mercoledì 23 dicembre 2015

Gli uomini del fare

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Politici (di tutti gli schieramenti) e opinione (sempre più) comune, concordano: con la cultura non si mangia, leggere non serve a niente, meglio laurearsi presto anche se male anziché tardi anche se bene (o forse non laurearsi affatto, tanto oggi per trovare un posto, che so, da ministro, basta saper usare i social), ecc., e ogni qualvolta che qualcuno se ne esce con qualche esternazione del genere, ne consegue un profluvio di articoli e commenti indignati, un coro in difesa della cultura, e la cosa si riduce così ad uno scontro binario fra guelfi e ghibellini.
Come piccola e ovvia premessa, va da sé che quando gli uomini del fare criticano il sapere, si riferiscono alla cultura, quindi al sapere umanistico, e certamente non al sapere tecnico, pratico, operativo, quello delle scienze applicate (le scienze “pure” sono tollerate solo perché servono per arrivare a quelle applicate), quello del know-how, che è già una forma di fare. È (dovrebbe essere) infatti ormai chiaro anche ai sassi che è in corso una risignificazione di termini, e delle relative pratiche, quali sapere, conoscenza, istruzione, educazione, facendoli coincidere con l’acquisizione di competenze dettate dalle esigenze del mercato (a loro volta, dettate dalle esigenze della tecnica, ma qui il discorso diventa lungo). Scuole e università si trasformano così in nuovi centri di avviamento al lavoro, che differiscono da quelli del passato solo per l’iperspecializzazione dei nuovi operai che producono – sarebbero queste la “Buona Scuola” e la “Buona Università”? E la cultura – en passant, una cultura alla quale ormai non prepara più nessuno, se scuole e università sono impegnate solo nella produzione di futura manodopera – è tollerata al massimo come ornamento del fare, come divertissement nelle pause del fare. Ora, so che è utopistico e obsoleto pensare oggi che dovrebbe essere il lavoro ad essere subordinato ai princìpi della cultura, ma sarebbe già un risultato (oggi impossibile, lo so) se almeno la si smettesse di ritenere che dovrebbe essere la seconda a sottomettersi al primo.      

sabato 12 dicembre 2015

Siamo tutti universalisti, con noi stessi

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Uno dei fenomeni sociali più importanti, se non il più importante, con cui ci confrontiamo oggi e che le prossime generazioni studieranno sui libri di storia, è quello delle migrazioni di massa. È un tema estremamente complesso da affrontare e sul quale esiste una nutrita bibliografia internazionale; a tal proposito si potrebbe iniziare ad approcciarlo tramite il libro di J. Carens, Ethics of Immigration, 2013, già un classico in materia, o quello di E. Greblo, Etica dell’immigrazione, 2015, densa introduzione al dibattito internazionale.
Non è mia intenzione in questa sede riassumere i termini del tema e del dibattito intorno ad esso, per farlo anche solo maniera sintetica occorrerebbe molto spazio. Vorrei invece proporre qui delle considerazioni che si possono intendere come preliminari, un modo per rimuovere dal tema stesso possibili fraintendimenti che lo falserebbero in partenza, e che si sentono con una certa frequenza nei discorsi politici. La convinzione di chi scrive è che solo nelle interazioni, negli “inquinamenti” interculturali vi sia un potenziale arricchimento e progresso umano (insomma, così come la saggezza popolare sa, ci sarà pure un motivo se i cani meticci sono sempre più svegli di quelli di “razza pura”). Certamente queste interazioni culturali necessitano di una supervisione, che non sia però finalizzata a limitarle ma a permetterle in maniera ragionevole. Passiamo allora in rassegna, in maniera sintetica e schematizzandoli in 4 tipologie, i più popolari motivi immotivati della paura del meticciato e dell’apertura alla diversità, in base ai quali si predicano e attuano politiche di chiusura, più o meno netta, dei confini statali.

domenica 22 novembre 2015

Questioning the Human/Animal Threshold

Critical Theory Lectures Series on Animality,
Lecture by Federico Sollazzo:
Questioning the Human/Animal Threshold:
For a Critical Anthropocentrism


Abstract:
To criticize anthropocentrism is an essential task to every man who wishes to problematize his own condition of human being. In so doing, we should always be aware that are still humans to criticize their human condition.
This is the reason why if we take the critique of anthropocentrism as a way for deleting our specificities of men, we fall into a kind of “imaginary anthropocentrism”.

