domenica 13 settembre 2009

Il personaggio nel romanzo borghese

di Erwin de Greef (erwindegreef@libero.it)

Nell’introdurre “L’archeologia del sapere” (1969), Michel Foucault sostiene che il “discorso” va affrontato nel meccanismo della sua istanza. In relazione al nostro presente motivo di studio questo assunto implica che per comprendere lo sviluppo del personaggio nel romanzo borghese bisogna circoscriverne le “regole di formazione”, ossia le sue norme di esistenza, ma anche di coesistenza, mantenimento, modificazione e scomparsa. Il romanzo borghese nasce nel contesto di una realtà storica e sociale in mutamento nel pieno del XVIII secolo; ossia quando, con i fisiocratici, si conferma la società patriarcale e l’importanza imprescindibile dei “principi della rendita terriera” e, con i primi evoluzionisti, Benoît, Bordeu, Maillat e soci si stabiliscono i principi di continuità nell’evoluzione della specie. In questo contesto storico-culturale l’uomo, in quanto cittadino del mondo, entra in contatto con esperienze di ricerca e di confronto sociali e individuali nuove, senza precedenti nella sua storia. Ecco che allora, nell’ambito del romanzo, si verificano dei mutamenti significativi, profondi e definitivi: il narratore, in quanto soggetto enunciante, si distacca completamente da una visione epica della narrazione e comincia un complesso quanto doloroso confronto con il quotidiano; il personaggio o eroe è posto, anche lui, sullo stesso orizzonte assiologico-temporale, la parola raffigurante dell’autore è sullo stesso piano della parola raffigurata del personaggio e può stabilire con essa (anzi, non può non stabilire) rapporti dialogici e ibride combinazioni. Il lettore, a sua volta, si trova ad essere partecipe di questo rapporto diegetico: in altri termini, la parola raffigurante del narratore finisce per transitare, per mezzo del medium della pagina, verso il lettore che la interpreta: in tal modo si stabiliscono delle relazioni dialogiche intorno all’aspetto diegetico della storia e quindi in relazione al “logos”; si tratta dunque di una relazione intorno ad una verità, esposta, assunta e interpretata come tale o meno. Il romanzo borghese – espressione epica moderna dell’epos omerico così come spiegano Bachtin in “Epos e romanzo”, Lukács in “La teoria del romanzo”, Scholes e Kellogg in “La natura della narrativa” e numerosi altri autori critici, non ultimo Foucault nel già citato “L’archeologia del sapere” – si riscrive per mezzo di una narrativa “a prosa”, come spiega con dovizia di particolari Guglielmi in “Letteratura come funzione e sistema”, con un linguaggio distante dalla cristallizzazione dell’epos omerico e alla ricerca di una sua continua ri-collocazione, ri-qualificazione, per andare incontro all’esigenze implicite, ma anche retoriche e stilistiche, del romanzo moderno e del lettore contemporaneo allo scrittore. La fonte narrativa non è più quella del “passato assoluto”, della tradizione orale che si è stabilizzata con il romanzo epico e, in tono minore e già critico, delle saghe. La fonte del romanzo borghese è il presente, il contesto in cui si muovono gli autori, i personaggi e i suoi lettori. Questo mutato assetto dei protagonisti del romanzo (il narratore, il protagonista e il lettore) sono il frutto di una nuova consapevolezza storica e sociale; in un certo senso, la società ha abbattuto definitivamente le barriere epiche del romanzo omerico in quanto non si riconosce più in quei valori etici, e li ha messi in discussione: la parola in quanto scrittura, la tradizione orale della narrativa quale fonte del narratore, e la distanza epica assoluta. L’eroe del romanzo borghese è un uomo scisso, in crisi, dentro un amletico: “To be or not to be”; non sarà mai più “l’uomo virile” di cui scrive Lukács. Ma c’è di più: col venire meno del passato assoluto l’uomo borghese perde – gli ultimi sussulti sono nel Medioevo con la “Divina Commedia” come spiegano Bahtin e Lukáccs – la dimensione immanente