di Fulvio Sguerso (fulviosguerso@libero.it; IV di 4)
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Malgrado la globalizzazione, la libera circolazione delle merci, del danaro, delle idee, e degli esseri umani (ma anche delle armi) da una parte all’altra del Pianeta; malgrado la Rete su cui viaggiano continuamente informazioni e messaggi d’ogni genere, tanto che è diventato un problema distinguere le notizie vere dalle false; malgrado l’ormai universale diffusione di Facebook, Instagram et similia; malgrado, soprattutto, la fine del colonialismo e della guerra fredda (ma ne siamo sicuri?) tra le due superpotenze nucleari USA e Russia, l’umanità è pur sempre dilacerata da conflitti che appaiono insanabili: sembra – nonostante i “miracoli” del progresso scientifico-tecnologico che ci hanno semplificato e complicato al tempo stesso la vita – di essere tornati ai tempi bui delle guerre di religione.
Come è ancora possibile questo stato di guerra permanente dopo le due guerre mondiali e le atrocità che hanno così tragicamente segnato il secolo scorso? E come è possibile uccidere e uccidersi ancora in nome di un Dio di cui un filosofo tedesco di fine Ottocento aveva annunciato la morte? Girard risponde a queste domande ponendone altre: qual è la responsabilità dei monoteismi e dei relativi ritualismi nel perpetuare il conflitto tra “credi” diversi? Quanto pesa il letteralismo religioso di massa nella separazione conflittuale tra le fedi monoteiste? «E ci domandiamo quanto le “credenze”, o il “crederci”, che al ritualismo ci sembrano connessi, ostacolino la domanda, ed eventualmente addirittura impediscano quell’“accorgersi” del soggetto rappresentativo che sarebbe un risveglio atto a smontare, o quanto meno a rimodellare, quanto appunto in passato era stato oggetto del suo “crederci” assoluto».
Per comprendere questo importante passaggio che leggiamo nel paragrafo 3.2 “Il monoteismo divide?”del capitolo dedicato al Credo come fondamento identitario antagonistico è necessario il riferimento alla distinzione girardiana tra “soggetto di coscienza” e “soggetto rappresentativo”: il primo è il soggetto protagonista di quella che Girard definisce “psicologia forte”, basata sul dualismo soggetto-oggetto, vero-falso, amico-nemico, fedele-infedele, ecc. che ha dominato la cultura e la mentalità prevalente del secolo scorso e delle epoche che non mettevano in discussione né i valori né le certezze acquisite ed erano fondamentalmente centrate sul “credere”; il secondo, espressione di una psicologia debole in quanto non più basata sulla metafisica e sulla logica escludente dell’ aut-aut , del “o con me o contro di me”, del tertium non datur, ecc. è detto rappresentativo «perché si rappresenta, o appunto si accorge, che la struttura metafisico-duale delle cose si rende evanescente perché i più consueti paradigmi logici centrati sull’“esclusione dell’opposto” sono variamente saltati». Ora, che cosa risponde l’autore alla domanda messa come titolo al paragrafo sopra citato? Risponde anzitutto distinguendo due monoteismi: c’è un monoteismo identitario e “metodologico” che mantiene «uno stacco separatorio tra le religioni “monoteistiche”, in cui ciascuna religione adora una versione “propria” di Dio in quanto qui predomina l’“identità” che è prodromo ineluttabile di differenza e spesso di conflitto».
Ma c’è, o meglio, potrebbe esserci anche un Monoteismo (che Girard scrive con la maiuscola) unificante, che, invece di dividere, raccoglie tutti i credenti in una sorta di universale ecumene. Come ha scritto il politeista romano Simmaco, nel IV secolo: «È giusto ritenere Uno ciò che tutti adorano. Guardiamo gli stessi astri, il cielo è comune a tutti, lo stesso mondo ci comprende. Che cosa importa con quale pratica ciascuno ricerca il vero? Ad un segreto tanto grande non si può pervenire per una sola strada». Qualcuno potrebbe intravedere in Quinto Aurelio Simmaco un lontano ispiratore del Concilio Vaticano II; certo è che, se nemmeno le chiese cristiane sono riuscite a unificarsi in una sola ecclesia, è lecito domandarsi, come fa Girard, se potrà mai esistere «una partecipazione di credi, di riti, tali da superare l’ostacolo dell’identità e da risultare in un Monoteismo che non divida, che non susciti guerre, massacri, sempre giustificati da un valore».
Purtroppo questo Monoteismo ecumenico è rimasto il sogno di santi, mistici e poeti che vedevano, aldilà delle liturgie delle diverse religioni e della lettera dei loro testi sacri, l’unico Dio, padre eterno che fa sorgere il Sole e manda la sua pioggia benedetta su tutti, fedeli e infedeli, giusti e ingiusti, credenti e non credenti…
Ragione per cui: «Forse solo uno “spirito collettivo” di tono junghiano – o come si è già visto un politeismo paradigmatico in grado di separare il politico dal religioso – poteva sottrarre l’estrinsecazione storica dei poteri dall’ambito delle religioni monoteistiche. Perché l’ «affievolirsi delle identità parametrate sull’individuale, tende a ridurre la conflittualità comprendendo in senso et-et la dinamica dei giudizi e delle condotte». Vero; ma perché questo politeismo paradigmatico possa risolvere la conflittualità permanente causata dal monoteismo identitario e dai relativi fondamentalismi e letteralismi delle masse, occorrerebbe la conversione alla fede nel Monoteismo ecumenico – simbolicamente rappresentato da «figure come la sfera, l’anfiteatro, il pantheon… metafore per quanto non si può indicare; infatti non si può nominare ciò che si pone fuori dalla griglia dualistica della contrapposizione» – dei credenti nel monoteismo identitario e divisivo. Questa la via del superamento dei conflitti politico-religiosi che ancora incendiano il Medio Oriente e altre terre del pianeta seminando odio invece di amore, indicata da Girard, sulla scorta della teologia negativa, dell’insegnamento dei mistici cristiani (ma anche musulmani), del brahmanesimo indù, della psicologia analitica di Carl Gustav Jung, degli studi di James Hillman sull’anima, del panteismo spinoziano e del “pensiero debole” di Gianni Vattimo. Via tutt’altro che piana e “popolare”, data la permanenza nella mentalità comune e nell’opinione pubblica del paradigma dualistico dell’amico-nemico in politica, dal fedele-infedele in religione, del noi e loro nella società in generale. Eppure non dovrebbe essere difficile capire che la divisione e separazione dell’umanità in fedeli di diversi credi pronti a scannarsi per affermare la propria identità non può che perpetuare il potere non dei più giusti ma dei più forti. Questo, mi pare, il profondo significato etico-politico dell’indagine filosofica di Giorgio Girard sul mondo attuale.
("Trucioli savonesi", 13/05/2018)
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