Keywords:
Anthropocentrism, threshold, emancipation, man, animal, animalcentrism, carno-phallogocentrism, vegeto-vaginointuitionism.

mercoledì 21 ottobre 2015

Pasolini verso Est, quaranta anni dopo l'assassinio

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Si riporta di seguito l'abstract della relazione, Un'interpretazione dell'interpretazione di Pasolini in Ungheria, tenuta da Federico Sollazzo al Convegno internazionale, Pasolini. Le ragioni di una fortuna critica, organizzato dal Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia, nel 2015 (quarantesimo dell'omicidio dell'Autore).

Vorrei qui offrire una lettura della ricezione ungherese di Pasolini, senza però soffermarmi, come già fatto in altra sede, sui dettagli della letteratura secondaria e delle attività culturali a lui dedicate, bensì individuando dei tratti ricorrenti in tale ricezione.

giovedì 8 ottobre 2015

Ethics of Immigration (A bevándorlás etikája)


Is it acceptable that the worth of a life depends from the arbitrary datum of the place of birth?

"Passport is a police 'disorder' so much the more odious that it employs all the arts of tyranny and deprives man of the first, the most well-founded of his rights, that of breathing the air which pleases him without asking the permission of one who can refuse it", J. Peuchet, 1791.

Within the XX. Őszi Kulturális Fesztivál, Lecture by Federico Sollazzo:
University of Szeged, Faculty of Arts, classroom 3 of the Ady tér building
Tuesday, 20th Oct., 2015, 6 p.m.

Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 4.0 Internazionale. Follow me on Academia.edu

Reading Pasolini and Marcuse, Today (Pasolini és Marcuse – mai szemmel újraolvasva)


Pier Paolo Pasolini and Herbert Marcuse are often compared each other for their (critical) bound with the student movement of '68. However, their similarities go very over: their alleged pessimism is in reality a form of realism that indicates a love, and a worry, for the nowadays conditions of social and individual life.   

Within the XX. Őszi Kulturális Fesztivál, Lecture by Federico Sollazzo:
University of Szeged, Faculty of Arts, classroom 3 of the Ady tér building
Tuesday, 13th Oct., 2015, 6 p.m.

Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 4.0 Internazionale. Follow me on Academia.edu

domenica 27 settembre 2015

Il programma di un umanesimo. Verso la liberazione dell’uomo. Herbert Marcuse. Eros e civiltà

di Pietro Paolo Piredda (pietropaolo.piredda@istruzione.it; II di 2)

II parte: Origine e sviluppo della civiltà repressa

Per capire questa dialettica di costruzione e distruzione della civiltà è bene vedere la connessione tra la psicologia individuale e la teoria della civiltà in Freud (Il disagio della civiltà).

La ricerca delle origini della repressione ci riporta all’origine della repressione degli istinti, che ha luogo durante la prima infanzia. (…) È nel bambino che il principio della realtà compie la sua opera (p. 96).

Marcuse in questa seconda parte usa le suggestive immagini e analisi di Freud sulla nascita della civiltà : il “padre primordiale” che domina l’orda primitivorum” e quella del “clan fraterno”. E’ chiaro che l’analisi di Freud non sia scientificamente dimostrabile, ma Marcuse ne assume il valore simbolico:

Se l’ipotesi di Freud non è confermata da alcuna prova antropologica, essa dovrebbe essere scartata in pieno salvo il fatto che condensa (…), la dialettica storica del dominio, e in questo modo getta luce su aspetti della civiltà ancora inspiegati. Noi usiamo la speculazione antropologica di Freud solo in questo senso: per il suo valore simbolico (p. 100).

