di Grazia Calanna (graziacalanna@lestroverso.it)
Svegliarsi, con le nitide carezze del sole. Era questa una delle ragioni che aveva spinto Bianca ad accelerare i tempi di un trasferimento, rimandato troppo a lungo. Per ventitré anni, aveva vissuto ad Iverness, città a nord della Scozia, situata alla foce del fiume Ness. Nonostante gli sforzi, non si era mai ambientata come avrebbe sperato. Si sentiva lontana, mille galassie, da quella gente. Tutti cordiali, “per carità”, ma nulla, proprio nulla, in confronto alla totale sintonia che sentiva di avere nei confronti di un popolo, cui sapeva di appartenere, che conosceva solo grazie ai racconti del nonno Marcello. Sin da bambina, nel pomeriggio, rinunciava a giocare con i compagni di scuola, preferendo accovacciarsi sulla morbida poltrona di velluto blu, sommersa da mille coperte - soffriva maledettamente il freddo - per dedicarsi all’ascolto di quelle che amava definire favole variopinte.
Racconti di una vita realmente vissuta, in un luogo che appariva magico, refrattario all’incedere del tempo: la Sicilia. Terra di odori, sapori e consuetudini, tramandate, di generazione in generazione, con la naturalezza e, in eguale misura, l’urgenza di una donna a sfamare il proprio bambino. Dopo la dipartita del nonno, colui che l’aveva cresciuta, si sentiva totalmente depredata. Non aveva più alcun motivo per restare. Aveva bisogno di colmare il vuoto gelido della solitudine. Sapeva di poterlo fare solo recandosi incontro alle proprie radici. Voleva perdersi, nel caloroso abbraccio di una madre lussureggiante, tra la sicilitudine delle sue genti. Specchiarsi nelle acque cristalline dei suoi mari temperati, per ritrovare se stessa.
Sarebbe tornata nella casa dei suoi genitori, a Modica, ridente cittadina barocca, nella Sicilia sud orientale.
«Buongiorno, buongiorno… buongiorno, buongiorno!!!».
La sveglia parlante - perché mai aveva deciso di puntarla - la distolse dal ristoro del sonno. Tra bus, aereo, treno, e ancora bus, era stato un lungo, complicatissimo, estenuante viaggio. Era il suo primo giorno in Sicilia. E certo, non avrebbe potuto sprecarlo dormendo. Spalancò le imposte della propria finestra e la luce del sole, quasi, l’accecò. Non ebbe neanche il tempo di riprendesi che sentì bussare alla porta.
“Chi sarà mai? - pensò -”.
«Arrivo, arrivo - disse -. Un momento».
Cercò le pantofole, non le trovò. Procedette scalza e inciampò nell’enorme valigia piazzata, frettolosamente, in prossimità della porta d’ingresso.
La sera prima, era smoderatamente stanca, a stento aveva trovato la forza per trascinarla dentro casa.
«Salve - esordì un giovane, all’incirca trentenne, dallo splendido sorriso -. Mi chiamo Valerio. Sono il tuo dirimpettaio. Ti ho vista arrivare, ieri, all’imbrunire, ma ho preferito non presentarmi subito. Non vorrei pensassi che sono una persona invadente».
Bianca non ebbe il tempo di dire grazie. Il tipo bizzarro, per la foga di liberarsene - probabilmente intimidito dal silenzio della sua interlocutrice - le scaraventò tra le mani un pacco ben confezionato, con tanto di nastrini di stoffa luccicante.
«Per te. Un piccolo dono di benvenuto», aggiunse serafico.
E si dileguò.
La curiosità - da sempre - era il suo punto debole. Tanto che, nell’immediato, non si preoccupò di rincorrere l’uomo per ringraziarlo.
Rientrò in casa, si sedette comodamente, al centro del suo enorme e solitario lettone, e iniziò a scartare il regalo, avendo cura di non sgualcirne la carta. Era una confezione di caffè tostato, in chicchi. Non resistette alla tentazione di aprirla immediatamente.
Voleva lasciarsi inebriare dall’odore, ripensando alle parole del caro nonnetto.
«Mi manca - le diceva continuamente - il rito del caffè. Quello vero. Quello che nessuno sa preparare e vivere come noi. Vedi - aggiungeva -, non basta saperlo fare. È necessario trovarsi nel posto giusto, con la giusta compagnia. Gli elementi da contorno - credimi - giovano a renderlo unico. Una meravigliosa bevanda aromatica, forte e scura. Il massimo? Un caffè ristretto, da gustare caldo, insieme ad un amico fidato».
