giovedì 28 maggio 2009

Invito al pensiero di Platone

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Dalla impronta delle riflessioni platoniche è profondamente segnato tutto il pensiero occidentale (da qui il giudizio di Witehead secondo il quale la storia della filosofia occidentale non è che un seguito di chiose e note in margine alle opere di Platone). In polemica sia con i naturalisti presocratici, impegnati in uno studio empirico della vita anziché in un tentativo di conoscenza di sé stessi, sia con i sofisti, dei quali critica la mancanza di fiducia verso una Verità superiore alle opinioni e il ruolo del filosofo come mero persuasore anziché come ponte verso la Verità stessa, Platone si pone come l'autentico erede di Socrate. Dal maestro egli riprende il procedimento, esemplificato nei dialoghi, della maieutica mirante a far partorire all'interlocutore stesso la Verità; l'idea che nessuno compie il male volontariamente ma solo per ignoranza del Bene; l'impossibilità di una definizione esatta delle virtù dell'etica greca; il problema dell'insegnabilità della virtù; la concezione della politica secondo giustizia.
Il cuore della filosofia platonica è rappresentato dalla dottrina delle idee, secondo la quale le idee non sono pure rappresentazioni mentali bensì entità veramente esistenti, immutabili e perfette, situate in una dimensione diversa dalla nostra, chiamata Iperuranio ("al di là del cielo"), esse si differenziano dalle cose, copie mutevoli e imperfette delle idee; oggetto della scienza mondana sono le cose dalle quali deriva una forma di conoscenza mutevole ed imperfetta che Platone chiama "opinione" (doxa), mentre dalla contemplazione delle idee scaturisce la Verità (epistème) immutabile e perfetta. La dimensione terrena e quella dell'Iperuranio sono messe in contatto dal filosofo, essendo egli l'unico in grado di intuire le idee, trattenerne il ricordo e potendo così proporre l'adesione della realtà (mondo) alla Verità (Iperuranio). Da qui l'esigenza di porre i filosofi al potere, nell'ambito di uno Stato ideale dominato dalla giustizia e in cui ogni classe e ogni individuo attenda al compito che gli è proprio. L'animo di ciascun individuo è diviso in tre parti (razionalità, irascibilità, concupiscibilità) ma solo una di queste è la dominante; l'emersione di una parte determina l'appartenenza dell'individuo ad una delle tre classi sociali (reggitori, soldati, produttori) che risolvono tutti i compiti di uno Stato (governo, difesa, economia). Dentro tale Stato è bandita la proprietà privata a favore della comunanza dei beni, in special modo per i governanti, cosicché essi, al di là dei loro propri interessi, attendano senza distrazioni alla gestione della "cosa pubblica". La comunanza dei beni è estesa sino ai rapporti interpersonali: comunanza delle donne (in un momento in cui esse sono viste unicamente come uno strumento ludico e, soprattutto, riproduttivo) e, conseguentemente, della famiglia.
L'armonia e il giusto rilievo dato a ciascuno di questi elementi realizza il fine ultimo dello Stato che è la giustizia e soprattutto il Bene, massima virtù.

(«Tabula Rasa», n. 0, 2003)

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martedì 26 maggio 2009

Immersioni

di Nadia Lisanti (nali.sole@libero.it)

Nella vita di un uomo, a volte, le ore diventano silenzi.

Era seduto sulla panchina della sua città, in attesa di un nuovo ciclo di fermate della linea 118, in direzione casa, e pensava alla donna incontrata quella mattina al bar.

- Lei crede di conoscermi?
- Non direi, è la prima volta che la incontro!
- Può capitare di riconoscersi, no?
- Non tutti i giorni, me lo lasci dire…

Due battute, e poi di quel volto diafano, comparso all’improvviso, dietro il gusto di un caffè ancora tutto da girare, così, senza soluzione di continuità, di quella donna senza età non rimaneva che un odore familiare. Non si erano sfiorati, non si erano toccati, e di lei sentiva tutto.
Come se in piccole e grandi parti di sé, quella donna avesse da sempre abitato, come se ogni parola spesa fino a quel giorno, non fosse stato che vano esercizio mentale, e che valesse la pena rimanere muti, per ascoltare soltanto il senso pieno di uno spazio vuoto. Quello in cui prima lei non c’era, quello in cui si sta soli, quello che ognuno di noi ha dentro per conoscersi attraverso i propri pensieri. In un’intimità così profonda e labile, una manciata di secondi e una virata, in senso diametralmente opposto, al tragitto verso casa, un uomo quel giorno viaggiava in se stesso. A volte, il senso di chi compie il nostro stesso cammino, è proprio questo: un là che ci accorda su ragioni del nostro sentire fino a quel momento presagite, eppure tralasciate.
Perché un uomo solo su una panchina, in un giorno qualunque della sua vita possa, insistentemente, pensare ad una donna dall’altra parte della città, o magari vicina, dietro le foglie e i rami delle sue osservazioni senza meta, a due centimetri dalle sue verità…? Perché una donna possa provare la sensazione di conoscere un uomo, a prima vista, in un giorno qualunque di un solito bar, e poi svanire dietro l’incertezza di non rivedersi più…?
Perché esistono stadi e gradi di conoscenza che hanno a che fare solo con l’acqua e si chiamano: immersioni.
Un uomo e una donna che non si conoscono oggi si pensano e questa straordinaria energia passa attraverso un mare di emozioni senza voce.

Dentro c’è uno spazio che il tempo non può scandire.
Fuori c’è un tempo che lo spazio non può contenere.
In tutto ciò che nutre l’anima,
in ogni anfratto della nostra coscienza,
c’è un desiderio di assenza.

Sulla panchina e in qualche punto della stessa città, in un giorno qualunque, due dimensioni parallele s’incontrano, nello spazio bianco delle ore.


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sabato 23 maggio 2009

Lettere

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Ringrazio un'amica (Roberta Carlesimo) per avermi fatto scoprire queste lettere (di Albert Einstein e di Luigi Pirandello) che testimoniano come, per ogni autentico pensatore, le idee non siano un passatempo, uno strumento per accreditarsi agli occhi degli altri, e/o per conquistare il potere, ma dei veri e propri valori, originanti un conseguente (e inevitabile per chi ne è portatore) stile di vita.

(Lettera di Albert Einstein a Max Talmud)

Caro Max,
è notte fonda. Oggi più che mai mi sembra difficile scriverti, consegnare forma d'inchiostro ai miei pensieri. Faccio fatica a comprendere appieno, ad accettare gli esiti delle indagini di cui ti parlavo nelle scorse settimane. Mi pare di riuscire ad intuire solo ora la portata rivoluzionaria e sofferta della Critica del Giudizio di Kant che tu, molto tempo or è, mi facesti leggere e che, allora, sembrò ai miei occhi contenere un mistero inafferrabile. Comprendo adesso cosa intendeva dire Kant allorché parlava di giudizi teleologici, assimilandoli alla scienza medesima, che io osavo ritener immune ed estranea a tutte quelle manchevolezze celate nell'arte, nella poesia, nella stessa filosofia. So adesso capire e accettare Mach e le sue considerazioni sulla natura meramente economica delle teorie scientifiche, quelle che un tempo bistrattavo sorridente, tronfio nel mio casello di certezze. Ora sono crollate. La relatività sconvolgerà il mondo, ma anzitutto ha sconvolto me e la mia vita: ciò che credevo eterno e inappellabile ora non è che un ricordo e muore ogni speranza di fondamento. E mi sento impazzire. Continuo a camminare avanti e indietro lungo questa stanza, per trovare anche solo qualche spiraglio di pace, nell'ansia del cuore per scriverti, per spiegarti. Mi sembra impossibile: la frenesia più cocente, l'ansia più assurda mi divora. Non so mettere freno ai pensieri, la mia mente non conosce riposo e vaga. Tutto ciò che abbiamo appreso fino ad oggi è solo un'illusione passata e bellissima, il castello della fisica classica si dissolve, crolla ogni certezza. Che cosa mi diresti se io ora, nel cuore di una follia notturna arrivassi a scrivere, tra queste righe dannate e infelici che è morto ogni assoluto. E lo spazio e il tempo e ciò che vedo esser dinanzi a me quale verità è tale solo ai miei occhi...? E se ti dicessi ora che, affannandoci a comprendere mille teoremi di geometria euclidea, ci siamo dimenticati di Lobačevskij, di Ruman, di Padre Saccheri. Dio solo sa quanto le loro parole mi tornano familiari oggi, mentre dinanzi ai miei occhi guardo l'abisso di una scienza da riedificare, di un sapere custodito per mill'anni, ora senza più fondamento.
Rimpiango Comte e la sua cieca fede ingenua nella scienza, la sua fiducia che non accettava domande, non chiedeva dimostrazione alcuna di postulati né leggi, invidio lui e il suo cuore bigotto, la sua mente che non si perdeva a scrutare il mistero d'attorno, che non seppe mai piangere, né provare angoscia, dinanzi al nulla, dinanzi al mistero del tutto, quel mistero che ignaro e inesplicabile resta a me, a te e ad ogni altra umana ragione.


