di Fulvio Sguerso (fulviosguerso@libero.it; II di 4)
(QUI la prima parte)
Noi diciamo ancora guerra, ma la guerra di oggi non è più quella di ieri, quando «Nel paradigma binario il nemico era, di massima, magari successivamente variato, ma poi assestato, sempre di fronte e ben percepibile»: di qua noi, di là loro; di qua gli amici, i compagni, i fratelli, di là i nemici; di qua dal fiume la nostra madrepatria, di là la loro: due (o più) patrie, due (o più) nazioni, due (o più) popoli, due (o più) Stati, con i rispettivi eserciti, le rispettive burocrazie, istituzioni, finanze, chiese, scuole, accademie, giornali… che si fronteggiano in armi… Quelli sì che erano bei tempi: non ci si poteva sbagliare riguardo a dove stesse il nemico (però qualcuno già allora insinuava il sospetto che il nemico non fosse davanti ma dietro): «La guerra come espressione di Stati e confini e con i suoi vari corollari ideologicamente pregni d’idealità assolute, fondava la sua stessa esistenza su una sicura esistenza del nemico»; dal che si deduce che, nel malaugurato caso in cui non ci fosse, per la salvaguardia della nostra preziosa identità (nonché della nostra salute mentale) bisognerebbe inventarlo (cfr. Umberto Eco, La costruzione del nemico, Bompiani, 2011). Ma oggi, come si è visto, il nemico può materializzarsi ovunque, tanto che «come sede d’insicurezze sconvolgenti bastano le masse anonime di una partita di pallone. Soprattutto su un terreno di cultura di più di un miliardo di potenziali “credenti” cui attingere, e con un impianto ideologico monoteisticamente fondato... le possibilità di difesa scompaiono alla vista e si affidano ai lavori di copertura di servizi di “intelligence” cui un po’ fideisticamente affidarsi. Già questo dover contare sull’“invisibile” di un supporto non ben identificato accresce l’insicurezza dello sguardo al mondo da parte di ciascuno, “affratellato” nella paura e “solo” nel regime di un’imprevedibile possibilità di difesa». Oltre che, ovviamente, di offesa.
In altri termini Girard ci vuol dire che il mondo attuale ha perso, anche a causa del terrorismo internazionale, le sue certezze, o meglio, le sue illusioni ireniche: altro che la fine della storia nel regime liberaldemocratico, oltre il quale, secondo il politologo statunitense Francis Fukuyama, non ci sarebbe stato niente di meglio per l’uomo! Dopo la fine della guerra fredda e la caduta del muro di Berlino sembrò per un momento che potesse cominciare finalmente un’epoca di convivenza veramente pacifica tra i popoli della terra, ma l’illusione durò l’espace d’un matin: al vecchio ordine bipolare (peraltro basato sul cosiddetto “equilibrio del terrore” dovuto alla possibilità non solo teorica dell’uso delle armi atomiche da parte delle due superpotenze) è subentrato il nuovo disordine mondiale; l’unificazione del mondo sotto il dominio dell’economia di mercato e della superpotenza rimasta padrona del campo dopo il crollo dell’ Unione Sovietica, cioè gli Stati Uniti d’America, è stata messa in questione non più dal conflitto tra Oriente comunista e Occidente capitalista ma tra il sovrappopolato e povero Meridione e il ricco e “decadente” Settentrione del mondo, nonché dall’inaudito e sconvolgente attacco del terrorismo islamista internazionale. Questa nuova situazione di instabilità e di conflittualità generalizzata e permanente, questa perdita delle coordinate geopolitiche insieme ai tradizionali punti di riferimento religiosi e anche alla fede nel continuo e irreversibile progresso scientifico di matrice illuministica e positivistica non poteva evitare ricadute sulla stabilità psicologica dei singoli “abitatori del tempo” (per usare un’espressione di Emanuele Severino) odierno. La messa in questione delle certezze acquisite, del paradigma dualistico per cui c’è netta separazione tra l’essere e il nulla, tra bene e male, tra vero e falso, tra giusto e ingiusto, tra bello e brutto e, persino, tra vita e morte, non è semplicemente un tratto caratterizzante del nostro tempo privo di conseguenze, ma è causa di un diffuso disagio psichico, come dimostra il fiorente mercato dell’aiuto psicoterapeutico: «La crisi di significato fa allora strutturalmente ingresso in una psicologia che entro certi limiti rinuncia alle certezze e si attesta su un fronte di resistenza più arretrato, fino a far risuonare come garanzia paradossale di sopravvivenza al meglio la capacità di una “accettazione profonda di un mondo incerto”. Questa è oggi la traccia essenziale delle terapie psicologiche».