della vita: l’eroe era tale perché guidato dagli dei, la storia era cristallizzata perché scritta nell’oralità della tradizione, il lettore ascoltava come un cristiano il suo Vangelo; in qualche misura la narrativa era dogmatica. Con l’età moderna, con l’empirismo, si ha – lo spiega davvero bene Foucault – la scoperta di una scissione dell’uomo: esso è separato da quel coinvolgimento immanente e si ritrova entro un meccanismo di trascendenza prima e di scissione interiore poi. Ecco, il romanzo è sempre di più espressione di questa frattura dell’uomo sia col mondo circostante, la società, sia e soprattutto dentro se stesso. In questa crisi esistenziale, di passaggio dal “thymos” platonico alla “psiche” lockiana, il suo discorso comincia a svilupparsi dentro se stesso: in quello che Freud chiamerà il rapporto “io-io”, che nel suo complicarsi troverà maggiori ostacoli nel rapporto con la società, quello “io-altri”. Per cui agli albori del romanzo moderno, borghese, nuovo epos, il narratore – Jonathan Swift, Daniel Defoe – si trova per la prima volta a ragionare intorno alla società: le sue crisi, i suoi tradimenti umani, economici, sociali, istituzionali: il personaggio del romanzo borghese è da subito un soggetto in crisi, ma non del tutto consapevole – verrà poco dopo – della sua scissione interiore. Per usare una espressione di R. L. Stevenson, gli eroi del romanzo moderno sono “burattini” senza espressione interiore, non potevano averla allora. Quel che l’eroe sa ed esprime con la complicità attiva del narratore è che, da una parte, la sua perfezione ideale – consapevolmente persa per sempre – è possibile solo attraverso il congiungimento con Dio, la trascendenza, e dall’altra vive la sua scissione sociale. In altri termini, i personaggi di Robinson Crusoe (1719) o di Gulliver (1726) sono dentro un meccanismo di narrazione in cui – usando un’espressione di Mario Praz – emerge la “psicologia sociale”. In altre parole, la distanza tra l’eroe epico e quello del romanzo moderno è data dal fatto che mentre il primo assumeva le fattezze esteriori dell’uomo, ma non la sua scissione interiore; il secondo, promuoveva questo stato di crisi, di scissione: all’immanenza, spiega Bachtin, si sostituisce la trascendenza. Gli eroi moderni sono “cercatori” perché la loro messa in scena è sempre e comunque psicologica. Gli elementi del romanzo, i “motivi”, sono astratti: lo è la sua ansia, il suo mondo è in continuo divenire – non ha un inizio certo e l’ultima parola è sempre da venire, scrive Lukács –; astratta è l’oggettività che l’eroe cerca in quanto esterna alla sua immanenza. Il romanzo moderno è, dunque, una forma narrativa aperta e non chiusa: è l’itinerario di un personaggio che va alla ricerca di se stesso per raggiungere una compiuta conoscenza di sé: al “continuum” del discorso causale-temporale si sostituisce il “discontinuum” dello stesso. La ricerca del “lieto fine” è, come dire, un surrogato di quella dinamica circolare, chiusa, dell’epos greco. Di conseguenza, il romanzo non può essere “poetico” ma “a prosa”, leggibile nella sua linearità, nella sua organizzazione frastica; l’eroe non può essere “eroico”, ma sviluppato nella sua scissione tra l’essere e il dovere essere; egli non è immutabile, ma in divenire come lo è la sua ricerca; il “lieto fine” è la ricompensa che idealmente rimanda, nella sua circolarità, alla perfezione dell’epos; il romanzo è per il lettore moderno quel che era l’epos per il lettore antico. In questo contesto così articolato, l’eroe del romanzo moderno è un soggetto che si deve misurare in un contesto di attualità, nella spasmodica ricerca di una sua continua ri-collocazione. Ancora un’autrice come Jane Austen esprime il personaggio, come nell’epos, in una dinamica d’immanenza, ma che, costretto a confrontarsi con la propria scissione, è fortemente ironizzato proprio per annullare la distanza epica: il suo punto di vista è quello del presente, del continuo divenire. Lawrence