Ti abbraccio forte,
ora più che mai,
Albert

(Lettera di Luigi Pirandello a Marta Abba)

Cara Marta,

ho ricevuto solo ora la tua lettera. "Mi domandi di me, Marta mia, ti lamenti che non ti parlo di me, di quel che faccio. Non faccio più nulla, Marta, sto tutto il giorno a pensare, solo come un cane, a tutto ciò che avrei da fare, ancora tanto, tanto, ma non mi pare che metta più conto di aggiungere altro a tutto il già fatto... Il tempo è nemico. Gli animi avversi. Tutto è negato alla contemplazione... Ma poi, nel segreto del mio cuore, c'è una più vera e segreta ragione di questo mio annientarmi nel silenzio e nel vuoto. C'era prima una voce, vicino a me, che non c'è più; una luce che non c'è più..." ... Quella luce Marta, quella luce sei tu e mi annienta questa tua assenza, la tua mancanza è la mia dannazione. "Bellotti mi descrive com'è stata a Roma la prima di Come tu mi vuoi ed il trionfo che Tu sei riuscita ad avere, con la coscienza della Tua forza e la perfezione della Tua arte, contro un pubblico più che ostile nella sua scarsità, freddamente preparato a seppellire il lavoro. Tu l'hai a poco a poco convinto e riscaldato, fino a vincere i più riluttanti e a strappare alla fine il grande applauso a scena aperta nel II atto. – Grazie, Marta mia, il trionfo è Tuo, a Roma come a Milano e da per tutto; "e io sono qui e vorrei esser con te e tu, tu continui a chiedermi perché mi ostino a tenerti lontana... ma "tu non hai compreso questo ritegno in me del pudore d'esser vecchio... e la vergogna dentro, la vergogna allora, come d'una oscenità, di sentirsi, con quell'aspetto di vecchio, il cuore giovane e caldo"... Cara Marta, io ti stringo comunque al cuore, oltre i confini di questa distanza. E mai, mai come ora sento il peso delle mie trionfanti parole d'un tempo, allorché sciocco amavo citare Nietzsche "I greci ergevano bianche statue contro il nero abisso per nasconderlo, io le ho distrutte per disvelarlo"... ed ora, ora cosa mi resta, se è vero che non c'è verità alcuna a cui appellarsi, allora come, come potrei difendere io questo nostro amore dagli occhi indiscreti di tutti? Come potrei dire che è vero, è vero che t'amo, se gli altri non potranno scorgere che ciò che ai loro occhi appare? E vorrei che tutto fosse diverso per stringerti, per stringerti un istante soltanto senza temere nulla, come se quell'amore fosse la nostra unica Verità. Ma lo so, lo so che non può essere, che ciò non può accadere, e la tua assenza, l'Amore per questa tua insostenibile mancanza è la mia condanna.

Ti stringo forte,

tuo Luigi


Ma l'aria è limpida come cristallo,

l'occhio arriva liberamente fino al cielo,
il mondo sta come nudo davanti a noi
Friedrich Wilhelm Nietzsche, Poesie e lettere

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giovedì 21 maggio 2009

La "crisi della capacità di giudizio"

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Sono molteplici gli effetti disumanizzanti prodotti dalle varie forme di totalitarismo, e sono molteplici le descrizioni che ne sono state offerte. Con lucidità, Hannah Arendt descrive tali effetti come l’annientamento degli uomini su tre diversi livelli. Il primo è dato dall’“uccisione del soggetto di diritto che è nell’uomo”. Questa forma di uccisione rappresenta il perfezionamento totalitario dello sfruttamento e della persecuzione politica proprie dell’imperialismo e corredate dal pregiudizio culturale e razziale tipico dell’antisemitismo moderno; il suo esito è quello della sottrazione dei diritti civili, e quindi di ogni tipo di protezione legale, a determinate categorie di persone. Il secondo livello risiede nell’“uccisione nell’uomo della persona morale”. Tale uccisione si esplica tramite la mortificazione della persona ed il relativo annientamento di ogni forma di dignità umana; questo fenomeno coinvolge tanto le vittime quanto i carnefici, poiché nei
Lager entrambi risultano spogliati della propria umanità. Il terzo livello consiste nella “uccisione dell’individualità”. Anch’esso si ripercuote sia sulle vittime che sui persecutori: così come i primi risultano disumanizzati ed infine eliminati, i secondi vengono assorbiti nella massa amorfa, atomizzata e fusa, generante un’indistinta Volksgemeinschaft(1).
Dalla sovrapposizione di questi tre elementi, l’uomo risulta non solo annichilito ma anche ricostruito: si assiste così alla nascita di un nuovo tipo d’uomo, inaugurante una mutazione antropologica senza precedenti. La perdita di un mondo comune rappresenta l’esito ultimo di quei processi disumanizzanti sopra descritti: l’eclissi di una dimensione plurale e condivisa, rinchiude il singolo in un isolamento che lo rende facile preda della logica dell’ideologia, ovvero di quell’

unica facoltà della mente umana che non ha bisogno dell'io, dell'altro o del mondo per funzionare, e che è indipendente dall'esperienza come dalla riflessione(2)

Tale logica fatta di rigida consequenzialità, si potrebbe sintetizzare in un fiat veritas et pereat mundus, irresponsabile nel suo estremismo. Quindi per perpetuarsi, l’ideologia non abbisogna né dell’uomo unico nella sua irripetibilità, né tanto meno di una pluralità di uomini, ma di un mero esecutore, ecco perché la fisionomia del cittadino “ideologgizzato” è quella dell’esemplare interscambiabile e, pertanto, in sé superfluo. Il cittadino-modello dello Stato totalitario è allora quell’individuo che fugge dalle responsabilità del Selbstdenken (leit motiv di tutta l’opera arendtiana), del pensiero e del giudizio autonomo. Egli diviene per tal via incapace di distinguere la realtà dalla finzione ideologica, che permea tutta la sua esistenza, spogliandolo di un qualsiasi convincimento autentico. In lui si riscontrano l’assenza del pensiero e l’atrofia della facoltà di giudizio, non v’è alcuna traccia, insomma, di quell’antico demone socratico-platonico che costringe al dialogo con se stessi. Il funzionario (la Arendt ha in mente quello dello Stato nazista) può, dunque, essere dipinto come una sorta di anti-Socrate che, incapace di pensare, non può fare altro che obbedire “cadavericamente” alle norme del contesto in cui vive, qualsiasi esse siano.
Evidentemente, il superamento di tale problematica richiede, innanzi tutto, il ripristino di un mondo comune che oggi, nell’età della globalizzazione, potrebbe avvenire solo tramite l’esercizio di un ethos universalistico. Ed all’interno di tale mondo comune deve caparbiamente essere combattuta ogni sorta di “fuga dalla realtà” (come fa la Arendt nei confronti dell’ideologia), quale forma di cieca complicità con il male (rischio questo dal quale deve guardarsi in modo particolare la filosofia, costantemente soggetta al pericolo dell’estraniazione dalla realtà effettiva). Insomma, la Arendt sembra affermare che l’“umanità dell’uomo” non è un dato, ma un progetto, ed in quanto tale può realizzarsi solo se viene scelto e praticato attraverso l’iniziativa umana; conseguentemente, il suo primo nemico è la passività, il cedimento passivo ai processi che ci inglobano(3). Contro un simile atteggiamento passivo, dagli esiti nichilistici, l’uomo è chiamato dalla Arendt ad esercitare la propria responsabilità attraverso risorse, forse fragili, ma propriamente umane, quali sostanzialmente, la capacità di essere un inizio, l’agire ed il parlare insieme in uno spazio comune e, soprattutto, la facoltà del giudizio. Ma cosa intende, più specificatamente, la Arendt quando parla di tale facoltà?
Nella Critica della ragion pratica, Immanuel Kant, tratta della facoltà legiferatrice della ragione, asserendo che il principio legislativo, espresso nell’“imperativo categorico” (“agisci sempre in modo tale che il principio della tua azione possa diventare una legge generale”), si basa sulla necessità che il pensiero razionale sia in accordo con se stesso. Tuttavia nella Critica del giudizio, che per la Arendt è la più grande opera di filosofia politica kantiana, viene sostenuta una diversa posizione. L’accordo razionale con se stessi viene qui ritenuto insufficiente per l’edificazione di una pacifica società, obiettivo per il quale risulta invece indispensabile la capacità di saper ragionare al posto dell’altro:

