematiche, rintraccia la possibilità di un superamento delle stesse, in quell’attività ormai quasi del tutto dimenticata: «Il pensare è già di per sé un segno di resistenza che sta ad indicare l’impegno a non lasciarsi più ingannare»(18).
Inoltre, anche Jürgen Habermas ravvisa nel Novecento un momento di crisi della razionalità, a partire da problematiche economiche che divengono poi inevitabilmente delle problematiche socio-politiche. Nelle società liberal-capitalistiche, infatti, le crisi si manifestano sottoforma di irrisolti problemi economici di controllo sociale, causando così un’immediata minaccia per l’integrazione sociale che il capitalismo liberale persegue unicamente tramite logiche di mercato. Nella fase più matura dello stesso capitalismo liberale, questa tendenza viene estremizzata completando così la sostituzione del sistema amministrativo con quello economico. Sintomatico di ciò è il passaggio del potere da determinati gruppi dominanti ad anonimi soggetti privati, ed il trionfo della “ideologia della prestazione” che investe ogni ambito della vita. L’economia quindi entra nell’amministrazione, anzi diviene amministrazione, la quale si riduce ad amministrazione della produzione e della distribuzione di merci, causando un “deficit di razionalità”, ovvero una mancata comprensione di tutto ciò che risiede al di fuori del mondo economicamente produttivo, riscontrabile, secondo Habermas, nella sostituzione del concetto di “senso” con quello di “valore”, nella separazione tra il diritto e la morale, in un generico common sense che (lungi dall’avere la stessa “funzione salvifica” che ha nella Arendt) è privo di ogni problematicità trascendente, riducendosi a mero utilitarismo, e nel condensarsi nell’arte (come per Marcuse) di tutti quei valori espulsi dalla società borghese. Questo deficit di razionalità, allora, blocca la società su tutti i livelli al punto tale che, l’unico modo per superare questa impasse è quello di mettere in crisi il sistema avanzando nei suoi confronti delle aspettative, per lui impossibili da soddisfare. In tal senso, la più grande aspettativa (che aprirebbe la più rivoluzionaria delle crisi) che si possa avanzare nei confronti del sistema è quella della richiesta di una sua legittimazione ad esistere. Una simile aspettativa potrebbe essere soddisfatta solo in termini etici, poiché è l’etica la base di ogni possibile legittimazione, e l’etica che Habermas propone è un’etica “discorsiva”:
Un’etica rimane […] il fondamento della legittimazione […] Solo l’etica comunicativa assicura l’universalità delle norme lecite e l’autonomia dei soggetti agenti (diversamente dall’etica formalistica kantiana che scinde la legge morale universale dal livello contingente della socializzazione), unicamente con la soddisfacibilità discorsiva delle pretese di validità con cui le norme si presentano, ossia per il fatto che possono pretendersi valide solo le norme su cui tutti gli interessati si accordano […] in quanto partecipi di un discorso, se entrano […] in un processo di formazione discorsiva della volontà(19)
Se nella sua idea di partecipazione, generalizzata e con uguali possibilità, degli uomini ai processi discorsivi di formazione della volontà, l’etica comunicativa ricorda le tesi arendtiane sullo spazio pubblico antico, l’irriducibile differenza fra i due pensatori sta però nel fatto che Habermas rifiuta la concezione di una spontaneità discorsiva sottratta alla riflessione. Anzi, è imputabile proprio ad una carenza di razionalità, il sorgere, oggi, di democrazie che rendono possibile il benessere senza la libertà. Esse infatti adottano un sistema di norme che, pur non mancando di spazi per la comunicazione, si fonda
sul timore e sull’assoggettamento alle sanzioni indirettamente minacciate, oltre che sulla pura sopportazione (compliance) determinata dalla consapevolezza della propria impotenza e dalla mancanza di alternative (fantasia imbrigliata) […] La fede nella legittimità si riduce a fede nella legalità(20)
Prima di proseguire, è interessante notare come anche per Theodor W. Adorno, l’origine dei mali socio-politici, dei quali il totalitarismo rappresenta solo una possibilità, sia sempre ascrivibile ad una malattia della ragione che, anziché orientarsi verso una autoconsapevolezza critica, si indirizza verso una pianificazione del dominio. La secolarizzazione, enfatizzata dall’illuminismo, ha prodotto un fraintendimento del rapporto che lega il soggetto all’alterità, poiché è stata intesa come un mero passaggio di consegne dal sacro al profano, dall’autorità di forze trascendenti (sostanzialmente Dio) all’autorità di forze immanenti. Così, la forza totalizzante del mito meta-storico, dalla quale il soggetto moderno(21) mira