Nella teoria di Freud tutti gli atteggiamenti infantili non sono altro che il ripresentarsi di espressioni della specie. La matura civiltà di oggi è regolata dalla immaturità psichica arcaica e il materiale represso ritorna sempre; l’individuo è continuamente punito per azioni mai commesse.
Ora precisiamo meglio la profonda connessione tra psicologia individuale e sociale.
Il primo gruppo umano fu governato da un solo individuo che si impose a tutti; dal suo dominio nacque l’organizzazione sociale: è il ‘padre primordiale’. Segno del suo potere è il monopolio della donna, considerato piacere supremo; l’orda primitivorum è sottomessa a questo potere. Questo monopolio rappresenta la distribuzione ineguale del piacere e della sofferenza ma chi non sottostà a questo dominio è ucciso, castrato o esiliato.
Reprimere il piacere è essenziale per tenere in vita questa società, dominarla. Il lavoro per portar avanti l’orda era affidato ai figli che:

in seguito alla loro esclusione dal piacere, riservato al padre, erano diventati liberi di incanalare le energie istintuali in attività penose, ma necessarie (p. 101).

lunedì 14 settembre 2015

Il programma di un umanesimo. Verso la liberazione dell’uomo. Herbert Marcuse. Eros e civiltà

di Pietro Paolo Piredda (pietropaolo.piredda@istruzione.it; I di 2)

Il vero modo della libertà non è l’attività incessante della conquista, ma il suo quietarsi nella conoscenza trasparente e nella soddisfazione dell’essere (H. Marcuse, Eros e civiltà)

Introduzione

La specificità della teoretica filosofica permette allo studioso una lettura della realtà secondo diverse prospettive e punti di osservazione, a volte privilegiati e altre volte indirizzati ad interrogare la realtà nella sua fenomenologia per darne ragione o, con accento critico, scavare e rendere manifeste le sue contraddizioni.
Una di queste prospettive è quella dell’antropologia filosofica, il cui compito è quello di sempre: dare una definizione di uomo esaustiva al punto di poterne prospettarne un orizzonte interpretativo che ne colga l’essenza e ne programmi l’attuazione, ma spesso ci si imbatte in risposte paradossali.
Ciò dipende dalla naturale difficoltà a parlarne in maniera appropriata. Alcuni identificano quest’essenza nel piacere, altri nel bisogno e nel lavoro, altri ancora nella sua capacità di comunicazione, nel rapporto Io-Alterità o ancora nella capacità di fare, altri nella sua apertura alla trascendenza, e ancora, apertura ad un Assoluto. Non si può negare però che, comunque la si pensi, quest’essenza appartiene a un essere che si manifesta come storico (impregnato di spazio e di tempo e di relatività, quindi di storia) e sociale (immerso in relazioni più o meno significative, dal molteplice aspetto).
L’antropologia pone come termine ultimo delle sue domande come può l’uomo realizzare la propria definizione ed  il proprio ben-essere. Insomma pone costantemente ed ineludibilmente davanti a sé un progetto-uomo, a partire dalla ricerca della natura che lo definisce e costituisce.
Questo parlare della natura che le è propria lo si può fare in varie modalità e a diversi livelli semantici e interpretativi e spesso in modo contraddittorio .
Herbert Marcuse propone una lettura originale dell’essenza delluomo nel suo noto saggio Eros e civiltà, tenendo presenti queste due istanze: storicità determinata e socialità, ma avvalendosi di una lettura simbolica a partire dalle prospettazioni psico-socio-cognitive freudiane e dall’apporto del pensiero, prettamente storicistico, di Marx.

venerdì 7 agosto 2015

Albert Camus e l'Europa

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

La mediocrità dell’Europa di oggi, spiegata da Albert Camus nel 1955.
Lo scrittore analizza un continente «borghese e individualista che pensa al proprio frigorifero». Le frontiere? «Esistono solo per i doganieri».
Albert Camus, traduzione di Andrea Coccia.

(Getty Images)

L'Europa sta vivendo uno dei momenti più complicati della sua storia: muri che si alzano in Ungheria, frontiere che si chiudono tra la Francia e l'Italia, paesi come la Grecia che rischiano di uscire da una comunità che hanno contribuito a creare e di cui sono, storicamente e culturalmente, una parte importante. E ancora, il nascere di movimenti nazionalisti forti e sempre più radicati in seno a quasi tutti i paesi europei, un livello di fiducia tra le popolazioni europee che sembra non essere è mai stato così basso negli ultimi sessant'anni. Tutte forze centrifughe che stanno mettendo in pericolo la costruzione unitaria, politica e culturale, che abbiamo ereditato dal Novecento.
Eppure tutti questi problemi che stiamo affrontando ora non sono una novità. Timori simili esistevano già sessant'anni fa, a pochi anni dalla fine della seconda guerra mondiale, nel 1955. A pochi mesi da quei trattati di Roma del 1957 che hanno posto le basi dell'Europa di oggi. A testimoniare questi timori sono le parole di uno dei più grandi intellettuali del Novecento europeo, lo scrittore francese Albert Camus, che ne discusse ampiamente durante una conferenza ad Atene — bizzarra coincidenza — il 28 aprile del 1955.
Sono passati sessant'anni da quel giorno, ma le parole di Albert Camus [...] non hanno perso potenza né lucidità. Per l'occasione siamo andati a rileggere le sue parole, traducendo i passi più potenti.