Il «modo di pensare ampio», l’apertura mentale, gioca un ruolo cruciale nella Critica del giudizio. Esso si realizza «paragonando il nostro giudizio con quello degli altri, e piuttosto coi loro giudizi possibili che con quelli effettivi, e ponendoci al posto di ciascuno di loro». La facoltà da cui ciò è reso possibile si chiama immaginazione. Il pensiero critico è possibile solo là dove i punti di vista di tutti gli altri siano accessibili all’indagine. Quindi il pensiero critico, purtuttavia un’occupazione solitaria (ossia, per un’illuminista quale Kant, un Selbstdenken), non ha reciso ogni legame con «tutti gli altri»… [Con] la forza dell’immaginazione esso rende gli altri presenti e si muove così potenzialmente in uno spazio pubblico, aperto a tutti i partiti e a tutti i confronti; in altre parole, adotta la posizione del kantiano cittadino del mondo. Pensare con una mentalità larga – ciò vuol dire educare la propria immaginazione a recarsi in visita(4)

In tal modo il giudizio rimane un atto in cui il soggetto è completamente solo, un Selbstdenken, ma diviene un atto soggiacente alla comunicazione (sia anticipata, come previsione, sia effettiva) con gli altri; solo in questi termini può nascere un accordo fra gli uomini. E’ per questo che il giudizio obbliga a trascendere le proprie limitazioni individuali, l’isolamento, la solitudine, in direzione del riconoscimento della presenza degli altri. Non può esistere il giudizio senza la presenza altrui. Ne consegue che ogni giudizio, pur avendo un valore specifico, non potrà mai avere un valore assoluto: non potrà mai avere un valore superiore a quello che hanno gli uomini che hanno partecipato alla sua elaborazione.

La differenza più decisiva tra la Critica della ragion pratica e la Critica del giudizio è che le leggi morali della prima sono valide per tutti gli esseri capaci di intelletto e di conoscenza, mentre la validità delle regole della seconda è strettamente circoscritta agli esseri umani sulla terra […] Dice Kant: il giudizio vale «per ogni singola persona che giudica»; ma l’accento cade su «che giudica»: non vale dunque per chi non giudica o per quanti non sono membri di quel mondo pubblico nel quale appaiono gli oggetti del giudizio(5)

Arriviamo così ad un aspetto determinante di tutta l’opera arendtiana: il giudizio è tutt’altra cosa rispetto alla sapienza, tipica del filosofo:

la differenza tra l’intuizione del giudizio e il pensiero speculativo è nell’avere il primo le sue radici in quello che chiamiamo di solito il common sense, mentre l’altro lo trascende sempre. Il common sense, che i francesi chiamano in modo così suggestivo «buon senso», le bons sens, ci svela la natura del mondo, in quanto patrimonio comune a tutti noi: grazie al buon senso, i nostri cinque sensi, strettamente privati e «soggettivi» e i dati da essi forniti, possono adattarsi a un mondo non soggettivo, ma «oggettivo», che abbiamo in comune e dividiamo con altri (Il senso comune: assai presto Kant ebbe la consapevolezza di un che di non-soggettivo in quello che sembra il senso più privato e soggettivo. Tale consapevolezza si esprime così: si dà il caso che le questioni del gusto [«il bello»] «interessano solo in società… Un uomo abbandonato a se stesso in un’isoletta deserta non ornerebbe né la sua capanna, né la sua persona… [L’uomo] non è appagato da un oggetto, se non ne può sentire la soddisfazione in comune con gli altri», mentre, invece, noi disprezziamo noi stessi se bariamo al gioco, ma ci vergogniamo soltanto quando siamo scoperti. O ancora: «In materia di gusto, dobbiamo rinunciare a noi stessi a favore degli altri» o al fine di piacere agli altri – Wir müssen uns gleichsam anderen zu gefallen entsagen). Il giudicare è una delle più importanti, se non la più importante attività nella quale si manifesti il nostro «condividere il mondo con altri»(6)

Dunque, per la Arendt, il giudizio è un’intuizione che non necessita di alcuna fondazione filosofica poiché nasce unicamente dal e nel confronto con gli altri, e che è potenzialmente propria di ogni uomo in quanto essere politico.
Risulta così maggiormente comprensibile la questione, che si affronterà tra poco, relativa alla radicalità ed alla banalità del male. Infatti, per il Kant de La religione nei limiti della semplice ragione, il radikale Böse non deriva dalla negazione della ragione, ma dalla corruzione della retta facoltà di giudizio. E’ per questo che quando la Arendt parla di “assenza di pensiero”, ciò va inteso come carenza della facoltà di giudizio, ovvero della facoltà politica per antonomasia, tanto importante quanto fragile. Ma diversamente da Kant, per il quale il male radicale è sempre potenzialmente vincibile grazie all’esercizio della virtù del ragionamento e quindi imputabile all’uomo quando ciò non avviene, la Arendt introduce un’innovativa nozione, definibile come una sorta di “imputabilità non soggettiva”. Esistono, cioè, delle strutture sistemiche nelle quali diviene impossibile attribuire la colpa morale (non quella giuridica) di un crimine ad un soggetto. Per esercitarsi infatti, la facoltà di giudizio ha preliminarmente bisogno di uno spazio comune, all’interno del quale gli uomini possano entrare in contatto fra loro tramite le proprie parole ed azioni; è stata proprio la carenza di tutto ciò ad avere innescato il male totalitario. Ma se sono queste le radici del male (anche di quello smisurato), allora esso non è mai né profondo né radicale, come rileva anche Karl Jaspers in una missiva di risposta ad una precedente lettera della Arendt:

Il suo modo di vedere la cosa mi sembra un po’ inquietante (la Arendt aveva affermato che la mostruosità dei crimini nazisti rendeva impossibile una loro valutazione in chiave giuridica, opinione che poi abbandonerà, mantenendo però l’idea di una non imputabilità morale) poiché la colpa, che sopravanza ogni crimine finora concepito, assume inevitabilmente […] un connotato di grandezza – di satanica grandezza – e ciò è assolutamente estraneo ai miei sentimenti nei confronti del nazismo, così come il discorso sul “demoniaco” in Hitler e simili. Mi sembra, poiché così è, che si debbano ricondurre le cose alla loro pura e semplice banalità, alla loro piatta nullità […] I batteri provocano epidemie capaci di annientare intere popolazioni, eppure restano batteri e nulla più. Provo paura quando mi accorgo che da qualche parte sta sorgendo un mito o una leggenda, e ogni oggetto indeterminato è già un oggetto del genere […]. Nel fenomeno nazista non c’è alcuna idea né alcuna sostanza (Da ciò si può anche notare come Jaspers abbia contribuito all’elaborazione del concetto arendtiano di “banalità del male”)(7)