a sottrarsi, viene ricreata nella storia. Il pensiero infatti elimina il mito irrazionale, rigettandolo, ma si appropria del potere in esso contenuto, cioè dei suoi essenziali caratteri di forza fondativa, autarchia, cominciamento assoluto e chiusura totale in sé. Se il pensiero esce, quindi, da un orizzonte di senso assoluto, entra però nell’ambito dell’assolutizzazione del proprio orizzonte finito: la razionalità moderna smantella il potere totalizzante del mito, ma si rivela essa stessa una ragione totalitaria. Questa nuova forma di potere totalitario, radicato nella realtà esistente, produce un’apologia di quest’ultima, mascherandone le carenze razionali con schemi di semplificazione della realtà, quali ad esempio, le polarità amico-nemico, potenza-impotenza, bianco-nero, espresse negli
slogan pubblicitari che si siano rivelati efficaci per l’incremento del fatturato. Questa standardizzazione coincide con il ragionare stereotipato e con il desiderio di un infinito, immutato ritornello(22)
Insomma, la malattia del pensiero moderno, che per Adorno è riscontrabile non solo nell’illuminismo ma anche nell’idealismo hegeliano e di cui si trova un’anticipazione nel cristianesimo, consiste nella pretesa di voler conciliare finito e infinito in un’unica dimensione, producendo una «proiezione distorta di uno stato pacificato, non più antagonistico, sulle coordinate di un pensiero riflessivo, espressione del dominio»(23). La tensione verso una sedicente pacificazione sociale si impone così prepotentemente da sostituire la realtà con un’immagine della realtà, con un’ideologia, prodotta dal pensiero.
Con il crollo dei regimi politici totalitari, la problematica del controllo totale sugli individui è stata superata? Molti autori contemporanei ritengono che tale problematica persista all’interno della società odierna, avendo semplicemente mutato forma e modi d’attuazione; ciò rende necessario il ricorso ad un nuovo vocabolario concettuale. Prima di descriverlo è però interessante vedere come le prime tracce della modificazione delle strutture di controllo sociale, siano state notate da autori provenienti dall’Est Europa, ovvero da quei Paesi in cui è stata più tangibile la transizione da vecchie a nuove forme di dominio totale.
Il ricorso ad una “neolingua”, come la chiama George Orwell in 1984, è, secondo Václav Havel, il modo in cui un nuovo potere totalitario (di cui Havel intravede l’avvento nella Cecoslovacchia degli anni Settanta e Ottanta) impedisce il sorgere di un “pensiero eretico”. In alternativa alla liquidazione fisica di tutti quegli strati della popolazione che non aderiscono agli assunti dell’ideologia-verità, tale nuovo totalitarismo mira ad una strumentalizzazione del linguaggio, finalizzata all’inibizione di ogni giudizio indipendente e, quindi, all’accettazione passiva di determinati comportamenti esteriori. Da un totalitarismo violento, che si insedia al potere a “colpi di fucile”, si passa così ad un “totalitarismo mite”, che mantiene il potere a “colpi di linguaggio” standardizzato, originando così delle vere e proprie “logocrazie di massa”. La manipolazione linguistico-concettuale, con relativa alterazione della memoria storica, rappresenta quindi il nuovo strumento di controllo sociale:
La coscienza è memoria […] creature la cui memoria sia effettivamente manipolata, programmata e controllata dall’esterno, non sono più persone in senso proprio […] Questo è ciò che i regimi totalitari tentano incessantemente di ottenere. Persone la cui memoria – individuale o collettiva – venga nazionalizzata, divenga una proprietà dello Stato, completamente manipolabile e controllabile, si trovano del tutto alla mercè dei loro dominanti; sono state deprivate della propria identità; sono indifese e incapaci di mettere in discussione alcunché di ciò che è stato detto loro di credere. Non si ribelleranno mai, non penseranno mai, non creeranno mai (non a caso, oggi non si assiste ad una distruzione della memoria storica, come nel caso del nazi-fascismo, ma al sorgere di una “cattiva memoria storica”, subordinata al controllo del potere, ovvero ad una sorta di industria della storia che produce i ricordi ufficiali, in modo così convincente da riuscire a contaminare la memoria personale, colonizzandola)(1)
Il potere non è più interessato all’adesione fideistica all’ideologia(2), da parte dei cittadini, ma all’instaurarsi di un regime di conformismo che risulti, senza spargimenti di sangue, impossibile da rifiutare, criminalizzando coloro che ne tentano il rigetto. Così, ogni uomo risulta coinvolto nella struttura di questo nuovo potere “autototalitario”, la cui legittimità dipende, come in un circolo vizioso, dall’adesione ad esso da parte dei cittadini.
