di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino è uno dei migliori film del recente panorama cinematografico italiano, insieme a La mafia uccide solo d’estate di Pierfrancesco Diliberto (detto Pif) e Il capitale umano di Paolo Virzì; ma si badi bene, sono tutti film che, ciascuno con le proprie specificità, non possono essere relegati tra i migliori della “stagione”, dato che, sia per la loro qualità artistica che per i temi affrontati, si estendono molto al di là di una semplice stagione.
In questo articolo vorrei esprimere alcune brevi osservazioni sul film, e a partire dal film, di Sorrentino. Un film che mi affascinò fin dalla prima volta che lo vidi, al punto tale di non sapere se augurargli o meno successo, combattuto infatti da una parte dal desiderio di vederlo riconosciuto e dall’altra dalla consapevolezza che la fortuna presso il grande pubblico corrompe sempre il contenuto artistico; cosa infatti puntualmente avvenuta (come si è potuto constatare palesemente da due conseguenze del suo recente successo massmediatico dovuto all’Oscar: il film è stato passato in televisione con una tale quantità di pubblicità che se non faceva passare la voglia di guardarlo, rendeva però quasi impossibile calarsi nella sua semiologia, ne distruggeva le atmosfere, e a seguito di questo mortificante passaggio televisivo gli italiani si scoprivano un popolo di critici cinematografici e di dietrologi). Il film è talmente ricco che per analizzarlo nella sua pienezza e nei molteplici livelli di lettura che offre servirebbe ben più di un articolo giornalistico, in questa sede vorrei quindi limitarmi ad alcune brevi considerazioni su quelli che mi sembrano essere punti essenziali. Ma prima di tutto, vorrei sgombrare il campo da quello che mi sembra un gigantesco equivoco.
A volte si sente dire che questo sarebbe un film su Roma, e a partire da qui ci si divide fra chi apprezza e chi contesta la descrizione che viene data della città. Ma a me questo non sembra affatto un film su Roma. Dire che La Grande Bellezza è un film su Roma è come dire che Salò è un film documentario sul fascismo. Diversamente, esso è un film sul tempo in cui abitiamo, e poiché non esiste uno sguardo da nessun luogo, il regista utilizza una certa (la propria) prospettiva, mettendoci dentro una varietà di elementi e riferimenti (forse derivanti anche dal suo vissuto personale), che non hanno però una funzione meramente didascalico-descrittiva ma che alludono a un discorso più grande che li trascende. Insomma, fare del film una sorta di documentario su Roma, significa aver visto solo le immagini, non un loro possibile significato e meno che mai aver ascoltato i dialoghi (un po’come quando si vede il filmino delle vacanze di qualcuno, cosa che non può non risultare noiosa; esserci assuefatti a vivere in un regime di mediocrità ci fa filtrare qualsiasi cosa attraverso il suo modus operandi).
Se questo è allora ciò di cui il film non tratta, di cosa invece parla? È semplice, di sentimenti. Detta un po’ meglio, della loro sorte nella società contemporanea: sepolti “vivi” (dato che un sentimento, se c’è, non può che essere vivo), nascosti sotto il rumore, lo squallore, l’ipocrisia, la banalità.
Lo stesso Sorrentino ha dichiarato di essere rimasto sorpreso che questo film, parlando di sentimenti, susciti reazioni violente, per apprezzamento o per rigetto (cosa che non è avvenuta neanche per il suo film “politico” Il divo). Personalmente invece non lo trovo strano: questo film è un dito nella ferita aperta nella coscienza di tutti, sebbene ciascuno tematizzi la cosa più superficialmente o più approfonditamente secondo la propria sensibilità, e quando si tocca un nervo scoperto c'è chi vede in questo la possibilità per un confronto con se stesso e chi fugge; dunque, maggiore è la violenza della (para)critica, più si sta manifestando che si è stati toccati e che non si è in grado di fare i conti con ciò.