Girard insiste molto sugli effetti tragici del nichilismo contemporaneo; potremmo dire, parafrasando Goya, che il nichilismo, cioè la mancanza di valori e di finalità che diano un senso alla vita, genera mostri: «i “pazzi” che cercano il loro adattamento in azioni criminali senza motivazioni palesi saltano fuori ogni momento, in tutte le parti del globo. Lo sfondo di questi eccessi isolati, per quanto ahimè frequenti, è la vita corrente delle persone “affette da nichilismo” che supera epocalmente le singole situazioni». Ora non occorre essere filosofi di professione per sapere che la nostra è l’epoca del nichilismo, della secolarizzazione e del disincanto; esattamente come aveva previsto Friedrich Nietzsche nel suo Al di là del bene e del male (1886) e in altri suoi scritti “profetici” (si pensi soltanto a com’è tratteggiato l’ultimo uomo in Così parlò Zarathustra ) citato a giusto titolo da Girard: «Traiamo da una sua biografia (Massimo Fini, Nietzsche, l’apolide dell’esistenza, Marsilio, 2002) l’idea per più versi drammatica che l’anticipazione teorica stava per tradursi in pratica: “una generazione che sta sorgendo capirà a partire da se stessa ciò che io ho vissuto”. Nietzsche visse il dramma di un’anticipazione del tutto non condivisibile dai suoi contemporanei. Si era nel 1886, “la generazione che sta sorgendo”, siamo noi oggi (e, incipientemente, tutto l’arco del Novecento)».
Sennonché Il tragico destino di uno “spirito libero” in mezzo a una massa di “ultimi uomini” è la solitudine, la pazzia o il suicidio. Giustamente osserva Girard che il filosofo dell’Uebermensch e dell’eterno ritorno dell’uguale «Si fiaccò l’esistenza vivendo appunto “carnalmente” un futuro che è il nostro presente; la pazzia esplosa a Torino il 3 gennaio 1889 esito, forse non della sifilide, ma della difficoltà a dialogare con un mondo che, nonostante Stendhal, Maupassant, nonostante Schopenhauer, era ancora, come massa, assestato sulla “definitività del due”, o bene o male, o amico o nemico, o questo o quello. L’aut-aut, per l’assoluta maggioranza degli uomini, dirigeva ancora tutto il traffico della vita». Ancor prima del 1886 (e prima di Freud) Nietzsche aveva capito che la concezione duale dell’uomo o cattivo e irrimediabilmente corrotto o creatura angelica decaduta ma anelante alla virtù era falsa; tuttavia quella concezione «ha dominato per epoche intere, e le sue radici si sono propagate fino in noi e nel nostro mondo»; in modo tale che, se vogliamo «comprendere noi stessi, dobbiamo comprendere quella; ma per salire poi più in alto, dobbiamo superarla». Come? Anche qui Nietzsche anticipa Freud: «Riconoscendo che non esistono peccati nel senso metafisico, ma, nello stesso senso, neanche virtù; che tutta questa sfera di rappresentazioni morali è continuamente in oscillazione, e che esistono concetti più alti e più profondi di bene e di male, di morale e di immorale. Chi dalle cose non vuole molto più della loro conoscenza, perviene agevolmente alla tranquillità dell’anima e sbaglierà (o peccherà, come dice il mondo) al massimo per ignoranza, ma difficilmente per concupiscenza». Come dire che l’errore non sta nel desiderio ma in un difetto di conoscenza adeguata: «Egli non vorrà più condannare ed estirpare i desideri; ma la sua unica meta, che lo dominerà completamente, di conoscere in ogni tempo nel modo migliore possibile, lo renderà freddo e addolcirà ogni intemperanza nella sua costituzione. Inoltre si sarà liberato di una quantità di idee tormentose, non proverà più nulla nell’udire parole come pene infernali, stato di peccato, incapacità di fare il bene: riconoscerà in esse solo le ombre evanescenti di false concezioni del mondo e della vita» (“Vittoria della conoscenza sul male radicale”, in Umano, troppo umano, I, 1878). Per Nietzsche, dunque, sarà la conoscenza a liberarci dal male metafisico, non più il Padre nostro che sta nei cieli. Ma la conoscenza, come possiamo constatare quotidianamente, da sola non basta a vincere il male. Non basta nemmeno la tecnica con i suoi “miracoli”. È chiaro che l’uomo di oggi (il singolo-massa come lo chiama Girard) se non vive di solo pane non vive nemmeno di sola logica: «La massa vive direttamente, pur senza sapersela “ridire”, la carenza dei riferimenti che un tempo “le risposte confezionate entro le credenze” garantivano, puntellando l’intero arco del reale». Ora quelle risposte non reggono più; ma questo non significa che non ce ne possano essere altre.
("Trucioli savonesi", 29/04/2018)
(QUI la terza parte)
(QUI la quarta parte)
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