Un grosso gatto, con fare agile e flessuoso, saltando dalla finestra, fece rapida irruzione nella stanza.
Per lo spavento, la ragazza - ancora insonnolita - fece volare in aria la scatola.
Centinaia di chicchi di caffé si sparsero, oltreché sul letto, sul pavimento di marmo a tinte verdazzurro. Dopo essersi data della stupida - in fondo si trattava di un innocuo micione - sorrise e, più che mai di buon umore, iniziò a raccogliere i chicchi, riponendoli amorevolmente dentro la scatola color bronzo.
Il gatto, dal canto suo, rimase immobile, come per studiarla. Poco dopo, prese a fare le fusa, strusciandosi, con il pelo folto e morbido, tra le gambe della ragazza.
«Siamo affamanti?», domandò Bianca, certa che avrebbe capito.
«Miaoooo», rispose il nuovo arrivato, come a voler dir di si. La ragazza si spostò in cucina, all’improvviso sentì i morsi della fame, e realizzò - ricordò - di non avere nulla da mangiare.
«Dovrai accontentarti di un pò d’acqua».
Riempì una vecchia ciotola e la poggiò a terrà. Il gatto - poco pretenzioso - sembrò gradire il gesto e, da quel momento, divennero inseparabili.
Bianca non ebbe difficoltà ad ambientarsi. Più il tempo correva in avanti, più aveva l’impressione di trovarsi in quel luogo da sempre. Bastava un piccolo pretesto, a volte, anche solo uno sguardo complice, un sorriso, e si ritrovava per strada, nei bar, al mercatino - ovunque insomma - a chiacchierare con i passanti.
Grazie all’aiuto di Valerio - il vicino di casa che, poi, ricordò di ringraziare per l’accoglienza - non ebbe difficoltà a trovare lavoro. Faceva l’interprete e, nonostante che le paghe non fossero altissime, ogni mese, riusciva a sbarcare il lunario. Era visibilmente serena, soddisfatta.
Amava trascorre i momenti di svago in giro per quella fetta d’isola fantastica, baciata dal sole, rigogliosa di vita e di colore, che le parole del nonno, con la maestria di un artista intento ad ultimare il migliore dipinto, le avevano impresso a fuoco nella memoria. Il più delle volte Valerio le faceva da cicerone e alla fine, prima del rientro a casa, inevitabilmente, si fermavano in un bar, uno dei tanti, l’importante - lo ricordava bene - erano il luogo e la compagnia giusta.
Da quelle parti, il caffè, aveva sempre lo stesso inconfondibile sapore, accompagnato da un profumo intenso, gradevole. Avvolgente, come un’eterna primavera. Un sabato, dopo una piacevole passeggiata in Corso Umberto, delizioso salotto modicano, i due amici, come solevano fare tre volte al mese, fecero breve tappa in Chiesa San Pietro, vero e proprio orgoglio cittadino, grandiosa “imperatrice” della città.
Un tacito accordo li voleva immobili, con lo sguardo fisso verso l’altare - in religioso silenzio -.
Ognuno formulava la propria semplice preghiera. E poi … fuori, a rincorrersi, allegramente, per la ripida scalinata.
Chi fosse arrivato giù per ultimo, avrebbe pagato da bere, in una rinomata caffetteria del centro storico, comodamente seduti nelle confortevoli poltrone di pelle bordeaux.
«Sei felice?», chiese Valerio, intento a giocherellare con la tazzina. Ultimato il caffè, amava farla rotare sul piattino. “Prima o poi - pensava Bianca - la farà cadere”.
«Onestamente, non mi sono mai posta il quesito. La vita è un bene prezioso. Abbiamo il dovere di rispettarla e, altrettanto, riceveremo rispetto. Quanto alla tua domanda credo che, piuttosto di non esserlo mai, sia assolutamente necessario rischiare per esserlo».
Esattamente quello che pensava Ico. Neanche si conoscessero dalla nascita, quei due.
Erano legati - cuore a cuore - da un filo invisibile che li teneva uniti, malgrado la loro reciproca inconsapevolezza.