Lo stesso Sorrentino ha dichiarato di essere rimasto sorpreso che questo film, parlando di sentimenti, susciti reazioni violente, per apprezzamento o per rigetto (cosa che non è avvenuta neanche per il suo film “politico” Il divo). Personalmente invece non lo trovo strano: questo film è un dito nella ferita aperta nella coscienza di tutti, sebbene ciascuno tematizzi la cosa più superficialmente o più approfonditamente secondo la propria sensibilità, e quando si tocca un nervo scoperto c'è chi vede in questo la possibilità per un confronto con se stesso e chi fugge; dunque, maggiore è la violenza della (para)critica, più si sta manifestando che si è stati toccati e che non si è in grado di fare i conti con ciò.
Ma torniamo ai sentimenti, essi hanno, e questo è il punto, una forza cognitiva che è in grado di disegnare il mondo come Bello. Seppellirli significa quindi rinunciare a tale forza e a tale bellezza. E così come possono disegnare il mondo, i sentimenti possono disegnare un uomo, un’identità, tramite la narrazione che facciamo di noi stessi a noi stessi. Per questo mi sembra che una delle parole chiave del film sia “radici”, ma attenzione, radici non da intendersi semplicemente come riscoperta di eventi storici del passato ma come capacità di auto-comprensione, che altro non è che il modo in cui ci raccontiamo a noi stessi. In altre parole, la (ri)scoperta delle radici è a ben vedere un gesto di creazione delle stesse: le radici non sono un qualcosa che se ne sta lì, indipendentemente dal fatto che vengano ricordate o meno, molto diversamente, sono un atto creativo. Per questo il protagonista non ricorda che cosa gli disse quella ragazza nella sua giovinezza: quel che conta non è l’evento storico, ma come ce lo auto-narriamo. Per questo l’ultima parola del film è “trucco”, inteso però non come un qualcosa di deplorevole, ma come quell’inaggirabile fenomeno di costruzione identitaria tramite auto-narrazione. E una narrazione fondata sulla forza cognitiva delle emozioni, quindi sulla bellezza, è essenzialmente diversa da una fondata sul chiacchiericcio e sul rumore.
La Grande Bellezza allora, attraverso la parabola di uomo perso che poi si (ri)trova, è un film sulla facilità di perdersi, ovvero l’assuefazione all’esistente, e il nostro esistente è una sorta di grande bruttezza, e la capacità di (ri)trovarsi, ovvero il saper fare i conti con se stessi, costruendo così la propria auto-narrazione – in questo è molto simile ad un altro bel film di Sorrentino, This must be the Place, interpretato da un altro magnifico interprete come Toni Servillo, Sean Penn. Ma attenzione agli autoinganni: chi non fa i conti con se stesso non è solo chi si lascia sopraffare dal rumore, ma anche chi si lascia andare ad una deriva egoica trincerandosi dietro presunti risultati intellettuali, professionali e della vita privata che invece, ipocritamente e miseramente, non rappresentano altro che un’identità inautentica, narrazioni preconfezionate, prodotte in serie, indossando le quali si fugge dal confronto con se stessi, e così dalla possibilità di costruzione della propria unica e irripetibile auto-narrazione (si veda il dialogo sulla terrazza di Jep Gambardella, fra lo stesso e Stefania).
Certo, il modo e la profondità con cui si fanno i conti con se stessi dipendono dalla propria sensibilità, onestà, resistenza, dalla capacità di essere presso di sé (facoltà, questa, che non ha il personaggio di Verdone). E chi è “destinato alla sensibilità”, ha sì la possibilità di poter perseguire una bellezza più “grande”, ma solo a condizione di fare approfonditamente i conti con se stesso, l’alternativa è una miseria tanto grande quanto poteva esserlo la bellezza che la propria sensibilità annunciava.
E si badi, per concludere, che questo non è un film minimalista o intimista per il fatto di concludersi in direzione dell’individuo, cosa che gli farebbe perdere la dimensione sociale. La bellezza del tutto, infatti, ha come sua conditio sine qua non la bellezza dei suoi frammenti (altrettanto dicasi, come questa realtà insegna, per la bruttezza).
