martedì 27 gennaio 2015

Hannah Arendt e la banalità del male

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Nel 1963 Hannah Arendt pubblica una delle sue opere di maggiore risonanza: La banalità del male. In essa il male radicale viene ricondotto non al "demoniaco", al "diabolico", ma all'assenza di un vero e proprio fondamento, quindi alla banalità. Un'assenza di riflessione critica riscontrabile nella versione oggi dominante dell'animal laborans: il manager. Un'analogia che segna l'inquietante attualità di questo libro.



(come Federico Sollazzo – La questione della banalità del male in Arendt, in «Osservatorio filosofico», 18/11/2013)

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1 commento:

  1. "Eichmann, caro mio, aveva una quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su, in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici, a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno e alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava, una volta al giorno per i bisogni e il pane e acqua dei deportati quando sarebbero state più funzionali o più economiche due fermate. Ma non ha mai inceppato la macchina."

    P.P. Pasolini, "Siamo tutti in pericolo" (intervista rilasciata a Furio Colombo il 1° novembre 1975), in “La Stampa - Tuttolibri”, 8/11/1975, ora in "Saggi sulla politica e sulla società", Milano, 1999.

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