Se consideriamo che la civiltà occidentale si basa sull'umanizzazione della natura, ovvero sulla tecnica e sulla scienza, non soltanto dobbiamo convenire sul fatto che l'Europa abbia trionfato, ma anche sul fatto che le forze che oggi la minacciano sono forze che hanno acquisito la tecnica, o l'ambizione alla tecnica, proprio dall'Europa, insieme al suo metodo scientifico e di ragionamento. Da questo punto di vista, quindi, la civiltà europea non è affatto minacciata, se non dall'eventualità di un suicidio, dunque è minacciata da se stessa, in qualche modo.
Se, invece, consideriamo che la nostra civiltà si costruisce intorno alla nozione di essere umano, questo punto di vista ci porta a una risposta completamente opposta. Perché probabilmente, e sottolineo probabilmente, è difficile trovare un'epoca in cui la quantità di persone emarginate sia elevata come oggi. Non direi tuttavia che questa nostra epoca sia particolarmente sdegnosa nei confronti dell'essere umano. Non c'è dubbio infatti che l'azione della coscienza collettiva e, in particolare, della coscienza dei diritti dell'uomo si sia estesa sempre di più negli ultimi secoli. È solo, però, che due guerre mondiali l'hanno un po' calpestata, e che quindi ora io credo che dobbiamo rispondere che sì, che da questo punto di vista la nostra civiltà è minacciata, e lo è nella misura in cui l'essere umano, che eravamo riusciti a mettere al centro della nostra riflessione, ora è umiliato un po' dovunque .

sabato 11 luglio 2015

Federico Sollazzo: “con filosofia” dall’università Roma Tre all’università di Szeged

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Video-intervista a cura di Maria Giovanna Farina


(come L'intervista ai filosofi. Intervista a Federico Sollazzo, in «maria giovanna farina», 30/09/2014)

Ho conseguito la Laurea in Filosofia con lode nel 2003 presso l'Università Roma Tre (Tesi: La concezione marxiana del lavoro alienato e il libero gioco delle facoltà umane in Marcuse). Presso la medesima Università ho conseguito nel 2007 il PhD in Filosofia e Teoria delle Scienze Umane (Tesi: Tra totalitarismo e democrazia: la funzione pubblica dell’etica). Durante lo svolgimento del dottorato ho ricevuto la nomina di Cultore della Materia ed ho così iniziato a tenere lezioni di supplenza ed a svolgere esami di profitto. Al termine del PhD ho proseguito l'attività di Cultore ed ho ricevuto due Borse consecutive per svolgere attività di tutoraggio per le matricole. Nel frattempo mi è diventata evidente la situazione di stagnazione non solo presso l'Università Roma Tre, ma in Italia in generale. Questo, da una parte, a causa dei continui tagli di investimenti che l'Italia opera verso l'Università – nei confronti delle Facoltà umanistiche in particolare, paradossalmente operati proprio da uno dei Paesi umanisticamente più importanti nel mondo, in omaggio allo slogan tanto sbagliato quanto rozzo che "con la cultura non si mangia" –, e dall'altra, perché i rimanenti fondi vengono gestiti da gruppi di interesse (non lo scopro certo io), sicché la prima preoccupazione per una carriera accademica non è un qualche aspetto di natura scientifica ma diventa come penetrare in tali gruppi, attività che non mi ha mai affascinato. Pertanto, dopo aver continuato a lavorare come Cultore anche per circa due anni dopo il termine delle Borse di cui sopra, ho iniziato ad inviare curricula all'estero.