Ico? Chi era Ico? La parte più semplice del discorso è che Ico è il diminutivo di Ludovico. Semplicemente, “lui”, preferiva lo chiamassero “con formula abbreviata”, sottolineava con fare spiritoso.
Per quanti hanno sempre creduto che anche le cose hanno un’anima, ecco svelato l’arcano.
Niente di più vero!
Ico era l’ultimo dei chicchi sparsi da Bianca in giro per la stanza, in occasione del suo primo risveglio a Modica. Il birbantello, con la complicità di Micione - basti pensare, di quel mattino, al momento dello spostamento di Bianca in cucina - era riuscito a sfuggire al controllo della ragazza.
Con la forza di due braccia trasparenti, passando per le vie della seta - le lenzuola apparivano come soffici montagne morbide e lucenti - per meglio godere il panorama, si era arrampicato sulla maestosa lampada di ceramica dipinta a mano.
In seguito, avrebbe pensato ad una migliore sistemazione.
Nell’immediato, l’importante era muoversi indisturbato per la casa evitando, accuratamente, di farsi scoprire dalla padrona.
Un tempo non avrebbe desiderato altro che farsi macinare per poi trasformarsi, insieme ai propri fratelli, in quella bevanda quasi “mistica”, irrinunciabile. Orgoglio, tramandato, da padre in figlio, da una vecchia dinastia di chicchi, la famiglia dei “Coffee Gold King”, alla quale si sentiva onorato di appartenere. Oggi, le cose erano cambiate. Amava Bianca, profondamente.
Trovarsi catapultato fuori da quella scatola e vederla, era stata un’esperienza unica, indimenticabile, che lo aveva scosso dal profondo, risvegliando sensi sopiti da un destino apparentemente segnato.
I suoi occhi trasparenti si erano tuffati nell’azzurro limpido degli occhi di Bianca, sprofondando in direzione del cuore, fino a varcare la soglia dei sogni di una giovinezza intatta, gelosamente custoditi tra i cassetti dell’anima.
Amava osservarla. Nella corsa dei preparativi prima di recarsi a lavoro, tra le faccende domestiche, indaffarata tra i fornelli - era una vera e propria maga delle leccornie al cioccolato -.
E ancora, nelle pause dedite alla lettura. L’espressività del volto della giovane, permetteva al dignitoso chicco di cogliere ogni singola emozione generata dalla forza della parola.
Si divertiva da matti a spiarla quando, intenta a bagnare le piante, soleva umettarsi le labbra. Trovava armonioso ogni singolo gesto di quella creatura sublime, senza eguali per la capacità di fare, animata da una perfetta combinazione di sentimenti intensi ed esclusivi.
Leggero … leggero, danzava al ritmo del vento. Si sentiva piccolo e impotente, sconosceva la forza del proprio pensiero che, con grazia, si insinuava - confondendola - nel pensiero di lei.
«Piroette di gioia librino stelle cristalline. Fasci di luce argentea illuminino la notte … Che il mio ti amo giunga carezzevole al tuo candido cuore», cantava accorato.
Presto comprese che doveva farsi coraggio. Non poteva restare nell’ombra tutta una vita. Doveva rischiare per essere felice. Doveva mostrasi e lottare in nome del proprio nobile sentimento.
E rifletteva. Certo, finché Bianca non avesse saputo della sua esistenza, cosa avrebbe potuto sperare?
Un punto a proprio vantaggio, sapeva di averlo.
La ragazza, inequivocabilmente, amava il caffè, motivo per cui, pensava: “In parte ama anche me”.
- Ottimista ?! -.
Qualcuno, un certo Kahlil Gibran, scriveva: “È sempre accaduto che l’amore abbia ignorato quanto fosse profondo, fino al momento del distacco”.
Quelle parole, insegnamento di uno dei suoi scrittori preferiti, bombardavano, senza tregua, sentimento e ragione.
Ico sapeva che - a breve - Bianca avrebbe lasciato la città per motivi di lavoro. Voleva “mostrarsi”, conoscerla, o meglio farsi conoscere, prima della partenza.
Chissà, forse il momentaneo allontanamento, l’avrebbe aiutata a comprendere la vera essenza di un moto interiore fuori dall’ordinario.
E così eccolo - come per incanto - sul pomposo cuscino avorio, ben saldo, tra i ricami a punto croce della zia Nellì. Bianca pensò di avere avuto una svista, poiché, la frazione di secondo successiva, non lo vide più.
