di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
La libertà sembra subire la stessa sorte della virtù per Valery: non viene contestata, ma dimenticata e in ogni caso imbalsamata, come la parola d’ordine della democrazia dopo l’ultima guerra. Tutti si trovano d’accordo sul fatto che la parola “libertà” non debba più essere usata se non come vuota frase, e che sia utopistico prenderla sul serio
M. Horkheimer
Siamo sicuri di essere finalmente entrati nel regno della libertà (un noto imprenditore politico direbbe, delle libertà)? Di essere al di fuori, per dirla con Jean-Francois Lyotard (La condizione postmoderna), da una grande narrazione? O forse, siamo talmente dentro ad una nuova grande narrazione, ad una nuova, ebbene sì, ideologia, da non riuscire a percepirla? Proprio come, per dirla con David Foster Wallace (Questa è l’acqua), quel pesce che non sa cos’è l’acqua. Un’acqua che non viene ex nihilo, ma che rappresenta la modificazione dell’acqua di prima. Un’ideologia che non è venuta al mondo dall’oggi al domani, ma che rappresenta genealogicamente l’evoluzione, l’ottimizzazione della dominazione, della precedente forma ideologica ormai obsoleta. Se questo ha un senso, si dischiude una nuova prospettiva sull’osservazione della realtà e dei grandi fenomeni sociali recenti e correnti, dalla Seconda guerra mondiale al crollo del Muro di Berlino, dalle correnti primavere arabe ai vari movimenti occidentali di protesta, dal fenomeno del’imperialismo culturale a quello del contro-impero, che sembra non essere altro che la lega dei dittatori locali. In breve, gli interessanti fenomeni che stiamo vivendo sembrano essere nient’altro che un traumatico passaggio di consegne – nonché un’interazione dagli esiti difficilmente prevedibili e variabili di conteso in contesto – fra vecchi, obsoleti e nuovi, aggiornati modelli di controllo sociale. Dunque, contrariamente a quello che viene abitualmente detto, una transizione nella continuità.
L’ideologia in cui siamo immersi, è figlia di un potere impersonale – che risponde ad una razionalità economica e, in misura maggiore, tecnologica – che migliora, rispetto alle sue obsolete forme, la sua presa sul corpo; non a caso Pasolini parlava di “mutazione antropologica” (ne ho parlato nel mio Pasolini e la “mutazione antropologica”, in Atti del Convegno Internazionale di Studi, Università di Craiova 2013). È infatti il corpo il vettore attraverso cui passano le relazioni, ergo, anche quelle di dominio. Tracce evidenti di questa ottimizzazione della presa sul corpo si trovano nella distorsione strumentale, tramite oggettivazione, reificazione, della vita nelle sue articolazioni essenziali: linguaggio, pensiero e, appunto, fisicità.
Nell’ormai classico 1984 George Orwell ci parla di “neolingua”. Quella lingua che, per dirla con Vaclav Havel (Il potere dei senza potere), impedisce il sorgere di un “pensiero eretico” («La neolingua di Orwell esprime questa disgiunzione tra parola e linguaggio nella sua finalità ultima e metafisica: come rendere semplicemente impronunciabile la critica? […] Come impedire l’articolazione stessa di un pensiero che sia critico rispetto alla realtà?», M. Recalcati (cura), Forme contemporanee del totalitarismo). Il linguaggio si fa così didascalico, esclusivamente descrittivo di funzioni («I concetti che abbracciano i fatti e in tal modo li trascendono stanno perdendo la loro autentica rappresentazione linguistica. Senza queste mediazioni, il linguaggio tende ad esprimere e a promuovere l’identificazione immediata della ragione col fatto, dell’essenza con l’esistenza, della cosa con la sua funzione», H. Marcuse, L’uomo a una dimensione). Il linguaggio diventa cliché, slogan, economici e politici che si esprimono in polarità semplificanti: amico-nemico, potenza-impotenza, bianco-nero… («L’individuo […] non considera il linguaggio parlato se non come un mezzo per orientare, informare, dare ordini […] Gli uomini devono ripetere i linguaggi della radio, del cinema, dei giornali»», M. Horkheimer, Crisi della ragione e trasformazione dello Stato). Ancora una volta ci viene, tragicamente, incontro Pasolini (non sarebbe affatto improbabile un mondo «interamente occupato al centro dal ciclo produzione-consumo, che avesse come lingua la sola lingua tecnologica [e nel quale] tutte le altre lingue potrebbero essere tranquillamente concepite come “superflue” (o come sopravvivenze folcloristiche in lenta estinzione», Empirismo eretico).
Ovviamente, parallelamente all’assorbimento del linguaggio all’interno di tale perimetro procede quello del pensiero, il logos nella sua totalità è assorbito da questa complessiva dinamica di reificazione («In questo processo, la dimensione “interiore” della mente, in cui l’opposizione allo status quo può prendere radice, viene dissolta. La perdita di questa dimensione, in cui il potere del pensiero negativo – il potere critico della Ragione – si trova più a suo agio, è il correlato ideologico dello stesso processo materiale per mezzo del quale la società industriale avanzata […] concilia con sé l’opposizione», H. Marcuse, supra).
