di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
Quando guardiamo un film, assumendo che sia un'opera d'arte, veniamo inevitabilmente a conoscenza anche di alcune informazioni su di esso: il nome del regista e dei protagonisti, la durata, l'anno di rilascio, ecc.
Queste informazioni si depositano in noi accidentalmente, mentre siamo presi da altro, cioè dallo spessore artistico, e quindi dall'apparire estatico, di ciò a cui siamo esposti.
Finita la visione, possiamo certamente riassumere e commentare quelle informazioni che abbiamo acquisito inevitabilmente e accidentalmente, e possiamo addirittura discutere animatamente con altri su chi faccia i riassunti più precisi e i commenti più penetranti. E tuttavia, facendo questo, non solo rimaniamo a distanza dall'artisticità e dall'estaticità apparsa in quell'opera, ma addirittura ce ne allontaniamo ancora di più, perché le informazioni, i dati, le nozioni coprono l'estasi, fino al punto da potercelo far dimenticare e da farci così dimenticare che quell'opera, pur se ha inevitabilmente preso forma in un mondo di informazioni (la physis, l'attuale, il disponibile), è però figlia di una visione estatica, quindi è a quella che si deve tendere se si vuole non semplicemente capire, ma cercare di vivere l'estasi che sta all'origine di tutto ciò che è.
Le informazioni sono mute e fuorvianti su tutto questo.
Le nozioni sono come il fatto che se torno da un posto lontano posso calcolare il tempo e la lunghezza del mio viaggio di ritorno, ma queste misurazioni non dicono niente, e anzi coprono, l'essenza del luogo in cui sono stato.
Eccolo l'approccio "nuovo" – che poi nuovo non è, ma lo sembra dato lo stato attuale di quella che passa per alta cultura – che cerchiamo di praticare con l'esperienza di "Krinò" e che, fatalmente, è indirizzato a un tipo d'uomo altrettanto "nuovo", che non si ponga di fronte alle opere con l'atteggiamento del ricercatore di informazioni, ma in quanto chiamato da una risonanza che può poi lasciar apparire in flagranza l'indisponibile, che sempre rimane tale.
Quel che ne deriva quindi, non è riducibile a nozioni e non è restituibile in nessun modo, restando così le nozioni del tutto irrilevanti, banali pretesti per vivere l'esperienza dell'indisponibile.
Ecco allora che proiettando questa prospettiva su quella che chiamiamo filosofia, quest'ultima, e il relativo nostro rapporto con essa, ci appare in modo assai diverso da quanto comunemente oggi si ritiene.
In questi termini, infatti, l'opera di un filosofo, non deve più essere studiata e altrettanto non deve più essere spiegata, come invece oggi si fa.
Bisogna resistere all'automatismo della spiegazione che subito scatta in noi, che siamo stati ammaestrati a farlo scattare.
E non deve esserlo perché non può esserlo (studiata e insegnata).
Un testo di filosofia infatti – quando è tale, cioè quando non è né manualistica né commentario, che è una forma indiretta di spiegazione – anche se è scritto in prosa (ma sempre sui generis) è come una poesia, pertanto non può essere né studiato né spiegato, pena, il ridurlo ad un simulacro di se stesso.
Qualsiasi spiegazione, non importa quanto accurata, informata, raffinata, approfondita, influente, incontrovertibile, aggiornata sia è già, per il solo fatto di essere tale, non letteratura secondaria, come si dice in maniera edulcorata negli ambienti accademici, né filosofia di serie b, come mi è capitato di dire, attribuendo così a questo genere lo status di filosofia che invece non ha, ma nient'altro che non-filosofia. Quella che oggi si fa nei luoghi deputati a quella che si ritiene essere alta cultura.
Così come una poesia, la filosofia la si può solo citare, per far risuonare evocativamente la sua atmosfera.
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Alcuni dicono, certe volte, di non poter dare un giudizio a proposito di questo o di quest’altro perché non hanno studiato filosofia. È un’irritante assurdità, perché si presuppone che la filosofia sia una qualche scienza. E si parla di essa un po’ come della medicina.
Il lavoro sulla filosofia (...) è in verità più un lavoro su se stessi, sul proprio modo di pensare, sul proprio modo di vedere le cose. (E su ciò che ci aspettiamo da esse.)
Scrivo quasi sempre soliloqui. Cose che mi dico a quattr’occhi.
Credo di aver riassunto la mia posizione nei confronti della filosofia quando ho detto che la filosofia andrebbe scritta soltanto come una composizione poetica. Da questo, mi sembra, dovrebbe risultare in quale misura il mio pensiero appartenga al presente, al passato al futuro.
Oh, perché mi sembra di scrivere una poesia quando scrivo di filosofia? È come se ci fosse una piccola cosa qui che ha un significato meraviglioso. Come una foglia o un fiore.
– Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi
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