venerdì 12 giugno 2015

L’eredità machiavelliana

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Introduzione

Quando si approccia un classico, abitualmente ci si dedica a rintracciarvi i motivi di attualità e/o di obsolescenza. Spesso questa prospettiva ne orienta le celebrazioni. A questo proposito il 2013 è stato un anno ricco, fra le principali ricorrenze: il 50esimo de La banalità del male di Hannah Arendt, il 100esimo della nascita di Albert Camus e, l’oggetto di queste pagine che si propongono però di trascendere il semplice momento celebrativo, il 500esimo della stesura de Il Principe di Niccolò Machiavelli(1)
A proposito di quest’ultimo, e a conferma di quanto si diceva all’inizio, Eric Weil(2) notò che nella presenza di Machiavelli nella nostra cultura si possono distinguere due momenti, che a volte si sovrappongono e a volte si susseguono l’un l’altro. Un momento in cui lo si studia con estremo rigore storico-filologico, ed un momento in cui si cerca in lui una possibile soluzione ai problemi del presente, ovvero, un momento che lo colloca nella distanza ed uno che lo pone nella presenza. In breve, attualità e/o obsolescenza.   
Ora, quello che vorrei proporre in questo breve scritto è di abbandonare queste due prospettive, ricalibrandole in una terza che le contenga entrambe e però le trascenda (una sorta di hegeliana sintesi), quella della “eredità”. L’eredità infatti dà conto della permanenza di un classico nella storia senza forzarlo, decontestualizzandolo ed appiattendolo sul presente. Diviene così evidente che la presunta eternità di un classico non risiede nella eterna validità alla lettera del suo contenuto, ma nel persistere, con forme e tempi sempre contingentati dalla storia, di una sua qualche forma di influenza. 
Per questo, mezzo millennio dopo la stesura de Il Principe, anziché parlare di attualità e/o obsolescenza dell’opera, cercherò di rintracciare il filo rosso dell’eredità che ci unisce ad essa, della quale solo nostra è la responsabilità di ciò che ne faremo. 
A proposito di tutto questo, mi sembrano illuminanti le parole di Mario Reale quando scrive:

non c’è attualità che non si costituisca entro la consapevolezza della distanza, niente dei classici è trasferibile immediatamente nella realtà di oggi. Il filo di connessione è piuttosto costituito da quella che direi “lezione”, ossia la  possibilità di ricavare liberamente dai classici temi e motivi che, in parte, vanno oltre il tempo e possono, più spesso in forma indiretta, farci da guida(3)

martedì 19 maggio 2015

Brief Remarks on the Pasolini’s Conception of “Anthropological Mutation”

by Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

As it is known, Pasolini elaborated the conception of “anthropological mutation” in the last years of his life – before his assassination the 2nd of November 1975 – especially through publicistic articles on the major newspapers of the period, that are now contained, in Italy, in the books Lettere luterane and Scritti corsari, and of which the unfinished Petrolio represents the transposition in mythic form. Really, the first thing that we have to point out is that this concept is not isolated in his last writings, but it is related to other main concepts, expressed with particular formulas, such as, “classical anthropology”, “cultural genocide”, “new prehistory”, “after-history”; all terms that are referred, in fact, to the socio-anthro-cultural phenomenon of the “anthropological mutation”.
Now, I don’t wish to expose this conception – to understand which is necessary to insert it into the whole thought, works, and cultural background of the author –, but to have a preliminary operation that is propaedeutic to the comprehension of the same: clarifying some possible misunderstandings about.

giovedì 30 aprile 2015

F. Sollazzo, "Tra totalitarismo e democrazia. La funzione pubblica dell'etica", 2015 (video-presentazione)

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Video-presentazione dell'Autore dell'ebook: Federico Sollazzo, Tra totalitarismo e democrazia. La funzione pubblica dell'etica, Kkien Publishing International, 2015

(Intervento iniziale e finale: Maria Giovanna Farina, Direttrice della Collana Pratica filosofica in cui l'ebook è pubblicato)   

lunedì 13 aprile 2015

Considerazioni sull'intervista alla prof.ssa Irene Kajon

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

In riferimento all’intervista alla prof.ssa Kajon apparsa sul n. 16 de «L’accento di Socrate», vorrei proporre le seguenti osservazioni.