Nell’universo post-totalitario il male non produce più l’immenso numero di cadaveri degli uomini “di troppo”, perché nella demoralizzazione sistematica che abbassa a vittima innocente nel momento in cui eleva a colpevole, ognuno ha trovato la propria collocazione […] l’autototalitarismo sociale […] dà all’uomo l’illusione di essere una persona con un’identità ed una dignità; gli permette di ingannare la propria coscienza e di mascherare al mondo il suo inglorioso modus vivendi; di confondere il proprio ruolo di vittima con quello di parte in sintonia con l’ordine cosmico(3)
Uscire, grazie ad un pensiero autonomo, dall’indifferenza nei confronti della propria e dell’altrui esistenza è l’unico modo, per Havel, per sottrarre al potere la sua indispensabile risorsa: la complicità di tutti e di ciascuno. Ed è proprio per non avere concesso tale complicità che Jan Patočka, maestro di Havel, muore (nel Marzo del 1977), dopo un estenuante interrogatorio della polizia ceca, lasciando in eredità la concezione di un pensiero filosofico cui spetta la missione di porsi “sulla linea del fronte”, poiché la vera lotta di ogni totalitarismo è condotta essenzialmente contro la riflessione filosofica che, non diversamente dal “Thinking” arendtiano, non ha nulla a che fare con l’accumulazione del sapere, essendo piuttosto una radicale e permanente (ri)costruzione dell’esistente. Per Patočka, la filosofia deve costantemente opporsi all’“ordine del giorno”, alla supina accettazione dell’esistente, a quelle “contingenze secondarie” (poiché la “contingenza primordiale” è quella della finitudine umana) che pretendono docilità, obbedienza, subordinazione. La filosofia, insomma, deve essere una “filosofia del notturno” che, in quanto tale, si oppone a tutte le potenze affermative e positive che vogliono l’assoggettamento della possibilità alla realtà(4).
Insomma, diversi pensatori del Novecento, seppur attraverso una terminologia ed un itinerario concettuale diverso, giungono ad individuare all’interno della società contemporanea, e quindi posteriore al totalitarismo inteso come evento storico, una problematica simile a quella che la Arendt pone alla base del male totalitario: la degenerazione della capacità di pensare autonomamente, ovvero al di fuori di uno schema ideologico, problematica questa che già la stessa Arendt aveva notato essere presente non solo nel cittadino-tipo dello Stato totalitario, ma anche nelle figure antropologiche dell’homo faber e dell’animal laborans.
Possiamo ora introdurre la marcusiana concezione di “sistema”, che rappresenta una ricca e articolata descrizione della nuova forma storica dei meccanismi di dominio. Esso affonda le sue origini in una determinata modalità di produzione tecnologica, ispirata da una falsa razionalità, che conduce ad una totale subordinazione dell’esistenza ad un paradigma d’efficienza e produttività, funzionale all’instaurarsi ed al perpetuarsi di una nuova forma di dominazione:
Il metodo scientifico che ha portato al dominio sempre più efficace della natura giunse così a fornire i concetti puri non meno che gli strumenti per un dominio sempre più efficace dell’uomo da parte dell’uomo, attraverso il dominio della natura(5)
Ma a tale esito non si è giunti per il progresso della tecnica (in sé neutrale in quanto sprovvista di un telos), bensì a causa dello sviluppo di una determinata tecnologia (la forma storica della tecnica), che ha come esito determinante quello dell’inibizione del pensiero critico. Esso infatti perde i suoi tipici connotati di trascendenza ed astrattezza, indispensabili per perseguire ogni possibile “chiarimento ontologico” tra status quo e sue alternative, tra essere e dover essere, tra esistenza ed essenza, tra “è” e “dovrebbe”, divenendo un pensiero affermativo e positivo, incapace di qualsiasi critica nei confronti del reale. In altri termini, viene meno l’antagonismo tra cultura e realtà, poiché viene meno una qualsiasi forma d’opposizione alla realtà, come ad esempio, l’alienazione artistica. L’arte infatti, così come l’alta cultura, risulta “desublimizzata”, ovvero spogliata della sua facoltà d’immaginare una realtà altra, e assorbita all’interno dell’ordine di cose esistente, così, la ragione si trasforma in mero strumento d’analisi e di descrizione di fatti empirici. Anche il linguaggio viene oggettivato, perdendo la capacità d’esprimere dei significati concettuali e limitandosi unicamente ad identificare la funzione che una cosa svolge. «In questo universo di comportamento parola e concetto tendono a coincidere, o meglio il concetto tende ad essere assorbito dalla parola»(6).
