mercoledì 23 dicembre 2015

Gli uomini del fare

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Politici (di tutti gli schieramenti) e opinione (sempre più) comune, concordano: con la cultura non si mangia, leggere non serve a niente, meglio laurearsi presto anche se male anziché tardi anche se bene (o forse non laurearsi affatto, tanto oggi per trovare un posto, che so, da ministro, basta saper usare i social), ecc., e ogni qualvolta che qualcuno se ne esce con qualche esternazione del genere, ne consegue un profluvio di articoli e commenti indignati, un coro in difesa della cultura, e la cosa si riduce così ad uno scontro binario fra guelfi e ghibellini.
Come piccola e ovvia premessa, va da sé che quando gli uomini del fare criticano il sapere, si riferiscono alla cultura, quindi al sapere umanistico, e certamente non al sapere tecnico, pratico, operativo, quello delle scienze applicate (le scienze “pure” sono tollerate solo perché servono per arrivare a quelle applicate), quello del know-how, che è già una forma di fare. È (dovrebbe essere) infatti ormai chiaro anche ai sassi che è in corso una risignificazione di termini, e delle relative pratiche, quali sapere, conoscenza, istruzione, educazione, facendoli coincidere con l’acquisizione di competenze dettate dalle esigenze del mercato (a loro volta, dettate dalle esigenze della tecnica, ma qui il discorso diventa lungo). Scuole e università si trasformano così in nuovi centri di avviamento al lavoro, che differiscono da quelli del passato solo per l’iperspecializzazione dei nuovi operai che producono – sarebbero queste la “Buona Scuola” e la “Buona Università”? E la cultura – en passant, una cultura alla quale ormai non prepara più nessuno, se scuole e università sono impegnate solo nella produzione di futura manodopera – è tollerata al massimo come ornamento del fare, come divertissement nelle pause del fare. Ora, so che è utopistico e obsoleto pensare oggi che dovrebbe essere il lavoro ad essere subordinato ai princìpi della cultura, ma sarebbe già un risultato (oggi impossibile, lo so) se almeno la si smettesse di ritenere che dovrebbe essere la seconda a sottomettersi al primo.      
Ad ogni modo, in queste brevi righe, per quanto mi senta distante anni luce dagli “uomini del fare”, non voglio però unirmi al coro degli “uomini del sapere”. Innanzitutto per una mia personale allergia all’appartenenza ad un qualsiasi schieramento, ma soprattutto perché mi sembra che la cosa sia ormai alquanto inutile (o forse utile solo per alimentare il circo mediatico e quindi, appunto, inutile). Vorrei invece qui prendere seriamente in considerazione il punto di vista degli uomini del fare, ammettere che possano aver ragione e vedere che cosa deriverebbe da un’applicazione sociale di questa ragione.
Quindi, gli uomini del sapere pensano, cosa inutile perché equivale a fare niente, mentre gli uomini del fare fanno, ovvero fanno il mondo. È per questo che gli uomini del fare supportano, e sopportano, gli uomini del pensare. Bene, ma nel loro fare, gli uomini del fare, che cosa fanno? Indipendentemente dalla cosa specifica che fanno, il punto è che fanno sempre la stessa cosa. Per fare qualcosa di diverso, infatti, bisogna saper iniziare qualcosa di nuovo, ma per mettere al mondo un nuovo inizio bisogna prima pensarlo – non a caso la Arendt pensava che l’iniziare qualcosa di nuovo fosse la cifra dello stare al mondo.
Un esempio elementare (accessibile così anche agli uomini del fare). Oggi si parla tanto del passaggio dalle energie non rinnovabili a quelle rinnovabili. Benché il passaggio dalle une alle altre, in termini teoretici, sia un piccolo passo, è però pur sempre un nuovo inizio, un incominciare, la messa al mondo di una nuova possibilità, una differenza, uno scarto rispetto a ciò che vi era, che si faceva, prima. Insomma, è un pensiero. Invece, semplicemente seguendo il fare, si continuerebbe a fare, sempre nella stessa maniera, fino all’inevitabile esaurimento per consumazione di quello che si fa. Si moltiplichi questo esempio banale su scale di eventi più raffinati, e si vedrà la differenza tra l’autismo mortifero del fare e l’apertura vitalizzante del pensare.
Il fare quindi non può che rifare sempre la stessa cosa, poiché per introdurvi uno scarto qualitativo servirebbe il pensare, fino a consumarla del tutto, tanto idealmente quanto materialisticamente. Il fare, senza il pensare, senza la cultura, è destinato e destina all’estinzione.
E allora, esattamente al contrario di quel che dice il mantra della vulgata del fare, sono gli uomini del sapere, inteso come cultura e come pensare, a supportare (e sopportare?) gli uomini del fare. E se, come sembriamo ben avviati, prima o poi arriveremo all’autoestinzione, da non intendersi necessariamente solo come una possibilità fisica, un attimo prima guardiamoci intorno per vedere quanti uomini del fare e del sapere ci sono, e quindi la presenza di quale dei due sta portando tutti e tutto verso la fine.   

(«La chiave di Sophia», 08/12/2015, e «Sinistrainrete», 28/12/2015

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1 commento:

  1. Qualche, ormai 'necessaria', dialettica riflessione, a proposito di eventuali 'relativi' nuovi inizi https://www.facebook.com/notes/kratologia-criteri-del-sapere-e-logiche-del-potere/kratologicamente-tentando-un-d-ire/141464369277764

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