Dal mondo antico sino ad oggi (più di 2300 anni) il pensiero occidentale è attraversato dal tema del dualismo, tematizzato di volta in volta con diverse sfumature: soma-psyché, corpo-anima (o spirito), res extensa-res cogitans, biologia-Io (o coscienza, o intelletto), ecc… Dal Novecento poi (forse anche da prima) si è iniziata a tentare una riconciliazione di tale dualismo in un’immagine unitaria dell’uomo, sostanzialmente approdata a quello che Michel Foucault ha chiamato “allotropo empirico-trascendentale”. In questi termini però il problema del dualismo appare tutt’altro che superato: si è semplicemente passati da quello che potremmo chiamare “dualismo forte”, che identifica due sfere dell’umano nettamente distinte e gerarchizzate fra di loro, ad una sorta di “dualismo debole”, che ipotizza possibili (ri)conciliazioni fra dimensioni dell’umano che, per quanto interagenti e fuse tra di loro, restano pur sempre di natura diversa; il dualismo appare così completamente superato solamente nella prospettiva del moderno riduzionismo scientifico, per il quale l’uomo è del tutto spiegabile e da spiegarsi unicamente in termini materialistico-meccanicistici. Ora, a mio modesto parere, per superare la problematica del dualismo, senza per questo cadere nel campo del riduzionismo scientifico, sarebbe opportuno tornare a riflettere sulla concezione antica, pre-platonica, per capirci, omerica, di uomo come “soma con soffio vitale” (bios che partecipa della zoé, corpo che partecipa della vita), laddove per soffio vitale non sia affatto da intendersi il contenuto di un soma ridotto a mero contenitore, ma un attributo del soma (come, ad esempio, i capelli) che proprio attributi unici ed irripetibili rendono riconoscibile conferendogli un’identità unica ed irripetibile, e tra gli attributi del soma, uno fra i più importanti è l’emozionalità, ovvero il patire con- (gli altri e il mondo). Viene così ad essere superata qualsiasi forma di dualismo (sia forte che debole), poiché il soma non è contenitore di qualcosa di altro, espressione di qualcosa di meta-somatico, ma manifestazione diretta e immediata di vita, senza per questo cadere nel riduzionismo scientifico, poiché al soma appartiene anche l’irriducibile attributo della emozionalità; a mio avviso, una simile “riscoperta” del soma, in direzione del mondo antico, potrebbe essere condotta a partire dall’antropologia empirica, o forse sarebbe meglio dire empirico-fenomenologica, di Arnold Gehlen.

venerdì 3 aprile 2015

Machiavelli: "Il Principe" e l'idea di potere

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Il presente video è basato sulla relazione: Il Principe di Machiavelli, mezzo millennio dopo: contestualizzazione e eredità, tenuta da Federico Sollazzo nell'ambito del Convegno internazionale "Discorso e cultura nella lingua e nella letteratura italiana" svoltosi presso l'Università di Craiova nel settembre 2013.


venerdì 20 marzo 2015

Federico Sollazzo, "Tra totalitarismo e democrazia" (estratto)

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Si pubblica di seguito un estratto del volume ebook: F. Sollazzo, Tra totalitarismo e democrazia. La funzione pubblica dell'etica, Nuova edizione (coll. Pratica filosofica), Kkien Publishing International, Gorgonzola (MI) 2015.
Volume ebook completo scaricabile QUI 

Nuova introduzione
Perché pubblicare questo lavoro, la Tesi di Dottorato in Filosofia presentata presso l’Università Roma Tre, a distanza di qualche anno dalla sua discussione? Le ragioni sono sostanzialmente due.
La prima, più propriamente scientifica, è perché in quest’opera vengono affronati i più recenti temi e autori (in particolare di provenienza continentale) della filosofia morale e della filosofia politica, contribuendo così a delinearne un chiaro ed approfondito profilo e favorendone un ulteriore approfondimento grazie alla bibliografia ragionata presente al termine del volume, che per questa pubblicazione è stata ampliata potendo così rappresentare un punto di riferimento per lo studente e di confronto per lo studioso.
La seconda, è che il tema di fondo della parte propositiva di questo lavoro consiste nell’identitificazione di quella che in queste pagine cerco di definire come una nuova forma di totalitarismo post-totalitario. Ovvero, un sistema coordinato e unificato da una forma di razionalità impersonale, che ritengo essere la razionalità strumentale, tipica della forma più avanzata della società occidentale, ergo una problematica che attraversa da cima a fondo le democrazie occidentali liberali. Si può discutere su come definire tale fenomeno, ovvero se il termine di nuovo totalitarismo o totalitarismo post-totalitario sia adeguato o meno, ma non credo si possa mettere in questione la presenza del fenomeno in sé che quindi, per la rilevanza che ha, necessita di essere interpretato e decifrato come una vera e propria, nuova, categoria filosofica.