L’agile scatto di due vigorose gambe trasparenti permise all’intrepido chicco di spostarsi con l’astuzia di un furetto. Aveva ideato una precisa strategia. Sarebbe comparso per gradi, fino a diventarle familiare, indispensabile ...
- Presuntuoso!? -.
Apparve in bagno, nel cesto della spesa, sul dondolo del piccolo fertile giardino, in prossimità dei fornelli e, a tappe alterne, sul magnifico lettone… la sua “zona” prediletta!
Perché mai? Penserà qualcuno…
«Ma è quella del nostro primo incontro …», sarebbe stata la risposta chiarificatrice del chicco imbarazzato e con tono da finto indifferente!
Avrebbe voluto - era una vera e propria tentazione - depositarsi sul fondo della tazzina preferita da Bianca, ma desistette. La mossa appariva azzardata. Rischiava di restarvi intrappolato per via della scivolosità delle spesse pareti smaltate.
Bianca, dal canto suo, si sentiva confortata. Viveva quella presenza misteriosa come un evento naturale. Giorno dopo giorno, si nutriva di gioia autentica, senza l’assillo, ma con la chiara certezza che lo avrebbe rivisto.
Arrivò il giorno della partenza. Quel pomeriggio si sentiva inquieta. Non aveva ancora “intravisto” il suo chicco. Quest’ultimo, da bravo furbetto, non si era mostrato appositamente.
- Faceva il prezioso!? -.
Dopo le fatiche di una notte insonne, trascorsa a scrivere, approfittò della distrazione di Bianca, intenta salutare l’amico Valerio, per infilarle nella borsa, con l’aiuto di Micione, il suo piccolo biglietto.
La ragazza, partì alla volta di Milano, sarebbe tornata al più presto. Certo, non avrebbe resistito a lungo senza il calore di quella sua terra accogliente e luminosa.
Ico, la cui tristezza, a dir poco, lo aveva sbiancato, si era battuto contro il suo stesso impeto.
Una lotta, accanita.
Senza esclusione di colpi.
Per un attimo aveva pensato di nascondersi tra i maglioni dell’amata, dentro quell’enorme valigia.
- Non poteva distaccarsene, non voleva! -.
Alla fine, egli stesso ebbe a stupirsi. Prevalse il buon senso.
Doveva lasciarla libera.
Al rientro, ogni cosa sarebbe andata per il verso giusto perché - così credeva - la vita, per quanto, a volte, sia crudele, alla fine, ti rende quel che ti appartiene.
Giunta all’aeroporto “Fontanarossa” di Catania, Bianca, aprì la borsetta per prendere la carta d’identità. Era talmente piena - sembrava stesse per esplodere - che ebbe difficoltà a trovare i documenti.
Nella frenesia della ricerca, l’infiltrato - il biglietto - cadde.
Un’ora dopo, lo raccolse un’anziana signora dai modi gentili.
Lo srotolò e lo lesse: “Attendo! Sulla lama del tempo. Sospeso ad un fil di fiato. Ricolmo da fitte polveri, annaspo nella pungente lucidità per un amore che non può placarsi. Corri, corri, … corri! Torna da me, vita mia”.
La donna si commosse. Avrebbe voluto consegnarlo alla legittima destinataria ma non c’erano indicazioni, mancava persino la firma dell’autore. Decise di lasciarlo, lì, dove lo aveva raccolto. In realtà, qualche indizio c’era ma la poverina, affranta da un comprensibile senso d’impotenza, non ebbe a notarlo. Il colore della scrittura, ad esempio, era insolito: bruno dorato.
Il foglio - una piccola pergamena - emanava un irresistibile ghiotto profumo. L’ardimentoso innamorato, per scrivere, aveva usato la sua inseparabile microscopica penna stilografica, il cui serbatoio, per alimentare il pennino, anziché d’inchiostro era ricolmo di caffè.
In quel di Milano, i giorni divennero interminabili. Il tempo si dilatava con fare crudele. Tutto grigio intorno, per le strade - avvolte nella nebbia - e nel cuore, assetato di luce.
La giovane soffriva, sentiva la mordace necessità di tornare a casa.
Sentiva il richiamo di una voce sconosciuta, invisibile carezza dell’anima.
Al calar della sera, amava volgere lo sguardo fuori della finestra della propria camera.
Avrebbe voluto spingersi fino al confine con la propria isola.