Per tal via il pensiero, l’arte, l’alta cultura ed il linguaggio, insomma l’uomo, acquistano quel carattere di “unidimensionalità” consistente nell’incapacità di vedere oltre la dimensione esistente, prospettandone delle alternative.
In questo processo, la dimensione “interiore” della mente, in cui l’opposizione allo status quo può prendere radice, viene dissolta. La perdita di questa dimensione, in cui il potere del pensiero negativo – il potere critico della Ragione – si trova più a suo agio, è il correlato ideologico dello stesso processo materiale per mezzo del quale la società industriale avanzata riduce al silenzio e concilia con sé l’opposizione. La spinta del progresso porta la Ragione a sottomettersi ai fatti della vita, e alla capacità dinamica di produrre in maggior copia fatti connessi allo stesso tipo di vita. L’efficienza del sistema ottunde negli individui la capacità di riconoscere che esso non contiene fatti che non siano veicolo del potere repressivo nell’insieme(7)
Il sistema, quindi, non solo inibisce la formazione di un pensiero critico ma impedisce anche il riconoscimento della presenza di tale forma di repressione. E’ questo infatti l’esito della “desublimazione repressiva”, ovvero dell’assorbimento e dell’appiattimento in un’unica dimensione di tutte quelle forze culturali ed artistiche che, nella società pre-tecnologizzata, costituivano una dimensione opposta a quella reale. L’arte e l’alta cultura sono infatti essenzialmente alienazione, e
L’alienazione artistica è sublimazione. Essa crea immagini di condizioni irriconciliabili con il “principio di realtà” stabilito, le quali diventano tuttavia, come immagini culturali, non solo tollerabili ma persino edificanti ed utili(8)
Ma, nell’attuale momento storico, la desublimazione repressiva riduce queste “immagini culturali” alla società esistente. Anche la liberazione sessuale, che appare come una conquista della modernità, è, a causa della desublimazione, assorbita dal sistema che permette un soddisfacimento sessuale solo secondo tempi e modi da esso imposti. Così l’Eros, inteso come energia libidica che pervade l’intero organismo e si può manifestare in tempi e modalità diverse, si muta in attività sessuale localizzata in precise zone del corpo e limitata a precisi criteri di svolgimento. Per tal via, l’attività sessuale viene inscritta all’interno della sfera del tempo libero, inteso come quel tempo di riposo necessario agli individui per poter essere efficientemente re-immessi nel processo produttivo. Un ulteriore esito della desublimazione è, come già accennato, la trasformazione del linguaggio che, mirando unicamente ad una rapida ed efficace descrizione della funzione di una cosa, non lascia spazio alla critica ed alla riflessione, esso quindi descrive qualcosa ma non significa qualcosa.
I concetti che abbracciano i fatti e in tal modo li trascendono stanno perdendo la loro autentica rappresentazione linguistica. Senza queste mediazioni, il linguaggio tende ad esprimere e a promuovere l’identificazione immediata della ragione col fatto, dell’essenza con l’esistenza, della cosa con la sua funzione […] (il concetto) non ha altro contenuto che non sia quello designato dalla parola nell’uso pubblicitario, standardizzato di questa, né ci si aspetta che alla parola segua altra risposta che non sia il comportamento standardizzato, proposto dalla pubblicità […] La parola diventa clichè(9)
Questa impostazione sociale si condensa in una “coscienza falsamente felice”, la cui illusoria felicità poggia sulla mancata comprensione delle forme di dominio cui è sottoposta. L’uomo che vive in un’unica dimensione, quella del sistema, è dunque colui per il quale la ragione si è identificata con la realtà al punto tale che, al di fuori di quest’ultima, non vi sono altre possibilità d’esistenza. Dunque, la società industriale avanzata è caratterizzata da una nuova forma di repressione che prevede il consenso dei dominati, ottenuto appiattendo le aspirazioni e i bisogni umani sulle necessità del sistema e quindi facendoli coincidere con esso. Si realizza così una nuova forma di amministrazione totale descrivibile come una sorta di sistema democratico totalitario, in cui il controllo e la manipolazione degli individui avviene non tramite gli “arendtiani” strumenti della violenza fisica, della censura e del terrore, bensì attraverso una determinata impostazione tecnologica(10).