Sterne, riprendendo il pensiero di John Locke, in “Tristam Shandy” del 1759, “gioca” con il lettore, lo chiama costantemente in causa, prende le sue pause, ironizza il personaggio, mette in luce le sue particolari fissazioni individuali, il suo “hobby horse”, e fa uso del monologo interiore: inteso come un soliloquio muto, ancora come elemento retorico. Il narratore fa la trama del romanzo: fatto assai rilevante quando, nel XX secolo, il romanziere sfrutterà in molteplici aspetti il “flusso di coscienza”. Emerge in letteratura il biografismo; come afferma Lukács, il superamento del “cattivo infinito”: la riduzione della vita alla propria esistenza finita e il cammino verso la scoperta del proprio sé, l’“eo ipso”. Questo accadrà con autori come Henry Fielding, “Tom Jones”, e W. M. Thackeray, “Vanity Fair”. Sarà con Rousseau, la “Nouvelle Héloïse”, che il narratore getterà le basi per il romanzo come autobiografia e l’autobiografia come romanzo.
In questo quadro, nel XIX secolo, l’Europa è investita da moti di rivolta, di rivoluzione: in Francia la Rivoluzione porterà alla decapitazione dei sovrani e poi al bonapartismo; in Inghilterra vi sarà la Rivoluzione industriale: come osserva con certa soddisfatta ironia il Chesternton, (a memoria), “la cosa più importante che successe in Inghilterra è proprio quella che non successe”. Con la Rivoluzione industriale, qualcuno ha scritto del vapore, si ha – osserva la Barrett – il passaggio ad uno stato di caos sempre più manifesto: si svuotano le campagne, si riempiono le città, si creano sacche di povertà che reagiscono con il pauperismo, il cartismo, il fabianesimo. Si fondano il circolo degli “eccentrici” con Hazlitt e Lamb, sulla scia dei romantici, si crea il “circolo di Oxford” con Newman e soci. Tutto questo porterà a sofferti processi di democratizzazione della nazione: i “Reform Bill”, l’abolizione delle “Corn Laws”, la Grande esposizione del 1851, la nascita dell’Impero, l’“Indian Mutiny” del 1857, ma anche la pubblicazione delle opere di Darwin “The Origin of Species” del 1859, e “The Descent of Man” del 1871. Si sviluppano nuovi temi di confronto che entrano di diritto nel contesto del romanzo borghese: la scrittura si rinnova col rinnovarsi della società, delle sue complicanze, dei suoi motivi di conflittualità. Nella narrativa, gli autori si misurano con i temi del socialdarwinismo: l’ereditarietà (in ogni sua forma) entra nella scrittura: la paternità, la maternità, l’abbandono, le eredità patrimoniali, la genealogia. Assumono notevole rilevanza: i processi psicologici patogeni, i problemi legati alla razza, quelli inerenti al rapporto maschio femmina, alla superiorità dell’uno e all’inferiorità dell’altra. Si formano nuovi generi e sottogeneri: il romanzo sentimentale, quello sociale, fantastico, psicologico, colonialistico, fantascientifico, dell’horror, e così via. Il dato più importante – come hanno messo bene in luce molti autori critici e in modo rilevante Chesterton e Mario Praz – è la presenza imponente, senza precedenti e susseguenti, della scrittura al femminile: si va da Jane Austen, alle sorelle Brontë, Mary Shally, Elisabeth Gaskell, Mary Elisabeth Braddon, Virginia Woolf solo per citarne alcune. Si mette in rilievo come queste figure della narrativa abbiano scritto, in molti casi, romanzi di rilievo assoluto e non solo per l’epoca di riferimento: “Jane Eyre”, “Wuthering Heights”, “Pride and Prejudice”, “Middlemarch”, e altre ancora. Tra queste scrittrici alcune si firmano con nomi maschili, lasciando dietro le quinte di una società maschilista e paternalista, i loro nomi di battesimo: la loro manifestazione possibile e piena; in un’opera del 1811 Jane Austen si firma con un “by a lady”, che ne salva l’origine sociale e l’orgoglio femminile. Nota Virginia Woolf che la scrittura di Charlotte Brontë e George Eliot assunsero una psicologia da narratore interno, implicito, propria del pensare maschile. Non è la rinuncia totale di un’identità, di