Andando alla ricerca delle fondamenta del male, la Arendt giunge infine alla conclusione che esso ne è sempre sprovvisto, configurandosi pertanto come un ché di superficiale, di banale. Ma ciò non ne sminuisce l’atrocità, anzi la incrementa poiché mostra quanto sia facile e comodo etichettare il male come un qualcosa di “normale”, rinvenendo quindi senza difficoltà nella popolazione, personale a sufficienza per poterlo mettere in pratica. L’essenza dell’individuo nazista non è allora quella del fanatico e/o del folle, bensì quella del “borghesuccio” che compie ligiamente il proprio dovere, all’insegna di tutte le rispettabili abitudini del buon pater familias che si cura della propria moglie e si sforza di assicurare un buon futuro ai propri figli; egli è insomma un gran lavoratore ed un onesto padre di famiglia. La sua piccolezza e banalità, risiede nell’essere capace di tutto, purché venga sollevato da qualsiasi tipo di responsabilità («Credo sia stato Péguy a chiamare il padre di famiglia “grand aventurier du 20 siècle”, ma è morto troppo presto per imparare che quel tipo d’uomo era anche il grande criminale del secolo»(8)).
Seguendo come inviata del «New Yorker» il processo di Otto Adolf Eichmann a Gerusalemme, la Arendt ha potuto trovare in quell’ufficiale nazista una conferma delle sue tesi sulla banalità del male. L’incapacità di Eichmann di riflettere in modo autonomo e critico si palesa sin dalle sue credenze religioso-mitologiche: nell’aula del Tribunale infatti, egli si definisce come un Gottgläubiger, un “credente in Dio” che ha però rotto con il cristianesimo (si rifiutò infatti di giurare sulla Bibbia), intendendo Dio come un Höherer Sinnesträger, un “Essere razionale superiore” conferente significato alla vita umana, che altrimenti ne sarebbe priva. Ora, a parte il predisporre alla sottomissione ad un’autorità superiore (sottomissione risuonante apertamente nella definizione dell’«imperativo categorico nel Terzo Reich […] agisci in una maniera tale che il Führer, se conoscesse le tue azioni, le approverebbe»(9)), che addirittura dona senso alla vita, questa concezione mitologica è interessante anche da un punto di vista terminologico: avendo infatti i nazisti mutato il termine di Befehlsempfänger, “colui che riceve ordini”, in quello di Befehlsträger, “colui che porta gli ordini”, definire Dio un Höherer Sinnesträger, significa inserirlo nella gerarchia militare, e la manipolazione linguistica è palese anche quando Eichmann definisce ripetutamente la “soluzione finale” come “evacuazione” o “trattamento speciale”, la deportazione come un “cambiamento di residenza” e la sua stessa obbedienza al Führer come una “obbedienza da cadavere” (Kadavergehorsam). Ma Eichmann non è un caso isolato, anzi la sua incapacità di giudicare quanto accade intorno a lui è tipica di tutta la massa burocratica del Reich, composta da individui perfettamente normali, benché autori di azioni mostruose:

Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali […] Non era uno Jago né un Macbeth, e nulla sarebbe stato più lontano dalla sua mentalità che “fare il cattivo” come Riccardo III […] Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica – come già fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati e dai loro difensori – che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis humani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male(10)

La figura di Eichmann mette quindi in evidenza la pericolosità dell’incapacità di elaborare un autonomo e critico giudizio, l’assenza, o meglio, la corruzione del quale provoca allontanamento ed estraniazione dalla realtà effettiva; in quell’ufficiale nazista trovano applicazione e conferma (semmai ne avessero bisogno) i concetti chiave dell’etica socratica, secondo cui “nessuno pecca volontariamente” e “chi fa il male, lo fa per ignoranza del bene”: il male compiuto da Eichmann nasce dalla mancata comprensione della natura delle sue azioni (egli agì sempre eseguendo gli ordini, indipendentemente da quali essi fossero), che la Arendt definisce più dettagliatamente, rispetto al socratico termine di ignoranza, come una crisi della facoltà di giudizio, sempre possibile laddove venga meno uno spazio pubblico condiviso dagli uomini(11). Non a caso, anche negli ultimi istanti di vita prima dell’esecuzione, il gerarca nazista pronuncia meccanicamente ancora una volta quelle pompose frasi di rito che lo hanno accompagnato lungo tutta la sua carriera.

In quegli ultimi minuti era come se lo stesso Eichmann traesse il bilancio della lunga lezione di abiezione umana alla quale avevamo assistito. Il bilancio della spaventosa banalità del male di fronte alla quale la parola si blocca e il pensiero fallisce(12)

Ma la concezione arendtiana della banalità del male contiene in sé anche le possibilità del suo superamento, che può giungere solo interrogandosi sul significato del pensare.

La lezione che il Terzo Reich ci ha impartito riguarda la facilità con cui gli individui possono conformarsi a nuove regole, e questo indipendentemente dal fatto che esse prescrivano un “devi uccidere!” piuttosto che il suo contrario. I peggiori criminali del XX secolo sono stati uomini che non hanno pensato. Una conclusione sulla quale meditare, per non convivere in modo banale con l’assassino in cui ciascuno di noi potrebbe mutarsi(13)

Gli assassini non si sono mai percepiti come tali, paradossalmente, il più grande assassinio di massa della storia non è stato commesso da assassini, ma da professionisti che hanno svolto egregiamente e diligentemente il proprio dovere “lavorativo”. E ciò vale tanto per chi gli ordini li esegue, quanto per chi li progetta, anch’egli infatti si percepisce come un mero esecutore di un progetto superiore, ovvero, arendtianamente, come un esecutore di una ideologia, il ché rende del tutto superflua qualsiasi forma di confronto con gli altri, unica strada, invece, che permetterebbe una sana espansione della facoltà di giudizio. Se è questa la ragione di fondo, non solo della Shoah, ma di ogni atrocità, allora noi tutti dobbiamo guardarci dal ritenere queste forme di violenza delle parentesi della storia umana, oggi irripetibili. Il rischio del riprodursi, anche se in nuove vesti, di fenomeni analoghi è insito nella costante presenza, anche e forse soprattutto nel civile Occidente, di movimenti e partiti dichiaratamente e orgogliosamente intolleranti nei confronti degli “ebrei di turno”.

1) Per la descrizione di questi tre livelli di disumanizzazione cfr. H Arendt, Le origini del totalitarismo, Comunità, Torino 1999, pp. 612-629.
2) Ibidem, p. 654; per questo «visti attraverso le lenti dell’ideologia i campi hanno quasi il difetto di avere troppo senso, di attuare la dottrina con troppa coerenza», Ibidem, p. 626.
3) Questa prospettiva arendtiana ha molti punti di contatto con quella delineata da Martha Nussbaum in La fragilità del bene: come per la Arendt, anche per la Nussbaum, il destino dell’uomo è quello di dover agire all’interno di circostanze contingenti, rispetto alle quali ogni soggetto è chiamato a pronunciarsi, senza lasciarsene travolgere.
4) H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987, p. 551, parentesi mia; ed ancora: «Il gusto è questo “senso comunitario” (gemeinschaftlicher Sinn)», Ibidem, p. 563.
5) H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 550, e La crisi della cultura: nella società e nella politica, in Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1991, p. 283.
6) H. Arendt, La crisi della cultura: nella società e nella politica, in Tra passato e futuro, cit., p. 284, testo fra parentesi: H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 561.
7) H. Arendt – K. Jaspers, Carteggio, Feltrinelli, Milano 1989, p. 71, parentesi mie. Sulla transizione dalla radicalità alla banalità del male cfr. S. Forti, Banalità del male, in P. P. Portinaro, I concetti del male, Einaudi, Torino 2002: «l’obbedienza viene elevata a virtù […] diventa un fine in sé; uno stato permanente in cui le pecore perseguono il bene sottomettendosi costantemente ai loro pastori», p. 43.
8) H. Arendt, Colpa organizzata e responsabilità universale, in Ebraismo e modernità, Feltrinelli, Milano 2003, p. 71; per le riflessioni della Arendt sulla mentalità tedesca del periodo bellico cfr. The Aftermath of Nazi-Rule, in «Commentary», 10/10/50, ora in Zur Zeit, Rotbuch, Berlin 1986.
9) H. Frank, Die Technik des Staates, Deutscher Rechtsverlag, Berlin/Leipzig/Wien 1942, pp. 14-15, trad. mia.
10) H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano 1999., pp. 281, 290 e 282. E’ interessante notare come tale atteggiamento sia riscontrabile anche nell’odierno mondo del lavoro in cui, spesso, il lavoratore ignora il senso complessivo della propria attività, cfr. H Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1991, p. 263, nota 6; su tale questione cfr. anche la visione gehleniana dell’uomo come “titolare di funzioni” in A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, Armando, Roma 2003, soprattutto il Cap. VIII: Automatismi.
11) E’ però da specificare che la Arendt intende lo spazio pubblico come un luogo fisico nel quale gli uomini possano fisicamente incontrarsi; cosa accade nel momento in cui tale spazio pubblico diviene virtuale, telematico, lo hanno mostrato, per primi, gli autori della prima Scuola di Francoforte: gli strumenti tecnologici che filtrano i rapporti umani, sottomettono gli stessi ai principi della razionalità tecnologica.
12) H. Arendt, La banalità del male, cit, p. 259.
13) B. Assy, Eichmann, Riccardo III e Socrate, in E. Donaggio – D. Scalzo (cura), Sul male, Meltemi, Roma 2003, p. 179; cfr. anche C. Vallee, Hannah Arendt: Socrate e la questione del totalitarismo, Palomar, Bari 2006.

