venerdì 1 settembre 2023

Un parere?

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Recentemente mi è stato chiesto un parere di lettura su un testo di critica filosofica, ho accettato per il rapporto amichevole con l'autore, ma la cosa mi è pesata poiché non mi sento (più) adatto (ammesso che in passato lo fossi) a fornire pareri del genere, ovvero su testi in cui la critica filosofica è preponderante rispetto alla parte filosofica vera e propria, testi in cui la formulazione di una proposta filosofica è necessariamente basata su una precedente opera di critica. Sono ben consapevole che questa sia la tendenza accademica (e non) odierna (diventata dominante nell'ultimo secolo), dalla quale a volte si tenta di prendere le distanze dicendo cose eccentriche, di maniera, compiendo l'errore speculare uguale e contrario, e sono quindi ben consapevole di trovarmi in una posizione di minoranza.

Ad ogni modo, riporto qui di seguito l'estratto di alcune annotazioni contenute in quel mio parere, perché credo che indichino dei temi sui quali sia interessante riflettere.

I. Definirei bene i concetti ai quali ci si riferisce prima di iniziare a lavorarci ma attenzione, non tanto dicendo cosa quei termini abbiano rappresentato per Tizio e Caio, bensì cosa rappresentino per chi scrive, adesso, nell'economia del suo discorso.

II. Direi che il fatto che non si possa uscire dal logos non significhi che il logos esaurisca il tutto, che quindi ogni incontro con le questioni essenziali non possa che svolgersi nel logos e che al di fuori di esso non ci sia niente  ex nihilo nihil. Direi invece (per una via che adesso non posso ripercorrere e che frequento spesso a "Krinò") che il logos stesso è un prodotto, in senso poietico, altrimenti non potrebbe apparirci, ma tutto ciò che riguarda il suo prodursi, ovvero tutto ciò che è physis, ci è accessibile solo in un incontro che, nell'istante stesso in cui avviene, toglie l'essenza autonoma della cosa che incontriamo e la fa apparire come, appunto, l'esito di un incontro; da questo processo non si può uscire, è così che avviene il conoscere.

III. È impossibile scrivere allo stesso tempo per il lettore (la comunità scientifica, il pubblico, se stessi) e scrivere sotto ispirazione, estasi Non potete servire insieme a Dio e a mammona. Nel primo caso, infatti, si produce un'esibizione per qualcuno; nel secondo, invece, si esperisce un miracolo.

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1 commento:

  1. La corrispondenza da cui è tratto l'estratto di cui sopra è poi proseguita su un'altra via quando mi è stato chiesto se Heidegger potesse ritenere possibile una filosofia dell'Essere anche qualora scomparissero tutti gli uomini dalla Terra.
    Di seguito, un estratto della mia risposta.

    Ritengo che per Heidegger il pensare sia l'incontro con l'essere, cosa che la metafisica ha dimenticato credendo che pensare significhi pensare l'Essere in quanto tale, cioè come mera presenza, cosa che rimanda al trionfo della soggettività che pensa tale presenza.
    Quindi, per rispondere alla domanda, sì, senza l'uomo l'Essere continuerebbe a "stare" ma non sarebbe il Seyn perché l'Essere per come può conoscerlo l'uomo, appunto il Seyn, è l'esito dell'incontro tra il Dasein e il Seyn, e non mero stare del Sein, come invece la metafisica ritiene.
    La domanda che poni è proprio una domanda metafisica in senso heideggeriano, perché postula l'esistenza o meno di Tizio sulla base dell'esistenza o meno di Caio. Ma il venir meno di Tizio non implica semplicemente il venir meno di Tizio, ma il venir meno del Tizio di Caio.
    Per questo Heidegger ha rifiutato i termini di soggetto conoscente e oggetto conosciuto (questa è la tecnica), in favore del concetto di incontro, questa è la "sintesi disgiuntiva", in cui nell'incontro ogni elemento non è quello che era al di fuori di quell'incontro.

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