Il cielo appariva solcato da ampie distese di nuvole salvo i giorni in cui il vento le spazzava via scompigliando, al contempo, le chiome frondose delle grandi querce piazzate - come due guardie severe - all’ingresso dell’albergo.
Sentiva la mancanza del sole e delle sue carezze al risveglio!
Fortunatamente le cose cambiano e, con esse, gli stati d’animo.
Quella mattina, era partita da due mesi e ventisette giorni, si sentì euforica. “Ricorda di sorridere sempre - si ripeteva - arriverà il momento che non sarà più necessario ricordalo”.
Il nonno, con fare affettuoso, le aveva ripetuto quelle parole fino alla fine dei suoi giorni, ad ogni singolo risveglio della diletta nipote.
Bianca, con indescrivibile zelo, aveva quasi ultimato un arduo lavoro di traduzione per conto dell’ateneo lombardo, dipartimento di Scienza dell’Alimentazione.
Presto, sarebbe stato pubblicato, come inserto speciale, all’interno della prestigiosa rivista internazionale “LifeLife”. La ragazza, animata da incontenibile entusiasmo - l’argomento sembrava esserle piovuto addosso dal cielo - si era documentata sull’ambizioso piano sviluppato dall’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione assieme al “Cofee Sceince Information Centre”.
Il progetto, che in prima battuta si prefiggeva l’obiettivo di dare un supporto significativo alla conoscenza, era volto alla realizzazione di un modello “Info-Biologico” utile a stabilire, preventivamente, mediante una coerente combinazione di scienze mediche e informatiche, gli effetti prodotti dal caffè sullo stato fisico e psichico dell’organismo.
Quando si dice: “il caso” !!!
Non senza pensare al suo fantomatico coinquilino, che, indubbiamente, all’ascolto, sarebbe stato fiero delle proprie origini, aveva appreso che il caffè, se bevuto in giusta quantità … “si possono bere tranquillamente fino a quattro tazzine al giorno - puntualizzavano gli esperti”, giova al benessere dell’uomo.
“La presenza di numerose sostanze antiossidanti, di cui la principale è la caffeina, alcaloide del gruppo delle purine, ci consentono di affermare, senza esitazione alcuna, che il caffè fa bene alla salute. Non trascurabile, è, poi, il ruolo svolto dal caffeone, olio essenziale che si forma grazie alla torrefazione conferendo, alla bevanda, il caratteristico aroma …”. Aveva tradotto vivificata da nuova curiosità. Curiosità che andava ad aggiungersi a quella che la natura le aveva già abbondantemente donato! Lavorava, giorno e notte, senza darsi tregua. Con abilità e attenzione, ai limiti dell’inverosimile. Il peso della fatica? Non lo sentiva affatto!
Sapeva che prima avrebbe ultimato il lavoro, prima sarebbe tornata a casa.
Ico si consumava nell’attesa…
Era confuso, agitato.
Come si dice, con l’animo in preda ai marosi!
Ignaro dell’accaduto, cercava di immaginare Bianca con in mano il suo biglietto.
Pensava e ripensava a quello che avrebbe potuto provare leggendolo.
Viveva, tra alti e bassi, come a cavallo di una pericolosa curva ad andamento variabile.
“L’attesa consuma i giorni, essiccandoli come fiori al sole cocente. Disidratata la vita si spegne, tra infiniti frastuoni di un logorroico silenzio”.
Fortunatamente, non era da solo, poteva contare sulla presenza di Micione, amico spietatamente sincero, prezioso.
Vero e proprio toccasana.
E si … perché l’innamorato, suo malgrado, in quanto tale, perde qualunque facoltà di discernimento. Il più delle volte, quando non ha certezza d’esser ricambiato, l’attende un amaro risveglio, cui, spesso, va incontro da solo, depredato persino della capacità del pensiero che fugge via, lontano, da colui che si ama - colei, in questo “uni tragico” caso - strappandolo alla debole presa della ragione.
Al pari di Morfeo, Micione, cercava di allietare le notti di Ico donando il proprio aiuto incondizionato.
- Gatto anomalo!? -.
Offriva il proprio soffice pelo, accogliendolo nella più confortevole delle culle.
E quando nulla giovava a spedire l’amico all’indispensabile ristoro del sonno, ascoltava senza fiatare - pardon … miagolare - le struggenti liriche dedicate a Bianca.