Tuttavia, per Herbert Marcuse l’uso repressivo della tecnologia non è altro che l’esito finale di una “scelta iniziale” con la quale una società organizza la vita dei suoi membri, scelta iniziale che può (e per Marcuse deve) essere ridiscussa, ridefinendo i fini e l’orizzonte dello sviluppo tecnologico, mettendo quest’ultimo al servizio di una liberazione spazio-temporale delle facoltà psico-fisiche umane. Ovviamente, tale ipotesi poggia sulla concezione di una sostanziale ambiguità della tecnica: essa può essere sia fonte di asservimento che di liberazione umana. E la liberazione è oggi possibile poiché l’automazione raggiunta dal progresso tecnologico, sotto la spinta del principio di prestazione, permetterebbe un risparmio d’energie, da sottrarre al lavoro e da dedicare allo sviluppo di quelle facoltà umane oggi represse. In altri termini, la società iper-repressiva può affrancarsi dal principio di prestazione, e dalla repressione addizionale (o surplus di repressione) ad esso correlata, conciliandosi il più possibile con il principio del piacere(11). Ci porterebbe ora troppo lontano vedere come, in opere quali Ragione e rivoluzione, La fine dell’utopia, Saggio sulla liberazione e soprattutto La dimensione estetica (ultima sua opera), il Marcuse maturo formuli la proposta del Grande Rifiuto (o negazione determinata) nei confronti dello status quo, vedendo nei giovani e negli intellettuali, ovvero in tutti i non integrati nel sistema, negli outsiders, il nuovo soggetto rivoluzionario di una auspicata rivoluzione coscienziale, volta alla liberazione degli uomini e all’edificazione di una società “estetica”, di una “società come opera d’arte”.
Insomma, per Marcuse il sistema è l’esito di una generale crisi della ragione che comporta inevitabilmente una degenerazione della società. Tale prospettiva è simile a quella adottata da Max Horkheimer nell’analisi del totalitarismo, da lui inteso come una tappa di quel generale processo di degenerazione che è la civilizzazione occidentale; tale modo d’intendere il processo civilizzante occidentale dà al sociologo tedesco la possibilità non solo d’interpretare il regime nazista come una tappa di quello stesso processo, ma anche di individuare le possibili linee di sviluppo dello stesso, confluenti in una forma di illibertà post-nazista, da Marcuse descritta proprio come “sistema”.
Come per la Arendt, anche per Horkheimer la paura e il terrore sono funzionali a quell’atomizzazione sociale che costituisce l’humus ideale per ogni regime totalitario: «Il terrore nel quale si rifugia la classe dominante è raccomandato dagli scrittori autoritari fin dal tempo di Machiavelli»(12); ma diversamente dalla Arendt, per Horkheimer i germi di ciò si trovano essenzialmente nella kantiana Critica della ragion pratica, il cui imperativo categorico impedisce qualsiasi forma d’opposizione all’autorità dominante:
Secondo la Ragion Pratica il popolo deve obbedire come in una casa di disciplina con la differenza che insieme allo sgherro di qualunque potere deve avere come spinta all’obbedienza e come guardiano, anche la coscienza […] il conoscitore di Kant sa che la «morale interna» non può protestare contro il duro lavoro raccomandato da qualunque potere(13)
Dunque, per Horkheimer, la legge universale alla quale il comportamento personale deve tendere non è altro che la legge imposta dall’autorità dominante. Ne consegue che il potere dominate non ha neanche bisogno di opporsi ad una eventuale richiesta di libertà da parte dei cittadini, poiché questi, semplicemente, dimenticano cosa sia la libertà e quindi, come nel marcusiano sistema, non ne avvertono la mancanza.