Quanto al dominio sulla corporeità, è questo il principale fil rouge che attraversa e unisce Novecento e terzo millennio. Dal totalitarismo storico («La raccomandazione ufficiale delle relazioni extraconiugali nello Stato del Führer certifica che il lavoro privato di coito è lavoro della società di classe in cui lo Stato prende anche l’amore sotto il suo diretto governo», M. Horkheimer, supra), all’oggi di quella “mutazione antropologica” con cui Pasolini (ne ho scritto qui L’ultimo Pasolini) coglie l’esito determinante di quello che Michel Foucault chiamerà bipolitica (Nascita della biopolitica, corso al Collège de France del 1978-79), passando per la tragica attualità della lettura marcusiana, tramite le lenti di Sigmund Freud («La liberazione della sessualità costretta entro il dominio di queste istituzioni. Quest’ultimo processo porta a una liberazione della sessualità soffocata e rimossa; la libido continua a portare il marchio della rimozione e si manifesta nelle forme orride e ben note nella storia della civiltà; nelle orge sadiche e masochistiche di masse disperate, di “élite sociali”, di bande fameliche di mercenari, di guardiani di prigioni e di campi di concentramento. Una siffatta liberazione della sessualità, offre un necessario sfogo periodico a un’insoddisfazione insostenibile; essa rafforza più che indebolire le radici della costrizione degli istinti; di conseguenza essa viene usata di quando in quando come sostegno di regimi oppressivi», Eros e civiltà), che ritorna in tutta la sua opprimente evidenza in Salò o le 120 giornate di Sodoma.
Presa sulla vita in quanto presa sul linguaggio, sul pensiero e sul corpo. Questi sono i nuovi vettori del dominio. Ecco perché il potere corrente, impersonale e diffuso, non opera più secondo adesione fideistica ad un dogma/ideologia, ma secondo conformismo, colpevolizzando e criminalizzando quei pensieri e comportamenti che potrebbero metterlo in crisi, e ancor più efficacemente assorbendoli al suo interno in forma stereotipata e banalizzata, quindi disinnescandone il potenziale di rottura, anche nei casi in cui viene mantenuta l’etichetta di “pensiero critico”. Che così altro non è che lo strumento con cui la critica viene conciliata con l’esistente.
Non passino inosservate, continue manovre di falsificazione della Cultura. Dai periodici tentativi di ri-scrittura dei manuali di storia, all’assorbimento di importanti concettualizzazioni filosofiche in scenari che le negano, in cui quindi non possono avere nessun effetto, se non quello dell’abbellimento, e così della conferma, di quello scenario.
Sembra che non avesse visto male Marcuse, parlando di sistema e totalitarismo («Il termine “totalitario”, infatti, non si applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione economico–tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti. Essa preclude per tal via l’emergere di una opposizione efficace contro l’insieme del sistema. Non soltanto una forma specifica di governo o di dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e di distribuzione, sistema che può essere benissimo compatibile con un “pluralismo” di partiti, di giornali, di “poteri controbilanciantesi”, ecc», L’uomo a una dimensione).
Insomma, se la modernità occidentale, che con gli avamposti massmediatici seguiti dalle guerre preventive e/o umanitarie stiamo esportando sull’intero pianeta, è caratterizzata da una nuova forma di dominio che prevede il consenso (inconsapevole, non dogmatico, conformistico) dei dominati, sembra allora non vi siano più possibili aperture per uscire da questa situazione.
Nel centenario della nascita di Albert Camus si torna a parlare della figura dell’intellettuale engagé (ad es. nel bel volume di “MicroMega”, omaggio a Camus e riflessione sulla posizione dell’intellettuale nella società, L’intellettuale e l’impegno, n. 6, 2013). Questione di assoluta priorità. E tuttavia a priori di tale questione ve n’è un’altra: quella del riconoscimento dei discorsi di rilevanza intellettuale. Il separare il grano dal loglio. Il saper riconoscere, appunto, chi intellettuale lo è davvero, autenticamente, con il suo linguaggio, il suo pensiero, il suo corpo, e chi gioca ad esserlo, perseguendo denaro, potere, narcisismo, se non anche un deliberato depotenziamento della critica, rendendola un insignificante ritornello.
Mi permetto allora di avanzare qui una proposta. Se l’intellettuale engagé – e sia chiaro, se è l’una cosa non può non essere anche l’altra, altrimenti sarebbe un banale tecnico delle nozioni – nei decenni passati era colui che svolgeva un’essenziale operazione pedagogica, va compreso e accettato come oggi non sia più possibile svolgere frontalmente una simile operazione, mettendosi in concorrenza con altre “agenzie pedagogiche” – sostanzialmente, l’economia e la tecnologia; e in secondo ordine quelle chiaramente identificabili come le religioni e gli Stati autoritari – del tutto dominanti. Il primo passo da compiersi oggi – da parte di un intellettuale che non è affatto, strictu sensu, il professionista dell’intelletto, bensì, latu sensu, chi è depositario di una autentica sensibilità costantemente problematizzante il mondo – è allora quello di una pars destruens che andrà a formare lo spazio fondativo della successiva pars costruens. La rimozione di quelle agenzie pedagogiche oggi dominanti – e dei loro lacchè – in quanto agenzie pedagogiche, e la loro sussunzione in un perennemente problematizzante orizzonte critico.
(«Critica liberale», 07/10/2013)
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