«Non voglio più tediarti», disse il chicco.
«Credo molto nel valore chiarificatore e terapeutico della scrittura - rispose Micione, impettito e con fare serioso da docente universitario -. In tal senso, la poesia è utile, per comunicare con gli altri e, soprattutto, con se stessi».
Il gatto, aveva compreso che l’amico doveva continuare a scrivere. Così facendo, avrebbe potuto placare l’immane tristezza che punzecchiava il suo minuscolo cuore.
Un’altra lunga notte trascorse - in silenzio -.
Tutto appariva immobile, seppur le solide mura dell’antico edifico non riuscivano a contenere quel portentoso ciclone di sentimenti in subbuglio.
Di buon mattino giunse Valerio, aveva le chiavi perché doveva - così aveva promesso - prendersi cura del giardino.
Era in compagnia di Rosetta, una simpatica signora cicciotella, all’incirca cinquantenne. Dopo aver bagnato con cura le piante, schiuse tutte le finestre - non lo aveva mai fatto prima -.
Intanto Rosetta, fischiettando ad oltranza, prese a spazzare e spolverare ogni singola camera.
La donna, accese la vecchia radio piazzata quasi al centro del salotto, in prossimità del camino, inondando la casa di musica e buon umore.
I due - Ico e Micione - divennero euforici, capirono immediatamente che Bianca sarebbe tornata presto. Avrebbero voluto abbracciarsi per la contentezza.
Le sproporzioni fisiche - certo - impedivano il gesto, così presero a saltellare allo stesso irrefrenabile ritmo.
Quando rimasero da soli, Ico, cercò carta e penna.
Doveva scrivere.
Non poteva aspettare - non un secondo di più -.
«Ho percorso, cieco e scalzo, un cammino lastricato di spilli aguzzi, arrugginiti da fiumi di lacrime invisibili che ho versato in silenzio. Ho sempre saputo che saresti tornata. Ho atteso e sopportato il peso grave dell’assenza. Sfinito, ti accolgo e sfamo il mio dolore con il cibo della vita che mi rendi».
Com’era solito fare Micione ascoltò, senza interrompere la lettura.
I giorni si susseguivano trascinandosi dietro - come un’enorme palla al piede - il peso opprimente della monotonia.
E di Bianca … nessuna traccia!
Nei momenti di massimo sconforto, Ico andava a rifugiarsi tra i cuscini che campeggiavano sul letto della ragazza, alla ricerca di un respiro, di una traccia, di un odore familiare che potessero ricongiungerlo a lei.
L’amabile gatto, continuava, imperterrito, a vegliare sull’amico indifeso. Intimorito dall’oramai concreta possibilità di un’errata interpretazione dei fatti - erano trascorse due settimane dalla tanto decantata pulizia della casa - lo raggiunse.
Con passo felpato e, con voce suadente, disse: «Finché l’alba farà il suo esordio nei nostri cuori. Finché sarà vita, sarà inconsapevolmente gioia. La gioia di vivere tutte le giornate, belle e meno belle, che coronano l’esistenza all’insegna della consapevolezza dell’essere».
Lacrime trasparenti precipitarono in direzione del cuore.
Erano lacrime di contentezza, dettate dalla chiara certezza che nessun tesoro è più prezioso della lealtà di un amico.
E lesse, ancora e… ancora.
Con voce accorata.
Con quanto fiato aveva in gola.
Con il pensiero fisso, in direzione di quell’unica magistrale musicista. Colei che faceva vibrare le possenti corde del suo piccolo cuore in una sinfonia paradisiaca, eterna.
«“Speranza ciarlatana. Sovrasti l’animo, falciando i miei giorni. Eppur ti sento, presente, a ricolmare il vuoto per la tua assenza”».
Come per incanto, un fascio di luce bianca inondò la stanza.
Capriccio di una Luna piena - maestosa regina di un cielo stellato, in una limpida notte di luglio - che chiedeva di essere contemplata? O segno rivelatore?
Gli occhi verde smeraldo del gatto incrociarono quelli trasparenti dell’amico.
“E se Bianca - pensarono all’unisono - dopo aver udito, per chissà quale strana alchimia, abbia voluto rispondere inviando un segnale?”.
Nessuno dei due proferì parola. Sprofondarono nel sonno, l’uno accanto all’altro.
Sospesi - come per prodigio - da volontà e coscienza.
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