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sabato 16 maggio 2009

A Fanny

di Roberta Carlesimo (a.carlesimo@libero.it)

A Fanny,
che mi ha dato il coraggio di vivere
e mi ha strappato la vita un attimo dopo,
che mi regalato la gioia di un sogno
e il dolore del risveglio.

A te, Fanny,
che mi hai insegnato ad amare
oltre ogni limite,
oltre ogni ragione,
oltre me stesso.

A quella Fanny,
che vivida si muove ormai solo nei miei ricordi,
nascosta da uno sguardo bambino
nelle profondità del mio essere,
lì dove non so ancora riuscire ad odiarla,
mentre il mondo feroce, fuori, la consuma.

All'amaro della sua assenza,
una culla di lacrime per gli occhi miei.
Mesti sorrisi
questa mancanza che non ha nome,
che non si lascia colmare,
questo nulla che porta un poco della
sua Bellezza impalpabile e lontana,
perduta.

A Fanny Brawne

Mia cara ragazza, ti amo ancora e ancora e senza riserve...
In ogni modo possibile,
anche le mie gelosie non erano che agonie dell'Amore,
nelle fitte più intense che mai ho provato, sarei morto per te.
Tu sempre nuova.
L'ultimo dei tuoi baci era il più dolce,
l'ultimo sorriso il più luminoso,
l'ultimo movimento il più aggraziato.

John Keats

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mercoledì 13 maggio 2009

La politica al servizio dell'economia

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Buona parte delle possibilità di comprensione della società contemporanea passano attraverso la decifrazione delle relazioni che legano l’economia alla politica. A tale proposito risulta particolarmente interessante l’interpretazione marcusiana dei rapporti tra capitalismo e totalitarismo, un’interpretazione che scorge la genesi del nazismo nel passaggio dal capitalismo concorrenziale a quello monopolistico, nel quale industria partito ed esercito (la totalità della classe dirigente) sono sì distinti ma risultano accomunati dagli stessi interessi, incarnati dal Führer, e dalla conquista della sfera privata, e che vede nei totalitarismi del XX secolo un’aggressiva modificazione della forma del capitalismo ottocentesco.
All’interno della cosiddetta Scuola di Francoforte (quell’orientamento di pensiero che scaturisce dall’Istituto per la Ricerca Sociale) si sviluppa un’intensa analisi dei rapporti fra capitalismo e nazismo, che sfocerà nella successiva critica della società industriale avanzata.
Negli anni Quaranta Friedrich Pollock definisce il nazismo come la versione totalitaria del capitalismo di Stato(1), il quale rappresenta il nuovo ordinamento sociale del capitalismo monopolistico, a sua volta derivante dall’economia liberale del laissez faire. Il tratto fondamentale del capitalismo di Stato risiede nell’avere eliminato la causa decisiva delle crisi economiche, sopprimendo l’autonomia del mercato e creando così una forma duratura di organizzazione sociale. E’ per questa ragione che, per Pollock, il nazismo non sarebbe mai potuto crollare dall’interno, ma solo a causa di un fattore esogeno come, ad esempio, la sconfitta militare(2). Stimolato dalla, e sostanzialmente d’accordo con, l’ipotesi di Pollock sul capitalismo di Stato, Max Horkheimer contribuisce a tale dibattito con lo scritto Lo Stato autoritario (inizialmente avente come titolo Il capitalismo di Stato(3)), in cui specifica come la stabilizzazione economica statale avvenga tramite una trasformazione dei rapporti fra politica ed economia. Il potere politico, infatti, si fonde con quello economico, dando vita ad una nuova forma di potere impersonale, poiché non controllato né dai politici, né dagli imprenditori, ma dalla nuova figura sociale del manager, che diventa così l’emblema di una nuova era e di una nuova classe dominante. In disaccordo con la tesi del capitalismo di Stato si pone invece Franz Neumann, per il quale il capitalismo ha tutt’altro che risolto le sue contraddizioni interne(4). Tali contraddizioni sono state semplicemente spostate ad un livello più alto, e coperte da un imponente apparato burocratico e dall’ideologia völkisch. Esse, in verità, non solo permangono ma vengono perfino accentuate dal processo di monopolizzazione capitalistica, che rafforza il potere dei grandi “capitani d’industria” ed indebolisce i ceti medi e bassi. Secondo Neumann, il nazismo riesce a mantenersi economicamente dinamico e produttivo non perché abbia eliminato l’autonomia del mercato, come per Pollock ed Horkheimer, ma nonostante abbia eliminato i meccanismi del mercato: esso impone un potere politico totalitario che alimenta l’economia unicamente per soddisfare in maniera diretta ed immediata le proprie esigenze. Per Neumann il nazismo non è una forma di capitalismo di Stato, per il semplice fatto che il nazismo è un non-Stato, esso costituisce infatti

una forma di società in cui i gruppi dominanti controllano il resto della popolazione in modo diretto, senza la mediazione di quell’apparato coercitivo ancorché razionale fino ad oggi conosciuto come Stato(5)

Di fronte al dibattito francofortese sul nazismo, Herbert Marcuse cerca di operare una sintesi fra le diverse posizioni esistenti nell’Istituto(6), mosso dalla convinzione che lo Stato totalitario possa essere compreso e superato solo a partire dalla chiarificazione dei mutamenti sociali che, dall’età del laissez faire e passando attraverso le varie forme assunte dalla società industriale, ne hanno determinato l’avvento.
Il primo contributo di Marcuse allo studio del nazionalsocialismo è rappresentato dal saggio La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato, concepito come commento al discorso tenuto da Adolf Hitler nel 1934 agli industriali di Düsseldorf(7) In esso si sottolinea come le differenze fra liberalismo e Stato totalitario siano superficiali, nonostante il secondo si presenti in contrapposizione al primo, entrambi condividono infatti, essenzialmente, la credenza nelle leggi naturali, la radicale opposizione al marxismo e la difesa del modo di produzione capitalistico; le loro differenze sono meramente funzionali alla transizione dal capitalismo competitivo, basato sull’impresa individuale, a quello monopolistico, concentrante il potere economico nelle mani di pochi grandi trust,

si può dire che sia il liberalismo stesso a «generare» lo Stato totalitario ed autoritario, che ne è il perfezionamento in uno stadio avanzato di sviluppo. Lo Stato totalitario ed autoritario fornisce l’organizzazione e la teoria della società che corrispondono allo stadio monopolistico del capitalismo(8)

In altre parole, la concezione totalitaria dello Stato ha dato vita ad una forma di capitalismo meno competitiva e meno anarchica, non lasciante spazio all’attività individuale; tuttavia, come si è visto, ciò non comporta una rottura col passato liberale, poiché non risulta intaccata la precedente struttura economica, che viene anzi esaltata nella figura “eroica” del capitano d’industria:

La nuova concezione del mondo disprezza il «mercante» ed esalta il «geniale capitano d’industria»: così però maschera soltanto il fatto che essa lascia intatte le funzioni economiche del borghese […] Il pensiero carismatico-autoritario del capo è già prefigurato nella celebrazione del geniale capitano d’azienda, del boss «nato», compiuta dal liberalismo(9)

In un successivo lavoro, il nazismo viene definito come una forma di “tecnocrazia” poiché in esso la ricerca del profitto è stata gradualmente sostituita da quella dell’efficienza tecnica:

Nella Germania nazista il regno del terrore non è sostenuto solo dalla forza bruta, estranea alla tecnologia, ma anche dall’ingegnosa manipolazione del potere insito nella tecnologia […] Questa tecnocrazia terroristica non si può attribuire alle eccezionali esigenze dell’“economia di guerra”; quest’ultima non è che lo stato normale di quell’ordinamento nazionalsocialista del processo sociale ed economico, di cui la tecnologia rappresenta uno dei principali stimoli(10)