venerdì 13 marzo 2015

Sprazzi di bellezza nel rumore. Note su “La Grande Bellezza”

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino è uno dei migliori film del recente panorama cinematografico italiano, insieme a La mafia uccide solo d’estate di Pierfrancesco Diliberto (detto Pif) e Il capitale umano di Paolo Virzì; ma si badi bene, sono tutti film che, ciascuno con le proprie specificità, non possono essere relegati tra i migliori della “stagione”, dato che, sia per la loro qualità artistica che per i temi affrontati, si estendono molto al di là di una semplice stagione.
In questo articolo vorrei esprimere alcune brevi osservazioni sul film, e a partire dal film, di Sorrentino. Un film che mi affascinò fin dalla prima volta che lo vidi, al punto tale di non sapere se augurargli o meno successo, combattuto infatti da una parte dal desiderio di vederlo riconosciuto e dall’altra dalla consapevolezza che la fortuna presso il grande pubblico corrompe sempre il contenuto artistico; cosa infatti puntualmente avvenuta (come si è potuto constatare palesemente da due conseguenze del suo recente successo massmediatico dovuto all’Oscar: il film è stato passato in televisione con una tale quantità di pubblicità che se non faceva passare la voglia di guardarlo, rendeva però quasi impossibile calarsi nella sua semiologia, ne distruggeva le atmosfere, e a seguito di questo mortificante passaggio televisivo gli italiani si scoprivano un popolo di critici cinematografici e di dietrologi). Il film è talmente ricco che per analizzarlo nella sua pienezza e nei molteplici livelli di lettura che offre servirebbe ben più di un articolo giornalistico, in questa sede vorrei quindi limitarmi ad alcune brevi considerazioni su quelli che mi sembrano essere punti essenziali. Ma prima di tutto, vorrei sgombrare il campo da quello che mi sembra un gigantesco equivoco.

venerdì 20 febbraio 2015

Albert Camus, oggi

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Per l'asistematicità del suo pensiero e l'assenza di una produzione convenzionalmente saggistica, Albert Camus viene abitualmente considerato un letterato generico anziché un vero e proprio pensatore. Eppure dalla sua opera emerge una vera e propria filosofia della condizione umana (con punti di contatto con, fra gli altri, Arendt, Pasolini e Marcuse) che, per la sua evidentissima attualità, può fornire un contributo determinante al nostro presente.
Il presente intervento è basato sulla relazione "The Critical Reception of Camus in Italy: The 'mare nostrum' as Sight for the 'tempus nostrum'" tenuta da Federico Sollazzo al Convegno internazionale "European Reception of Albert Camus" presso l'Università ELTE di Budapest, nel 2013.


martedì 27 gennaio 2015

Hannah Arendt e la banalità del male

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Nel 1963 Hannah Arendt pubblica una delle sue opere di maggiore risonanza: La banalità del male. In essa il male radicale viene ricondotto non al "demoniaco", al "diabolico", ma all'assenza di un vero e proprio fondamento, quindi alla banalità. Un'assenza di riflessione critica riscontrabile nella versione oggi dominante dell'animal laborans: il manager. Un'analogia che segna l'inquietante attualità di questo libro.


giovedì 15 gennaio 2015

Sulla questione della tecnica in M. Heidegger

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

(Si pubblica di seguito l'Appendice del libro: Federico Sollazzo, Totalitarismo, democrazia, etica pubblica. Scritti di Filosofia morale, Filosofia politica, Etica, presentazione di M. T. Pansera, Aracne, Roma 2011)

L’essenza più profonda della tecnica non è nulla di tecnico
M. Heidegger, La questione della tecnica

