di Fulvio Sguerso (fulviosguerso@libero.it; III di 4)
(QUI la prima parte)
(QUI la seconda parte)
Una via d’uscita, se non proprio di salvezza, dal senso di smarrimento e spaesamento derivato dalla perdita delle certezze che si basavano su un «mondo gerarchizzato o quantomeno incanalato e contenuto in “risposte già previste entro un’ideologia di sostentamento”, meno recentemente soprattutto religiosa, in tempi più vicini a noi forse primariamente laica: dalla credenza in un Dio salvifico a quella nella rivoluzione» consiste nel salto, o passaggio epocale, dal paradigma metafisico, cartesiano, dualistico e monoteistico basato sull’ aut-aut a quello spinoziano e leibniziano basato sull’ et-et che non divide, non contrappone, non mette gli enti uno contro l’altro ma li unisce, senza annullarli, nel Logos che tutto comprende e abbraccia. Il mondo della logica duale di ieri «non permetteva di scorgere la “differenza tra logos e logica”, cioè la differenza definita da quanto esorbita oltre il principio di non contraddizione, oltre, potremmo dire, la fisica newtoniana come paradigma di una scienza classicamente concepita».
D’altronde, come ormai tutti (o quasi) sanno, nemmeno la regina delle scienze moderne, cioè la Fisica, è più quella di una volta: da quando il fisico tedesco Max Planck formalizzò, nel 1901, la teoria della meccanica quantistica e Albert Einstein, nel 1905, la teoria della relatività ristretta e nel 1927 Werner Heinsenberg formulò il principio di indeterminazione, anche l’idea che i filosofi avevano di spazio, tempo, materia ed energia non poteva più rimanere la stessa, e, di conseguenza, i concetti tradizionali di “materialismo” e “spiritualismo” hanno assunto nuovi significati e nuove dimensioni. Già, ma che cosa ha significato questa nuova “rivoluzione scientifica” per la vita quotidiana delle masse? Forse che i servi della gleba, i mercanti, gli artigiani, i banchieri, i soldati (per tacer del clero) del Seicento hanno cambiato il loro modo di vedere il mondo in seguito alla “rivoluzione copernicana” che costò tanto cara a Giordano Bruno e a Galileo (che si salvò dal rogo fingendo di abiurarla)? E perché non dovrebbe essere lo stesso per il cosiddetto uomo della strada del terzo millennio ignaro così di quello che avviene nella fisica delle particelle subatomiche come di quello che è successo nell’universo Dal big bang ai buchi neri (Stephen Hawking, 1988)? E qual è lo status della massa odierna che ha perso le sue rassicuranti coordinate non solo scientifiche ma anche, come si è detto, valoriali in un mondo in cui tutto è ridotto a mercato (secondo la profezia di un tal filosofo ebreo tedesco nato a Treviri nel 1818) e in cui il pensiero critico-filosofico rischia di essere reso superfluo dal “progresso” della tecnica e dell’“intelligenza artificiale”, non per niente basata sulla logica binaria? Ebbene: «La differenza logos/logica – sostiene Girard – non definisce ambiti culturali ristretti ma tende ad applicarsi alla massa che è al centro del nostro interesse in questo scritto.
La massa vive direttamente, pur senza sapersela “ridire”, la carenza dei riferimenti che un tempo “le risposte confezionate entro le credenze” garantivano, puntellando l’intero arco del reale». Difatti oggi, come constatiamo quotidianamente, parlare di massa in questa società dominata dalla tecnica, da un sistema finanziario capitalistico globale, dal potere invasivo e pervasivo della comunicazione mediatica, significa parlare anche di fenomeni globali come l’urbanizzazione, le migrazioni, la scolarizzazione, il cinema, la televisione, la stampa, l’uso generalizzato del computer, dei telefoni cellulari, di Internet e dei social network, con tutto quello che comporta riguardo alla possibilità di manipolare e orientare l’opinione pubblica, soprattutto la più sprovveduta e facilmente suggestionabile – penso, ad esempio, alla martellante campagna mediatica delle reti Mediaset sulla necessità dell’autodifesa personale e quindi della liceità dell’uso delle armi anche da parte dei singoli cittadini che temono di essere vittime di aggressioni e violenze a scopo di rapina (per non parlare di quelle a sfondo sessuale), o all’enfatizzazione del fenomeno migratorio, già di per sé preoccupante, definendolo impropriamente come “invasione”, senza nemmeno tener conto del fatto che la maggior parte dei migranti che sbarca sulle nostre coste meridionali non intende rimanere in Italia ma raggiungere la Francia o il Nord Europa.
