di Leonardo Conti (conti.leonardo@hotmail.it)
– Sai cos'è un piumino?
– Una trapunta.
– Una coperta, solo una coperta. Perché due come te e me sanno cos'è un piumino? È essenziale alla nostra sopravvivenza nel senso cacciatore-raccoglitore? No, allora cosa siamo?
– Siamo... Che so? Siamo consumatori?
Prendo in prestito un breve dialogo di un film che molti di voi avranno visto, vale a dire Fight Club (regia di David Fincher, 1999), non perché mi importi molto di cosa sia un piumino o di come sopravvivano i cacciatori-raccoglitori.
Semplicemente, perché c’è una domanda.
Una domanda fondamentale: “allora cosa siamo?”.
E l’interlocutore risponde: “siamo consumatori?”
Esatto.
Anzi noi non siamo “consumatori”, siamo “sprecatori”, passatemi il neologismo.
La natura, vale a dire l’ambiente in cui siamo immersi, ammette la consumazione e, seppur più a fatica, anche lo spreco.
Il fiume, scorrendo su una pietra, consuma la roccia e deposita il minerale a valle. Quel minerale, mescolato ad altri elementi, aiuterà una pianta a crescere, la pianta verrà mangiata da un erbivoro, ecc. Oppure trascina una foglia, la foglia viene aggredita da batteri e funghi, si decompone e otteniamo gli elementi di cui è composta e arriva il solito erbivoro.
Sto dicendo un’ovvietà, vero?
Nel V secolo a.C. un filosofo di nome Eraclito diceva “panta rhei”, tutto scorre[1]. Pare perfetto per il discorso fatto poc’anzi.
Abbiamo fossili, è vero, ma la fossilizzazione è comunque una trasformazione: le sostanze organiche, ossa, denti, conchiglie, eccetera, vengono sostituite nei millenni da roccia.
Un osso fossile, nella stragrande maggioranza dei casi, non è un osso, ma una pietra che ha la forma di un osso. E la fossilizzazione è un fenomeno tutto sommato raro, si realizza perché gli agenti decompositori non fanno in tempo a scomporre il corpo. Anche i mammut congelati in Siberia sono altro dalla forma originaria, sono carne congelata, che andrà a male rapidamente, se non si prendono opportune precauzioni.
Se andiamo più in là con gli anni, non abbiamo molti resti del passato, della nostra antichità. Particolari condizioni, vedi, per fare qualche esempio, la secchezza del deserto egiziano o il risultato delle disastrose eruzioni del Vesuvio o il ghiaccio in una valle alpina, hanno preservato delicate sostanze organiche nel tempo. Ci vuole fortuna, o nel caso di manufatti umani restaurati (un libro o un dipinto, per esempio), impegno e perizia.
È il tempo, con la sua azione inesorabile, a macinare tutto, perfino le pietre. Perfino l’uranio, una delle sostanze più radioattive di tutte, decadrà e si trasformerà in innocuo piombo. Ci vorranno decine di migliaia di anni, d’accordo, ma succederà.
Tutto, o quasi.
Perché l’uomo, fra le sue invenzioni mirabolanti che facilitano (o in alcuni casi complicano) la sua vita di tutti i giorni, ha inventato un materiale praticamente eterno: LA PLASTICA.
Allora potremmo modificare i postulati di Eraclito e di Lavoisier in questo modo:
Tutto si trasforma, nulla si distrugge… tranne la plastica.
Quando fu inventata si gridò con ogni probabilità al miracolo: una sostanza, economica, leggera, resistente, igienica, eterna. L’ideale insomma.
Ma anche una sostanza che la natura non aveva previsto e che non riesce a smaltire.
Difatti, al giorno d’oggi siamo invasi dalla plastica.
Soprattutto dalla plastica usa e getta, un vero flagello.
La troviamo dovunque e non sappiamo che farcene. Affolla le nostre spiagge, i nostri prati, i nostri boschi.
Una sorta di isola gigantesca, la Pacific Trash Vortex, è costituita da rifiuti plastici accumulati dalle correnti marine. Si trova nell’Oceano Pacifico, è grande forse più della superficie di tutti gli Stati Uniti (circa 10 milioni di km quadrati), per un peso stimato di 100 milioni di tonnellate.
Un accumulo di rifiuti immane, inimmaginabile.
E non solo: la plastica ormai entra dappertutto. Sminuzzata la troviamo nella carne degli animali che mangiamo (inutile dire che probabilmente è anche nella nostra), nei ghiacci eterni sulle montagne o ai poli. Perfino negli abissi marini. Niente può sfuggire a questa invasione incontrollata.
E non sappiamo, ripeto, cosa farcene.
Perché il legno può essere bruciato, la ceramica sminuzzata, il vetro e i metalli rifusi e rimodellati. La plastica no. Possiamo bruciarla, ma, senza accorgimenti, diventa ancora più tossica. Possiamo in parte riciclarla ma non siamo in grado di ricreare lo stesso materiale di prima.
E continuiamo ad usarla: l’imballaggio per una banale bistecca che i nostri nonni, senza morirne, avvolgevano nella carta, è di plastica. Un sacchetto di frutta che prima era di carta adesso è di plastica. Una scatola di biscotti, una volta di latta, è ora di plastica. Un tubetto di dentifricio, una volta di alluminio, è di plastica. I piatti, i bicchieri, le posate sono di plastica.
Non abbiamo molti suppellettili, indumenti o imballaggi dei nostri nonni, tranne quello che, per caso o per volontà precisa, si è conservato.
I nostri nipoti, invece, avranno con ogni probabilità un sacco di oggetti che ci sono appartenuti.
È dovunque, ci avvolge, soffoca l’ambiente, è eterna. È un incubo per la natura.
Chi scrive, passeggiando per la campagna o i boschi, si riempie spesso le tasche di rifiuti plastici trovati qua e là, per gettarli correttamente nel cestino.
I nostri pro-pro-pro-pronipoti (se mai ce ne saranno) troveranno oggetti di plastica intatti e quasi perfettamente utilizzabili (magari dopo una ripulita).