un’appartenenza, ma più semplicemente la difficoltà di espressione in un mondo dettato dal ritmo dell’uomo: c’è anche una differenza di “lingua”, di cultura, di idee tra uomo e donna. Eppure, come scrive H. James in “A London Life” del 1888, la donna sa anche dedicarsi alla lettura e ha già messo da parte la pittura e il ricamo come attività primarie. D’altra parte – riprendendo il pensiero del Chesterton – il XIX secolo è al femminile: Mary Wollstonecraft scrive già nel 1792 “A Vindication of the Rights of the Women”, emergono figure come quella di Florence Nightingale e filosofi come Mill che difendono – anche in Parlamento – l’universo femminile. La scrittura al femminile è preceduta nel secolo XVIII da opere quali: “Moll Flanders” o “Pamela” e “Clarissa”, dove ancora si avverte con certo fastidio la mano longa dello scrittore. Fin da allora, nella forma romanzata o dell’epistolario, s’avverte la necessità di una mescolanza tra la finzione del personaggio e la realtà del narratore: è la vita interiore che domina il racconto, la storia, la narrazione. Nel secolo decimonono la vita interiore – spiegano Scholes e Kellogg – è regolata per mezzo dell’analisi narrativa, in cui i pensieri del personaggio sono filtrati attraverso la mente del narratore e sono accompagnati da un commento più o meno interpretativo; o per mezzo del monologo interiore che si fa più diretto e drammatico: insomma, si comincia a superare l’elemento retorico. È lo studio dei processi psicologici patogeni che permetterà alla scrittura narrativa, al suo autore, ai personaggi, attraverso la sintassi non prosastica del moderno flusso di coscienza, a spezzare definitivamente la retorica del monologo interiore. È con Tolstoij, nei capitoli XXVII-XXIX di “Anna Karenina”, che si afferma quella forma di fusione tra il monologo interiore con la sua forma retorica e il flusso di coscienza come forma di libera associazione delle idee. Il romanzo è qui che supera le forme del naturalismo alla Zola e il verismo. Si tratta di uno slittamento verso il simbolismo: la “sintassi non prosastica” è l’espressione, e ancor prima il sintomo, di un vero e proprio disagio del narratore di fronte alla parola, che non riesce più a soddisfare fino in fondo la sua urgenza, la sua criticità nel comunicare. Questo è quel succede in “Madame Bovary”, “Night and Day” di Virginia Woolf, in opere di D. H. Lawrence. Se il personaggio è intelligente allora il suo pensiero sarà intelligibile; se malato sarà più poetico. Nell’“Ulysses” J. Joyce fa ricorso agli errori di citazione o alla “coscienza onirica”, ma questa fallisce perché del tutto slegata dalla realtà e, quindi, come si spiega in psicanalisi sfugge ad una codificazione reale. In “Lady Chatterley Lover’s”, Lawrence scopre quella scissione della coscienza tra superiore e inferiore, il subconscio: è il mondo dei miti e dei mostri, il Minotauro, il labirinto; è il “ri-arrivo” di Yeats. È la fine della centralità interiore dell’uomo che, invece, si scopre scisso anche nella coscienza: è l’uomo senza centro individuale di Lawrence, “tutto a pezzi”; è l’impossibilità di trovare un centro univoco per tutti gli esseri umani di Proust. Ecco, allora, che per il primo l’uomo non ha un’anima e per il secondo l’esistenza dipende da una molteplicità di percezioni che rendono la realtà assolutamente relativa. In vero, questi due autori stanno argomentando sul fatto che nel Novecento la caratterizzazione tende ad abbandonare la ricerca di penetrare nella psiche dell’individuo per concentrarsi sulla percezione di impressioni, che in quanto tali non pretendono essere valide come fatti: questa è la tecnica di caratterizzazione di romanzi quali: “Lord Jim”, “The Good Soldier”, “A la recherche du temps perdu”, “Absalom, Absalom!” e “Alexandria Quartet”. Da qui verranno i romanzi del nuovo realismo, del romanzo medio, del romanzo alla Robbe-Grillet. Come scrive Giuseppe Petronio i romanzi dell’assurdo, dello sguardo e dell’oggetto.