Ora, non c’è dubbio che la società stia cambiando a ritmo accelerato sotto i nostri occhi e che questi nuovi mezzi di comunicazione abbiano facilitato molto la vita di tutti e di ciascuno, ma, nello stesso tempo e paradossalmente, hanno accentuato l’individualismo e l’ansia da prestazione che già caratterizzava l’uomo-massa teledipendente degli anni Sessanta e Settanta, bombardato giorno e notte da messaggi pubblicitari e da non richiesti “consigli per gli acquisti” che lo spingono all’acquisto compulsivo di beni di consumo tutt’altro che necessari (se non al mercato globale e al desiderio di non rimanere indietro rispetto agli altri consumatori di beni superflui). Oltre a questi aspetti tipologici e comportamentali delle masse che possiamo definire qualitativi, Girard ne prende in considerazione anche l’aspetto quantitativo: «Occorre interrogarsi appunto sulla loro qualità, ma anche volgersi al loro numero. Non ho grande interesse al rigore statistico, ma “gli ordini di grandezza” sono estremamente importanti in certi casi. Ho vissuto abbastanza per quasi parametrare l’aumento delle masse umane sul pianeta con i decenni della mia stessa vita. Sono nato in anni quando forse non si superavano i due miliardi, oggi siamo intorno ai sette e mezzo. E abbiamo lasciato una società quasi ancora coloniale – l’indipendenza indiana fu del 1947 – relativamente assestata nei ceti metafisicamente distinta nelle razze – vedasi il caso Sud Africa – soprattutto incanalata nei “credi”: sindacati grandiosi, partiti architravi della politica, URSS e USA, “guerra fredda”. L’ascesa di Trump negli USA simboleggia il contrario di tutta questa “chiarezza metafisica”». Come dire che, insieme a quella dei valori e delle certezze tradizionali, stiamo anche assistendo alla crisi della rappresentanza democratica, cioè di quei “corpi intermedi” costituiti da organizzazioni sociali che hanno il fine di rappresentare le istanze dei cittadini o di categorie di lavoratori, come appunto i sindacati, le associazioni degli industriali, dei commercianti, degli artigiani che ancora resistono, degli agricoltori e, soprattutto, i partiti politici. Tuttavia, oggi, in epoca postfordista e postmoderna, nemmeno questi corpi intermedi sono rimasti quelli di una volta, non rappresentano più il significato, anche simbolico, di “simulacri paterni” che hanno conservato per tutto il secolo scorso e che ora hanno quasi del tutto perduto.
Si può discutere se questo venir meno di autorevoli figure paterne e istituzionali sia un bene o un male, certo è che, se vogliamo capire la società e il nuovo mondo (anche virtuale) in cui siamo entrati, dobbiamo prenderne atto: «Ci sembra – prosegue Girard – con i sette miliardi e più di oggi, che ciascuno risponda solo a se stesso. Nel bene e nel male, vien da aggiungere. Una massa dunque non più in qualche modo “contenuta”, ma aleatoriamente e paradossalmente “sola” , in cui molti – i giovani in cerca di lavoro, gli anziani pensionati ancora prestanti – sono spesso spinti a relegarsi in un “privato”, molto spesso assai povero di toni corroboranti».
Sennonché, questa “solitudine del cittadino globale” (come la chiama Zygmunt Bauman), se da un lato mette il singolo-massa (come lo chiama Girard) di fronte alla propria libertà, dall’altro lo espone al rischio della mancanza di senso e di fini che è propria del nichilismo: «Perché se questi singoli-massa non sono, come si diceva, più ordinati-incanalati in credi, o in rituali di azione pratica, acquistano (pericolose) autonomie impensabili solo forse vent’anni addietro, che sono però al tempo stesso un affastellamento di solitudini, fuori ormai in grande misura dalla protezioni grandiose offerte da spiriti comunitari, magari di lotta, ma amalgamanti, come poteva essere un sindacato o un partito politico o lo stesso concetto di rivoluzione».
Questa perdita di credibilità dei partiti storici spiega, tra l’altro, anche l’avanzata dei cosiddetti populismi un po’ in tutta Europa e negli USA, avanzata direttamente proporzionale all’approfondirsi della distanza tra i bisogni concreti ( la sicurezza, il lavoro, il sentirsi ascoltati, accettati, compresi e, insomma, l’ essere presi in considerazione non solo come portatori di voti ma anche come esseri umani), le istanze, i sentimenti, i disagi, le preoccupazioni e il linguaggio parlato dai comuni cittadini e quello parlato dai (e nei) Palazzi del potere, come, per esempio, quello sul tema attualissimo dell’immigrazione, dell’integrazione, del multiculturalismo: «Ci riportiamo al nostro oggi più urgente se consideriamo le migrazioni di massa in fuga da guerre anch’esse insolite, grandioso esito dei rivolgimenti califfali del mondo e inaspettatamente potenziantesi quasi per incanto nei primissimi anni del secondo decennio di questo nuovo secolo. Due fasi, terrorismo e migrazioni, intrinsecamente interconnesse». Le quali mettono duramente in discussione tutti gli apparati dei regimi liberaldemocratici occidentali e le stesse istituzioni che definiamo democratiche, la cui debolezza e inadeguatezza nell’affrontare questi nuovi ma prevedibili fenomeni di massa, offre argomenti a chi da tempo parla della necessità di un superamento del sistema democratico rappresentativo e liberale.
("Trucioli savonesi", 06/05/2018)
(QUI la quarta parte)
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