La libertà sembra subire la stessa sorte della virtù per Valery: non viene contestata, ma dimenticata e in ogni caso imbalsamata, come la parola d’ordine della democrazia dopo l’ultima guerra. Tutti si trovano d’accordo sul fatto che la parola «libertà» non debba più essere usata se non come vuota frase, e che sia utopistico prenderla sul serio(14)
Quasi gettando le fondamenta del marcusiano “uomo a una dimensione”, Horkheimer nota come le più grandi trasformazioni sociali, introdotte dal nazismo e destinate a sopravvivergli, siano riconducibili alla perdita del potere, precedentemente proprio della ragione, di trascendimento della realtà; dal nazismo il pensiero è ridotto in una sorta di funzione economica fredda e lucida, finalizzata al profitto. Come sarà per Marcuse, anche per Horkheimer ciò provoca un generale decadimento sociale, di cui un evidente indicatore è l’imbarbarimento del linguaggio:
L’individuo […] non considera il linguaggio parlato se non come un mezzo per orientare, informare, dare ordini […] Gli uomini devono ripetere i linguaggi della radio, del cinema, dei giornali(15)
Ciò conduce ad un’esaltazione dello status quo e degli oggetti in esso presenti:
I ragazzi osservando l’auto o l’apparecchio radio imparano presto a conoscerli […] il padre […] è sostituito dal mondo delle cose(16)
Ed alla riduzione strumentale dell’amore in sesso:
La raccomandazione ufficiale delle relazioni extraconiugali nello Stato del Führer certifica che il lavoro privato di coito è lavoro della società di classe in cui lo Stato prende anche l’amore sotto il suo diretto governo(17)
Anche Horkheimer, come tutti i pensatori che hanno affrontato queste problematiche, rintraccia la possibilità di un superamento delle stesse, in quell’attività ormai quasi del tutto dimenticata: «Il pensare è già di per sé un segno di resistenza che sta ad indicare l’impegno a non lasciarsi più ingannare»(18).
Inoltre, anche Jürgen Habermas ravvisa nel Novecento un momento di crisi della razionalità, a partire da problematiche economiche che divengono poi inevitabilmente delle problematiche socio-politiche. Nelle società liberal-capitalistiche, infatti, le crisi si manifestano sottoforma di irrisolti problemi economici di controllo sociale, causando così un’immediata minaccia per l’integrazione sociale che il capitalismo liberale persegue unicamente tramite logiche di mercato. Nella fase più matura dello stesso capitalismo liberale, questa tendenza viene estremizzata completando così la sostituzione del sistema amministrativo con quello economico. Sintomatico di ciò è il passaggio del potere da determinati gruppi dominanti ad anonimi soggetti privati, ed il trionfo della “ideologia della prestazione” che investe ogni ambito della vita. L’economia quindi entra nell’amministrazione, anzi diviene amministrazione, la quale si riduce ad amministrazione della produzione e della distribuzione di merci, causando un “deficit di razionalità”, ovvero una mancata comprensione di tutto ciò che risiede al di fuori del mondo economicamente produttivo, riscontrabile, secondo Habermas, nella sostituzione del concetto di “senso” con quello di “valore”, nella separazione tra il diritto e la morale, in un generico common sense che (lungi dall’avere la stessa “funzione salvifica” che ha nella Arendt) è privo di ogni problematicità trascendente, riducendosi a mero utilitarismo, e nel condensarsi nell’arte (come per Marcuse) di tutti quei valori espulsi dalla società borghese. Questo deficit di razionalità, allora, blocca la società su tutti i livelli al punto tale che, l’unico modo per superare questa impasse è quello di mettere in crisi il sistema avanzando nei suoi confronti delle aspettative, per lui impossibili da soddisfare. In tal senso, la più grande aspettativa (che aprirebbe la più rivoluzionaria delle crisi) che si possa avanzare nei confronti del sistema è quella della richiesta di una sua legittimazione ad esistere. Una simile aspettativa potrebbe essere soddisfatta solo in termini etici, poiché è l’etica la base di ogni possibile legittimazione, e l’etica che Habermas propone è un’etica “discorsiva”:
Un’etica rimane […] il fondamento della legittimazione […] Solo l’etica comunicativa assicura l’universalità delle norme lecite e l’autonomia dei soggetti agenti (diversamente dall’etica formalistica kantiana che scinde la legge morale universale dal livello contingente della socializzazione), unicamente con la soddisfacibilità discorsiva delle pretese di validità con cui le norme si presentano, ossia per il fatto che possono pretendersi valide solo le norme su cui tutti gli interessati si accordano […] in quanto partecipi di un discorso, se entrano […] in un processo di formazione discorsiva della volontà(19)