Inoltre, anticipando le riflessioni de L’uomo a una dimensione, Marcuse distingue qui fra “tecnica”, l’apparato dell’industria, dei trasporti e delle comunicazioni, in sé neutrale, e “tecnologia”, un determinato modo di produzione. Per questo la tecnologia è sempre

una forma di organizzazione e perpetuazione (o trasformazione) dei rapporti sociali, una manifestazione del pensiero e degli schemi di comportamento prevalenti e uno strumento di controllo e di dominio(11)

E la tecnologia, asservita al nazismo, rappresenta

Un esempio evidente delle modalità in cui un’economia altamente razionalizzata e meccanizzata e dotata della massima efficienza produttiva può operare nell’interesse dell’oppressione totalitaria(12)

Ma quali sono i tratti distintivi che caratterizzano lo Stato totalitario? Esso ha trasformato i rapporti economici in rapporti politici, conseguentemente lo Stato monopolizza l’economia, strumentalizzandola per i propri interessi:

il nazionalsocialismo ha soppresso i tratti distintivi che hanno caratterizzato lo Stato moderno. Esso tende ad abolire ogni separazione tra Stato e società attraverso il trasferimento delle funzioni politiche ai gruppi sociali attualmente al potere […] (il nazismo tende così) all’autogoverno diretto e immediato dei gruppi sociali dominanti sul resto della popolazione(13)

Se tale impostazione, da un lato porta evidenti vantaggi per i grandi cartelli industriali, a causa dell’identificazione immediata dei loro interessi con quelli statali, dall’altro richiede alle industrie l’abolizione d’ogni forma d’indipendenza: nello Stato totalitario non esiste nessuno scarto tra la politica e la società; tutte le relazioni sociali devono tradursi in relazioni politiche.

Le relazioni economiche, dunque, devono essere trasformate in relazioni politiche; l’espansione e il dominio di tipo economico non solo devono essere integrati, ma anche superati dall’espansione e dal dominio di tipo politico […] nella misura in cui le forze economiche diventavano direttamente forze politiche, esse perdevano il loro carattere indipendente. Esse potevano sbarazzarsi delle loro limitazioni e dei loro disordini interni solo rinunciando alla propria libertà(14)

L’abbattimento delle barriere che separano l’individuo dalla società richiede, inoltre, la conquista di una nuova frontiera del dominio: la sfera privata(15). Anch’essa deve infatti essere politicizzata facendo sì che il tempo libero sia, da un lato, asservito all’incremento della produttività e, dall’altro, costantemente controllato dal Reich, che previene così la formazione di un’eventuale pensiero critico nei suoi confronti.
Ed ancora, la classe dirigente dello Stato totalitario dispone di una specifica struttura multipla(16). Il potere è infatti diviso tra la grande industria, il partito e l’esercito, e tali forze si ritrovano, a volte, in conflitto fra loro; tuttavia, ciò che le tiene insieme è il comune interesse nella sopravvivenza del regime, emblematicamente rappresentato dalla figura del Führer. Egli si pone quindi come figura mediatrice fra le forze sociali, e solo in conseguenza di tale funzione (pertanto indirettamente) come “sovrano”; la sua autorità resterà inalterata solo fintantoché egli riuscirà a garantire il funzionamento dello Stato.

Lo Stato nazionalsocialista emerge in questo modo come la sovranità tripartita dell’industria, del partito e dell’esercito, che si sono divisi fra di loro quello che un tempo era il monopolio della forza legittima […] Gli attuali gruppi al potere non credono nelle ideologie e nel potere misterioso della razza, ma seguiranno il Führer fintantoché egli resterà ciò che è stato fino ad ora, il simbolo vivente dell’efficienza(17)

L’attenzione di Marcuse non è però rivolta solo ai meccanismi politico-economici che tengono in vita il nazionalsocialismo, ma anche al suo impatto sociale, da cui si sviluppa un nuovo tipo di razionalità: la “razionalità tecnica”. Essa rappresenta l’uso della razionalità come strumento di dominio di massa, e deriva dall’applicazione a tutte le relazioni umane dei meccanismi tipici del processo tecnologico: nello Stato nazista tutte le relazioni sociali sono all’insegna dei criteri della velocità, della produttività e dell’efficienza.

Questa razionalità funziona secondo criteri di efficienza e precisione, ma nello stesso tempo è separata da tutto ciò che la lega ai bisogni umani e ai desideri individuali, ed è interamente adattata ai bisogni di un dominio onnicomprensivo. I soggetti umani e il loro lavoro organizzato in modo burocratico sono solo mezzi per un fine oggettivo: il mantenimento dell’apparato con un grado sempre crescente d’efficienza(18)

Questo Stato funziona, quindi, come una grande impresa, come «un gigantesco cartello monopolistico che è riuscito a controllare la competizione interna e a sottomettere le masse dei lavoratori»(19). Per questo, il fatto che il nazionalsocialismo faccia ricorso a dei principi mitici (che per Marcuse costituiscono il “livello mitologico” della nuova mentalità tedesca) che si contrappongono ai principi fondamentali della civiltà occidentale, non significa che il nazismo sia l’inevitabile risultato delle radici culturali irrazionali del mondo germanico, affondanti sostanzialmente in Martin Lutero, Johann G. Herder e Friedrich Nietzsche(20), al contrario, il livello mitologico della nuova mentalità tedesca svolge il ruolo di “comunità linguistica sovra-tecnica”, mascherando l’avvento della razionalità tecnica. La nuova mentalità tedesca ha quindi poco in comune con quella precedente, di cui si spaccia come restaurazione, ed è invece simile a quella delle moderne democrazie occidentali. Inoltre, è estremamente interessante il fatto che Marcuse avesse previsto come il superamento della forma mentis nazista sarebbe avvenuto solo proponendo, in alternativa a quella nazista, una società altrettanto efficiente ma in grado di conservare le libertà politiche liberali, che il nazismo ha dovuto abolire(21); viene per tal via previsto l’insorgere di quella società consumistica, successivamente descritta ne L’uomo a una dimensione.
Non c’è pertanto da stupirsi se l’adesione di Martin Heidegger al nazismo segna la fine dei rapporti personali di Marcuse con il suo primo maestro. Significativa a questo proposito è la risposta che, nell’ambito di un carteggio risalente al 1947-’48, il filosofo francofortese dà all’autore di Essere e tempo, dopo che quest’ultimo ha equiparato il genocidio ebraico perpetrato dai nazisti alla deportazione dei tedeschi dell’Est operata dagli Alleati:

Con questa affermazione Lei non si pone al di fuori della dimensione in cui, in generale, ogni conversazione è possibile – fuori dal Logos? Perché solo fuori della dimensione della «logica» è possibile spiegare, relativizzare, «comprendere» un crimine, affermando che gli altri hanno fatto la stessa cosa. Ed ancora: com’è possibile mettere sullo stesso piano la tortura, la mutilazione, l’annichilimento di milioni di uomini, con il trasferimento forzato di gruppi di popolazione che non hanno sofferto nessuno di questi oltraggi (a parte forse casi molto eccezionali)?(22)

Marcuse ritiene, insomma, il totalitarismo una tappa (quella specificatamente tedesca) della generale evoluzione del sistema capitalistico-industriale che, in contesti diversi, si manifesta in forme storiche diverse (come ad esempio, il liberalismo, il nazi-fascismo, il comunismo sovietico(23) ed il consumismo). Conseguentemente per Marcuse, non sono adeguati i criteri con i quali si delinea e si identifica, abitualmente, una forma sociale totalitaria.

Il termine «totalitario», infatti, non si applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione economico-tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti. Essa preclude per tal via l’emergere di una opposizione efficace contro l’insieme del sistema. Non soltanto una forma specifica di governo o di dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e di distribuzione, sistema che può essere benissimo compatibile con un «pluralismo» di partiti, di giornali, di «poteri controbilanciantesi», ecc.(24)

L’avere interpretato il totalitarismo novecentesco come uno stadio del complessivo sviluppo capitalistico-industriale, consente a Marcuse di intravedere, negli anni Settanta, l’avvento di una nuova fase di tale sviluppo(25), prefigurando quel fenomeno oggi chiamato “globalizzazione”.

1) Cfr. F. Pollock, Capitalismo di Stato: possibilità e limiti, in Teoria e prassi dell’economia di piano, De Donato, Bari 1973.

2) Cfr. F. Pollock, Il nazionalsocialismo è un ordine nuovo?, in G. Marramao (cura), Tecnologia e potere nelle società post-liberali, Liguori, Napoli 1981.