(«Critica liberale», 10/03/2014)
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(«Critica liberale», 10/03/2014)
LA GRANDE BELLEZZA
RispondiEliminaLa grande bellezza narra degli italiani nati durante l’ultima guerra, poco prima, un attimo dopo. Quelli che nella cornice più bella del mondo hanno aggredito gli anni ’60, ci sono cresciuti dentro e si sono formati, dagli orecchioni e la voce stridula, alla pubertà, lo sviluppo completo e la tempesta di testosterone che li ha travolti. Ma non erano soli. Con loro i grandi della letteratura, gli immortali registi, le musiche travolgenti e appassionate dei nostri cantautori, il genio di questo popolo. Intorno panorami e monumenti stupefacenti, l’origine della civiltà, e la Chiesa Cattolica Apostolica Romana con tutte le sue contraddizioni. Di ciò si sono nutriti, beati, e pure degli amori clandestini nei fienili durante le vacanze estive in campagna, “per far cambiare aria al ragazzo” dicevano le mamme. Tutto questo ha regalato loro il sogno e la speranza, li ha aiutati a immaginare il domani.
Oggi sono stanchi, delusi, scollati da una realtà che non gli appartiene e si limitano a considerare la pochezza della più squallida e strapagata classe dirigente del pianeta, mentre i loro figli, sbigottiti da tale, tanta e incomprensibile stupidità vorrebbero recuperare l’energia della ragazzina, artista suo malgrado, per scagliare secchiate di colore sullo sbiadito panorama che gli hanno sistemato di fronte.
L’opera di Sorrentino è la commemorazione del cinema, la chiave di volta che distribuisce il carico delle rappresentazioni di tutti i grandi della cultura nazionale e la domanda che Jep pone con apprensione alla coppia di amici “ma voi che fate stasera?” è lo smarrimento di Gassman dopo l’ultimo, fatale sorpasso, il saluto di Mastroianni che non riesce a udire il richiamo innocente della giovane, le sue parole, e si allontana nell’oblio di un’illusione, la dolce vita.
Probabilmente è di questo che parla l’unico libro scritto da Jep Gambardella, del diritto alla bellezza che ti fa accettare il senso di fine con serenità quando il vissuto ti presenta il catalogo di ciò che hai raccolto.
Il film è un’opera d’arte compiuta che non ti stancheresti mai di guardare, non ha fine, e dopo i titoli di coda potresti ritornare al metafisico ballo iniziale senza renderti conto di alcun stacco, come ammirare un altro quadro, e poi nuovamente da capo, sempre diverso, e ancora una volta nella storia infinita. È cinema “nostro” come nessun altro lo è mai stato, almeno così intimamente, e rivolgendosi all’apparato umano delle nuove generazioni cerca di comunicare ciò che i padri, di fronte allo sfacelo quotidiano di questo splendido Paese, non sono più in grado di fare. Con la sua espressione disincantata Jep li mette in guardia, dice ai giovani italiani “lottate e riappropriatevi del vostro patrimonio culturale, prezioso, unico, strappatelo dalle mani degli stupratori del futuro”.
Regia, sceneggiatura, fotografia e interpretazione magistrali sono le sfaccettature di un cristallo perfetto, tanto che Toni Servillo non sarà più quello di prima, da oggi è solo e soltanto Jep, e Verdone non uscirà mai dal Romano stritolato dal peso della città eterna. Fra musiche da lasciarti senza fiato la Ferilli ha fissato in Ramona la sua incomparabile bellezza senza età.
La galleria di fotografie che il padre fece ogni giorno al figlio, esposte in quella fantastica e surreale collezione, sono l’inutile tentativo di fermare l’attimo, recuperare e dilatare lo spazio che ci comprime e Jep, nell’osservarle, sa che “tutte quelle immagini andranno perdute nel tempo come granelli di sabbia nel deserto”. Chissà che non sia proprio questo, il deserto, a dare l’ispirazione al protagonista per scrivere un nuovo romanzo e realizzare ciò che non è riuscito a Flaubert. Raccontare il nulla da cui ripartire.
Mauro Giovanelli - Genova
mauro.giovanelli@gmail.com