Consapevoli o meno, un certo tipo di modernità continua ad avanzare, rimodellandosi costantemente così da potersi insinuare in ogni spazio, fisico ed esistenziale.
Sia che la si voglia accettare, sia che la si voglia rifiutare, sia che si voglia operare una scelta selettiva, è preliminarmente necessario comprenderne la natura, ormai legata a filo doppio con la tecnica (o meglio, con un certo tipo di tecnologia) al punto tale che ormai il soggetto della storia non risulta più essere l’uomo, ma la tecnica, rispetto alla quale l’uomo appare come suo mero accessorio.
Fra gli incontri del presente ciclo seminariale (La filosofia e la società tecnologica avanzata), questo è probabilmente il più complesso da affrontare ma proprio per questo ha maggiori implicazioni e conseguenze filosofiche, lascia maggiori frutti dal punto di vista filosofico.
Vi sono nella modernità tre autori in particolare, Arnold Gehlen, Martin Heidegger ed Herbert Marcuse, che mettono al centro della loro riflessione il tema della tecnica, affrontandolo da tre prospettive diverse ma intersecantesi: antropologica Gehlen (inerente all’imprescindibilità dell’uomo dalla tecnica), valutativa Marcuse (inerente all’impatto sociale della tecnica, al come la tecnica si manifesta e viene impiegata ed al come potrebbe manifestarsi e potrebbe venir impiegata alternativamente), ontologica Heidegger, relativa all’analisi sull’essenza della tecnica, poiché attraverso l’essenza della tecnica può disvelarsi per Heidegger l’essenza dell’uomo e l’essenza di quel qualcosa di indefinibile che Heidegger chiama Essere, alludendo a ciò che non può essere ridotto e afferrato a parole. Già da questa piccola premessa è evidente che il discorso di Heidegger per essere compreso necessita, diversamente che per Gehlen e Marcuse, di porsi in un paradigma concettuale e linguistico diverso da quello che utilizziamo abitualmente. Insomma, quell’operazione che sempre dovremmo fare, in questo caso andrebbe fatta con ancora maggiore impegno: prima di affrontare un certo autore o un certo argomento, sarebbe necessaria un’opera di alfabetizzazione concettuale, per comprendere il vocabolario specifico che si utilizzerà (teniamo quindi fermo il punto che i termini che ora incontreremo sono da intendersi in un’accezione diversa rispetto al linguaggio ordinario, un’accezione, non solo metafisico-ontologica, ma specificatamente heideggeriana).

martedì 6 gennaio 2015

Dominio della vita, falsificazione della cultura e impegno intellettuale (Appunti sulla democrazia)

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
           
La libertà sembra subire la stessa sorte della virtù per Valery: non viene contestata, ma dimenticata e in ogni caso imbalsamata, come la parola d’ordine della democrazia dopo l’ultima guerra. Tutti si trovano d’accordo sul fatto che la parola “libertà” non debba più essere usata se non come vuota frase, e che sia utopistico prenderla sul serio
M. Horkheimer

Siamo sicuri di essere finalmente entrati nel regno della libertà (un noto imprenditore politico direbbe, delle libertà)? Di essere al di fuori, per dirla con Jean-Francois Lyotard (La condizione postmoderna), da una grande narrazione? O forse, siamo talmente dentro ad una nuova grande narrazione, ad una nuova, ebbene sì, ideologia, da non riuscire a percepirla? Proprio come, per dirla con David Foster Wallace (Questa è l’acqua), quel pesce che non sa cos’è l’acqua. Un’acqua che non viene ex nihilo, ma che rappresenta la modificazione dell’acqua di prima. Un’ideologia che non è venuta al mondo dall’oggi al domani, ma che rappresenta genealogicamente l’evoluzione, l’ottimizzazione della dominazione, della precedente forma ideologica ormai obsoleta. Se questo ha un senso, si dischiude una nuova prospettiva sull’osservazione della realtà e dei grandi fenomeni sociali recenti e correnti, dalla Seconda guerra mondiale al crollo del Muro di Berlino, dalle correnti primavere arabe ai vari movimenti occidentali di protesta, dal fenomeno del’imperialismo culturale a quello del contro-impero, che sembra non essere altro che la lega dei dittatori locali. In breve, gli interessanti fenomeni che stiamo vivendo sembrano essere nient’altro che un traumatico passaggio di consegne – nonché un’interazione dagli esiti difficilmente prevedibili e variabili di conteso in contesto – fra vecchi, obsoleti e nuovi, aggiornati modelli di controllo sociale. Dunque, contrariamente a quello che viene abitualmente detto, una transizione nella continuità.