3) Cfr. M. Horkheimer, Lo Stato autoritario, in La società di transizione, Einaudi, Torino 1979; per l’inquadramento di questo saggio nell’ambito dell’ampio dibattito tedesco sullo “Stato totale”: C. Galli, Strategie della totalità, in «Filosofia politica», n. 1, 1997.

4) Cfr. F. Neumann, Behemoth, Mondadori, Milano 1999.

5) Ibidem, p. 512.

6) Le diverse interpretazioni del nazismo segnano, probabilmente, la fine della Scuola di Francoforte come orientamento unitario di pensiero, facendo emergere tutte le differenze teoriche dei vari intellettuali orbitanti attorno all’Istituto per la Ricerca Sociale.

7) Cfr. J. Habermas, Dialettica della razionalizzazione, Unicopli, Milano 1983.

8) H. Marcuse, La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato, in Cultura e società, Einaudi, Torino 1969, p. 19.

9) Ibidem, pp. 11 e 18.

10) H. Marcuse, Alcune implicazioni sociali della moderna tecnologia, in G. Marramao (cura), Tecnologia e potere nelle società post-liberali, cit., p. 138.

11) Ibidem, p. 137.

12) Ibidem, p. 138.

13) H. Marcuse, Stato e individuo sotto il nazionalsocialismo, in Davanti al nazismo, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 15, parentesi mia; questo saggio nasce dalla rielaborazione del testo di una conferenza tenuta nel 1941 presso la Columbia University di New York, all’interno di un ciclo di conferenze organizzate dall’Istitute of Social Research, cui seguirono, fra gli altri F. Neumann (The New Rulers in Germany) e F. Pollock (Is National Socialism a New Social and Economic System?).

14) Ibidem, pp. 19-21.

15) A questo proposito cfr. E. Jünger, La mobilitazione totale, in «Il Mulino», n. 5, 1985, e C. Galli, Ernst Jünger: la mobilitazione totale, in Modernità, Il Mulino, Bologna 1988.

16) La descrizione di tale struttura è mutuata dal Behemoth di Neumann.

17) H. Marcuse, Stato e individuo sotto il nazionalsocialismo, in Davanti al naziosmo, cit., pp. 22-23.

18) Ibidem, p. 24; affine a questa linea di pensiero è anche l’interpretazione offerta dal testo di Z. Bauman, Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna 2002, per il quale l’Olocausto può essere visto come «un raro, ma tuttavia significativo e affidabile, test delle possibilità occulte insite nella società moderna […] di fronte all’efficienza fattuale dei più celebrati prodotti della civiltà: la sua tecnologia, i suoi criteri razionali di scelta, la sua tendenza a subordinare pensiero e azione alla pragmatica economica ed efficientista. Il mondo hobbesiano dell’Olocausto […] è apparso sulla scena […] a bordo di un veicolo uscito da una fabbrica, cinto di armi che soltanto la tecnologia più avanzata è in grado di produrre, eseguendo un itinerario tracciato da organizzazioni gestite con criteri scientifici. La civiltà moderna non è stata la condizione sufficiente dell’Olocausto, ma ha rappresentato senza alcun dubbio la sua condizione necessaria», pp. 30-32.

19) H. Marcuse, Stato e individuo sotto il nazionalsocialismo, in Davanti al nazismo, cit., p. 27.

20) Cfr., ad esempio, P. Viereck, Dai romantici a Hitler, Einaudi, Torino 1948.

21) Cfr. H. Marcuse, La nuova mentalità tedesca, in Davanti al nazismo, cit.

22) H. Marcuse, Carteggio con Heidegger, in Davanti al nazismo, cit., p. 133. Il carteggio venne pubblicato per la prima volta in lingua originale (tedesco) sulla rivista «Pflasterstrand», n. 279/280, 1985, e tradotto in italiano in «Fenomenologia e Società», n. 1, 1989; in entrambi i casi, però, è assente la lettera di Heidegger, e quelle di Marcuse sono mancanti di alcuni periodi, mentre, nel volume, da cui è tratta la citazione, si traducono integralmente le lettere di Marcuse, così come appaiono in P.-E. Jansen (cura), Befreiung Denken – Ein politischer Imperativ, Verlag 2000, Offenbach 1990, rimane però assente quella di Heidegger, pubblicata parzialmente in «Reset», n. 50, 1998.

23) Sebbene Marcuse critichi la riduzione del marxismo ad ideologia positiva (cfr. H. Marcuse, Soviet Marxism, Guanda, Parma 1968), egli però rifiuta l’equiparazione arendtiana di comunismo e nazismo, continuando a riporre fiducia nelle potenzialità “umanistiche” del comunismo marxiano originario.

24) H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967, p. 17; tale posizione avvicina Marcuse ad Emmanuel Lévinas e Vladimir Jankélévitch che, già dagli anni Trenta, interpretano il totalitarismo come l’evento nientificatore per eccellenza della moderna umanità occidentale, cfr. E. Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, Macerata 1996, e V. Jankélévitch, Il nazismo e l’essere, in «Micromega», n. 5, 2003.

25) Cfr. H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta, in La dimensione estetica e altri scritti, Guerini, Milano 2002.

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martedì 12 maggio 2009

Il totalitarismo in Hannah Arendt

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Capitalismo e totalitarismo sono i due fenomeni sociali della modernità ad essere stati maggiormente indagati, da molteplici prospettive, dalle scienze umane. Ma è presente, ed eventualmente di che natura è, una correlazione tra i due?
Secondo Hannah Arendt, la modernità si apre con l’affermazione dell’homo faber, successivamente sostituito dalla figura dell’animal laborans. Infatti, all’inizio dell’epoca moderna le attività del fare e del fabbricare, peculiari dell’homo faber, sono divenute centrali nella vita dell’uomo.


Ciò era abbastanza naturale, dato che era stato uno strumento, e quindi l’uomo nella sua veste di creatore di strumenti, a condurre alla rivoluzione moderna. Da allora in poi, ogni progresso scientifico è stato connesso allo sviluppo di attrezzi e strumenti sempre più perfezionati(1)


La modernità nasce quindi nel segno delle prerogative del fare e del fabbricare, massimamente enfatizzate dall’esperimento: «L’uso dell’esperimento a fini conoscitivi fu già la conseguenza della convinzione che si può conoscere solo ciò che si fa»(2). Tutto ciò conduce alla svolta dalle questioni del “che cosa” e del “perché” qualcosa è, alla questione del “come” qualcosa possa essere, spostando così l’attenzione della conoscenza sui processi e sui mezzi di produzione.


Dal punto di vista dell’homo faber, è come se il mezzo, il processo di produzione o di sviluppo, fosse più importante del fine, del prodotto finito(3)


Una delle conseguenze più vistose di tale visione del mondo, è l’abbandono del tentativo di comprensione di tutto ciò che non è prodotto dall’uomo, ed il relativo volgersi dell’attività conoscitiva solo sulle produzioni umane, e tale prospettiva, essendo quella dominante nella società, viene applicata anche ai processi formativi e regolativi della società stessa: ai sistemi politici. Ora, secondo la Arendt, Thomas Hobbes è stato il primo pensatore della modernità ad avere applicato le prerogative dell’homo faber alla politica, mosso dalla convinzione che uno Stato si possa fabbricare come un qualsiasi artificiale prodotto umano, sostituendo così al consenso dialogico fra i cittadini (tipico della cultura greca antica) la figura del “sovrano definitore” dal quale (e solo dal quale) dipende la determinazione e l’imposizione, tramite il “timore della spada”, delle norme della convivenza.