Se nella sua idea di partecipazione, generalizzata e con uguali possibilità, degli uomini ai processi discorsivi di formazione della volontà, l’etica comunicativa ricorda le tesi arendtiane sullo spazio pubblico antico, l’irriducibile differenza fra i due pensatori sta però nel fatto che Habermas rifiuta la concezione di una spontaneità discorsiva sottratta alla riflessione. Anzi, è imputabile proprio ad una carenza di razionalità, il sorgere, oggi, di democrazie che rendono possibile il benessere senza la libertà. Esse infatti adottano un sistema di norme che, pur non mancando di spazi per la comunicazione, si fonda
sul timore e sull’assoggettamento alle sanzioni indirettamente minacciate, oltre che sulla pura sopportazione (compliance) determinata dalla consapevolezza della propria impotenza e dalla mancanza di alternative (fantasia imbrigliata) […] La fede nella legittimità si riduce a fede nella legalità(20)
Prima di proseguire, è interessante notare come anche per Theodor W. Adorno, l’origine dei mali socio-politici, dei quali il totalitarismo rappresenta solo una possibilità, sia sempre ascrivibile ad una malattia della ragione che, anziché orientarsi verso una autoconsapevolezza critica, si indirizza verso una pianificazione del dominio. La secolarizzazione, enfatizzata dall’illuminismo, ha prodotto un fraintendimento del rapporto che lega il soggetto all’alterità, poiché è stata intesa come un mero passaggio di consegne dal sacro al profano, dall’autorità di forze trascendenti (sostanzialmente Dio) all’autorità di forze immanenti. Così, la forza totalizzante del mito meta-storico, dalla quale il soggetto moderno(21) mira a sottrarsi, viene ricreata nella storia. Il pensiero infatti elimina il mito irrazionale, rigettandolo, ma si appropria del potere in esso contenuto, cioè dei suoi essenziali caratteri di forza fondativa, autarchia, cominciamento assoluto e chiusura totale in sé. Se il pensiero esce, quindi, da un orizzonte di senso assoluto, entra però nell’ambito dell’assolutizzazione del proprio orizzonte finito: la razionalità moderna smantella il potere totalizzante del mito, ma si rivela essa stessa una ragione totalitaria. Questa nuova forma di potere totalitario, radicato nella realtà esistente, produce un’apologia di quest’ultima, mascherandone le carenze razionali con schemi di semplificazione della realtà, quali ad esempio, le polarità amico-nemico, potenza-impotenza, bianco-nero, espresse negli
slogan pubblicitari che si siano rivelati efficaci per l’incremento del fatturato. Questa standardizzazione coincide con il ragionare stereotipato e con il desiderio di un infinito, immutato ritornello(22)
Insomma, la malattia del pensiero moderno, che per Adorno è riscontrabile non solo nell’illuminismo ma anche nell’idealismo hegeliano e di cui si trova un’anticipazione nel cristianesimo, consiste nella pretesa di voler conciliare finito e infinito in un’unica dimensione, producendo una «proiezione distorta di uno stato pacificato, non più antagonistico, sulle coordinate di un pensiero riflessivo, espressione del dominio»(23). La tensione verso una sedicente pacificazione sociale si impone così prepotentemente da sostituire la realtà con un’immagine della realtà, con un’ideologia, prodotta dal pensiero.
1) L. Kolakowski, Il totalitarismo e la virtù della menzogna, in S. Forti (cura), La filosofia di fronte all’estremo, Einaudi, Torino 2004, p. 130, parentesi mia.
2) Ecco perché, per la comprensione di questo “totalitarismo post-totalitario”, non risultano più efficaci locuzioni quali “religioni politiche” (cfr. E. Voegelin, La politica: dai simboli alle esperienze, Giuffrè, Milano 1993) o “religioni secolari” (cfr. R. Aron, Machiavelli e le tirannie moderne, SEAM, Roma 1998).
3) V. Havel, Il potere dei senza potere, Garzanti, Milano 1991, pp. 40 e 20.
4) Cfr. J. Patočka, Saggi eretici sulla filosofia della storia, Cseo, Bologna 1981, su questo cfr. R. Esposito, Oltre la politica, Mondatori, Milano 1996, e J. Derrida, Donare la morte, Jaca Book, Milano 2002.
5) H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967, p. 172.
6) Ibidem, p. 104.
7) Ibidem, pp. 30-31; sono diversi gli scritti in cui Marcuse affronta, da varie prospettive, queste problematiche, significativi di una prima elaborazione, risalente agli anni Trenta, sono Il concetto di essenza, Sul carattere affermativo della cultura, e Filosofia e teoria critica, rispettivamente in Fenomenologia ontologica-esistenziale e dialettica materialistica, Unicopli, Milano 1980 il primo, e in Cultura e società, Einaudi, Torino 1969 i successivi, risale invece alla fase matura del suo pensiero Tolleranza repressiva, in La dimensione estetica e altri scritti, Guerini, Milano 2002.
8) H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 90.
9) Ibidem, pp. 103 e 104-105, parentesi mia; cfr. anche M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966.