Bibliografia


• Aa.vv., Storia della civiltà letteraria inglese, Vol. 2°, Torino, Utet, 1996.

• Chesterton G. K., Il compromesso vittoriano e i suoi nemici, Milano, Bompiani editore, 1945.

• Guglielmi G., Letteratura come sistema e come funzione, Torino, Einaudi editore, La ricerca letteraria, 1967.
• Lukács G., Teoria del romanzo, Roma, Newton Compton italiana, Saggi, 1972.
• Praz M., La letteratura inglese dai romantici al novecento, Milano, Edizioni accademia, Le letture del mondo, 1989.
• Petronio G., (a cura di), Teorie e realtà del romanzo, Roma-Bari, Editori Laterza, Universale, 1977.
• Scholes R, Kellogg R., La natura della narrativa, Bologna, Società editrice il Mulino, Biblioteca, 1970.

• Stevenson R. L., (a cura di Almansi G.), L’isola del romanzo, Palermo, Sellerio editore, La diagonale, 1987.

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6 commenti:

  1. molto interessante
    a volte però mi sembra di percorrere infinite strade contemporaneamente.
    non qui, ovviamente. ma nella vita.

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  2. Ottimo articolo.
    Volevo segnalare, per un ulteriore apporto critico, il saggio di Ian Watt "Le origini del romanzo borghese", del 1985..Egli sottolinea in particolar modo l'importanza di Defoe, Richardson e Fielding per gli inizi del romanzo borghese..forse uno 'scorcio critico' un pò parziale, ma comunque interessante..
    Un saluto

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  3. Un lavoro eccellente che, senza trascurare le “finezze”, mette - inequivocabilmente - in risalto la distanza che intercorre tra l’eroe epico e quello del romanzo moderno “il primo – scrive l’autore - … non ha un’anima … per il secondo l’esistenza dipende da una molteplicità di percezioni che rendono la realtà assolutamente relativa” … (nulla di più vero).
    Da leggere e rileggere.
    Grazia Calanna

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  4. Non ti nascondo che ho impiegato circa un'ora nel leggerlo.
    Il punto stava nel fatto che ho riletto le stessi frasi una decine di volte.
    Non credo il pezzo abbia bisogno di ulteriori commenti.
    ..." Solo qualcuno può rendere parole poesia"
    :')
    Commossi.

    Chiara

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  5. …"qual è dunque quella esistenza singolare che viene alla luce in quello che si dice, e non mai altrove?”...

    (michael foucault)

    quell’altrove di cui è oneroso ri-prendere il significante, epistilio del dialogo - narrante & narrato - che rapporta il soggetto-personaggio al tempio del suo io in contestualizzato evo. continuum dialettico sull’estensione del “chi sono?”.

    - ottima disamina -

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  6. Il personaggio nel romanzo borghese è un tema - tra i tanti - che, nell'ambito degli Studi teorici della Letteratura, è relativo all'interpretazione della nostra Società: in un certo senso è come guardarsi allo specchio o, se si preferisce, dall'esterno. In tal senso, nonostante i tanti tecnicismi presenti nel Testo, ero intimamente convinto che il presente Studio avrebbe avuto un suo esito tra i lettori della Rivista che ci ospita. I vostri numerosi interventi, disinvolti e competenti, mi incoraggiano a proseguire su questa strada.

    Grazie,
    Erwin

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