In altre parole, il processo che […] invase le scienze artificiali con l’esperimento, nel tentativo di imitare in condizioni artificiali il “fare” attraverso il quale una cosa naturale si forma, serve altrettanto bene o anche meglio come principio del fare nel dominio delle cose umane. Infatti qui i processi della vita interiore, individuati nelle passioni attraverso l’introspezione, possono diventare i criteri e le regole per la creazione della vita “automatica” di quell’“uomo artificiale” che è “il grande Leviatano”(4)

Dunque, in tutti i versanti della modernità sono inscritti gli atteggiamenti tipici dell’homo faber, tra i cui principali troviamo: la strumentalizzazione del mondo, la riduzione di ogni cosa al principio dell’utilità, la visione della natura come fondo a cui attingere, il disprezzo per ogni forma di pensiero che non sfoci nella produzione di oggetti e strumenti, e la «identificazione acritica della fabbricazione con l’azione»(5); tuttavia, la figura dell’homo faber è andata progressivamente dissolvendosi, essenzialmente per due motivazioni. In primo luogo, a causa della ritorsione del criterio d’utilità contro lo stesso homo faber, infatti, poiché la massima utilità di uno strumento risiede nella sua capacità di conferire soddisfazione all’uomo, viene meno la centralità della fabbricazione e diviene primaria la ricerca del piacere. In secondo luogo, per il fatto che l’evoluzionismo ha scardinato la visione meccanicistica del mondo, tipica dell’homo faber.
Ma cosa è avvenuto successivamente alla disfatta dell’homo faber? Per rispondere va prima ricordato come in tutta l’età moderna sia sempre stato presente, e tuttora lo è, un elemento concettuale derivante direttamente dal cristianesimo: la sacralità della vita. La credenza


nella sacralità della vita è sopravvissuta (senza mai esserne scossa) alla secolarizzazione e al generale declino della fede. In altre parole, la rivoluzione moderna seguì e lasciò immutata la più importante rivoluzione con cui il cristianesimo aveva fatto irruzione nel mondo antico, una rivoluzione di portata più grande e, storicamente, più durevole di qualsiasi specifico contenuto o credenza dogmatici(6)

Sacralizzare la vita significa elevare, al di sopra di qualsiasi altro possibile bene, la soddisfazione dei bisogni e delle necessità della vita terrena, conferire all’evasione di bisogni e necessità organiche il rango di massima attività umana e, conseguentemente, svalutare l’attività politica poiché in essa non risulta presente il soddisfacimento immediato delle priorità biologiche, al servizio delle quali, anzi, la politica va posta. La politica diviene così uno strumento finalizzato alla cura ed alla tutela della vita. Quanto a fondo tale credenza cristiana, in cui è senz’altro presente un’eredità ebraica, sia radicata nel mondo occidentale risulta comprensibile dal fatto che solo dopo l’avvento del cristianesimo, la vita terrena divenne ciò che tuttora è: il più alto bene dell’uomo. Tutto questo, oltre alla già citata svalutazione dell’azione politica (anticamente intesa) in favore della gestione della vita privata, determina un ulteriore effetto: una prima rivalutazione, rispetto all’antichità, dell’attività lavorativa, del lavoro finalizzato al sostentamento biologico, obiettivo, quest’ultimo, che nella modernità diviene quello principale, fino a restare l’unico, della vita dell’uomo.
Ora, il cristianesimo non elaborò mai una definitiva esaltazione del lavoro su qualsiasi altra attività umana, infatti:


La ragione per cui il cristianesimo, nonostante la sua insistenza sul carattere sacro della vita e sul dovere di mantenersi in vita, non sviluppò mai una positiva filosofia del lavoro risiede nella indiscussa priorità data alla vita contemplativa su tutti i generi di attività umana. Vita contemplativa simpliciter melior est quam vita activa, e quali che possano essere i meriti di una vita attiva, quelli di una vita dedicata alla contemplazione sono “più effettivi e più efficaci”(7)

Tuttavia, nonostante il venire meno, nella modernità, della vita contemplativa


l’epoca moderna continuò ad operare sul presupposto che la vita, e non il mondo, è il bene più alto per l’uomo […] Per quanto siano stati meticolosi e coscienziosi i pensatori moderni nei loro attacchi alla tradizione, la priorità della vita su qualsiasi altro valore aveva acquistato per essi il carattere di una “verità immediata”, e come tale è sopravvissuta nel nostro mondo, che ha già cominciato a lasciarsi dietro l’epoca moderna e a sostituire a una società di lavoro la società degli impiegati(8)

Insomma, poiché nell’età moderna la vita rimane il bene più alto e poiché in tale età la vita attiva non risulta più essere inferiore a quella contemplativa (fatto questo che frenava l’ascesa dell’attività lavorativa), il lavoro assurge al grado di massima attività umana. Si sono così venute a creare le condizioni ideali per la vittoria dell’animal laborans.
Questa vittoria si completa definitivamente tramite il processo di secolarizzazione che, facendo perdere la certezza di un futuro mondo ultraterreno, provoca il ripiegamento dell’uomo su se stesso, con il relativo interesse solo per gli appetiti, i bisogni e i desideri corporei. L’immortalità diviene un attributo tipico non più del corpo politico, come nell’antichità, né della vita ultraterrena, come nel Medioevo, ma della specie umana. Inoltre, la vittoria dell’animal laborans viene favorita anche dal marxiano spostamento d’accento teoretico, dall’individuo all’uomo socializzato, categoria questa che descrive l’umanità non come una pluralità di uomini, bensì come un unico essere sociale, il cui scopo è quello di mantenersi in vita:


la vita individuale divenne parte del processo vitale, e lavorare, assicurare la continuità della propria vita e di quella della propria famiglia (e della propria specie), fu tutto quanto bastava(9)

Per tal via il pensiero si trasforma in mero “calcolo” finalizzato alla sopravvivenza («col risultato che gli strumenti elettronici adempiono queste funzioni molto meglio di noi»(10)), il lavoro in impiego funzionale alla vita della specie, e ogni attività in un processo rivolto unicamente al mantenimento della vita.
Insomma, l’uomo ha esplicitamente allontanato da sé la capacità di costruire partecipativamente il mondo fin dal Leviatano e dal Contratto Sociale, opere nelle quali l’azione politica è intesa come un ché di cedibile ad altri, cioè a quei pochi che sono in grado di amministrarla poiché ne conoscono i “mitici” fondamenti eterni e indiscutibili; così, la politica moderna si allontana dalla politeia, dalla compartecipazione della cittadinanza, divenendo un sistema di norme e regole, scaturenti da un’autorità superiore. L’umanità si è progressivamente spinta in una condizione di assenza di un mondo comune, nel quale potersi dare autonomamente dei precetti pratici, oscillando così fra una solitudine individualistica ed un’anonima massificazione. Si è pertanto persa la centralità di quel mondo comune che


è la dimensione politica che salva dall’alienazione propria dei regimi totalitari, dall’isolamento dell’individuo su cui s’instaurano sia il sospetto reciproco generalizzato, sia la devozione al leader e al regime promossa dall’ideologia(11)

Per questo il laborans non è un homo, ma è propriamente un animal: esso si cura solo delle sue funzioni animali (nascono da qui le questioni della ricerca di gratificazioni consumistiche come compensazione del quotidiano malessere, e della mancata comprensione teorica di tutto ciò, con relativa inibizione di una prassi liberatrice).
Dunque, sia nel fabbricare dell’homo faber (figura antropologica tipica della rivoluzione scientifica), sia nel lavorare dell’animal laborans (figura antropologica tipica della società capitalistica ed industrialmente avanzata), si giunge, seppur per motivazioni diverse, allo stesso esito: la perdita del significato politico antico dell’azione; in entrambe queste figure della modernità è presente il rischio (se non addirittura la certezza) del totalitarismo, inteso come conseguenza della spoliticizzazione della vita.
In sintesi, per la Arendt, il termine totalitarismo descrive una forma politica radicalmente nuova e incomparabile con le forme storicamente precedenti di regime autoritario. Nella sua genesi politica, lo Stato totalitario è stato favorito da determinate pre-condizioni (che la Arendt individua essenzialmente nell’antisemitismo e nell’imperialismo), si è sviluppato attraverso specifici meccanismi (fra cui i principali sono l’uso della violenza e del terrore, la presenza di un partito unico, l’assoluta centralità della figura del capo e, soprattutto, l’elemento ideologico) ed è pervenuto ad una sospensione del diritto, funzionale alla destrutturazione e ricostruzione dell’umano (come è avvenuto in ogni “campo di sterminio”).


1) H. Arendt, Vita acticva, Bompiani, Milano 1991, p. 219.
2) Ivi.
3) Ibidem, p. 221.
4) Ibidem, p. 222.
5) Ibidem, p. 227.
6) Ibidem, p. 234.
7) Ibidem, p. 237; la Arendt attribuisce principalmente all'opea di Tommaso d'Aquino (del quale cita frequentemente la Summa theologiae) la "vittoria" della vita contemplativa su quella attiva.
8) Ivi.

9) Ibidem, p. 239, parentesi mia.
10) Ibidem, p. 240.
11) E. Pasini, Alienazione, in P. P. Portinaro (cura), I concetti del male, Einaudi, Torino 2002, p. 15.

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