10) E’ altresì interessante notare la somiglianza, nei due pensatori, del concetto di ideologia, che per entrambi descrive un’idea, dotata di una logica interna, che investe la società causando la degenerazione della “facoltà di giudizio” (per la Arendt) e del “pensiero critico” (per Marcuse).
11) Cfr. H. Marcuse, Principio del piacere e principio della realtà, in Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1967; in questa prospettiva, la criminalizzazione di tutti i comportamenti ostili al, o non integrati nel sistema, non è altro che uno dei modi con cui quest’ultimo preserva se stesso da possibili mutamenti.
12) M. Horkheimer, Gli ebrei e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, Savelli, Roma 1978, p. 45.
13) Ibidem, p. 46.
14) M. Horkheimer, Lo Stato autoritario, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, cit., pp. 87-88.
15) M. Horkheimer, Ragione e Autoconservazione, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, cit., pp. 111-112.
16) Ibidem, pp. 115 e 117.
17) Ibidem, p. 118.
18) M. Horkheimer, Lo Stato autoritario, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, cit., p. 90.
19) J Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 98-99, parentesi mia.
20) Ibidem, pp. 106 e 108.
21) La figura di Ulisse, descritta nella Dialettica dell’illuminismo, tratteggia le vicende del soggetto moderno che si emancipa dal potere totalizzante del mito, per poi riprodurlo in tutto e per tutto uguale.
22) T. W. Adorno, Contro l’antisemitismo, manifestolibri, Roma 1994, p. 86.
23) T. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, p. 23.
2) Ecco perché, per la comprensione di questo “totalitarismo post-totalitario”, non risultano più efficaci locuzioni quali “religioni politiche” (cfr. E. Voegelin, La politica: dai simboli alle esperienze, Giuffrè, Milano 1993) o “religioni secolari” (cfr. R. Aron, Machiavelli e le tirannie moderne, SEAM, Roma 1998).
3) V. Havel, Il potere dei senza potere, Garzanti, Milano 1991, pp. 40 e 20.
4) Cfr. J. Patočka, Saggi eretici sulla filosofia della storia, Cseo, Bologna 1981, su questo cfr. R. Esposito, Oltre la politica, Mondatori, Milano 1996, e J. Derrida, Donare la morte, Jaca Book, Milano 2002.
5) H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967, p. 172.
6) Ibidem, p. 104.
7) Ibidem, pp. 30-31; sono diversi gli scritti in cui Marcuse affronta, da varie prospettive, queste problematiche, significativi di una prima elaborazione, risalente agli anni Trenta, sono Il concetto di essenza, Sul carattere affermativo della cultura, e Filosofia e teoria critica, rispettivamente in Fenomenologia ontologica-esistenziale e dialettica materialistica, Unicopli, Milano 1980 il primo, e in Cultura e società, Einaudi, Torino 1969 i successivi, risale invece alla fase matura del suo pensiero Tolleranza repressiva, in La dimensione estetica e altri scritti, Guerini, Milano 2002.
8) H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 90.
9) Ibidem, pp. 103 e 104-105, parentesi mia; cfr. anche M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966.
10) E’ altresì interessante notare la somiglianza, nei due pensatori, del concetto di ideologia, che per entrambi descrive un’idea, dotata di una logica interna, che investe la società causando la degenerazione della “facoltà di giudizio” (per la Arendt) e del “pensiero critico” (per Marcuse).
11) Cfr. H. Marcuse, Principio del piacere e principio della realtà, in Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1967; in questa prospettiva, la criminalizzazione di tutti i comportamenti ostili al, o non integrati nel sistema, non è altro che uno dei modi con cui quest’ultimo preserva se stesso da possibili mutamenti.
12) M. Horkheimer, Gli ebrei e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, Savelli, Roma 1978, p. 45.
13) Ibidem, p. 46.
14) M. Horkheimer, Lo Stato autoritario, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, cit., pp. 87-88.
15) M. Horkheimer, Ragione e Autoconservazione, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, cit., pp. 111-112.
16) Ibidem, pp. 115 e 117.
17) Ibidem, p. 118.
18) M. Horkheimer, Lo Stato autoritario, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, cit., p. 90.
19) J Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 98-99, parentesi mia.
20) Ibidem, pp. 106 e 108.
21) La figura di Ulisse, descritta nella Dialettica dell’illuminismo, tratteggia le vicende del soggetto moderno che si emancipa dal potere totalizzante del mito, per poi riprodurlo in tutto e per tutto uguale.
22) T. W. Adorno, Contro l’antisemitismo, manifestolibri, Roma 1994, p. 86.
23) T. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, p. 23.
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