mercoledì 11 dicembre 2013

Totalitarismo, democrazia, etica pubblica – Federico Sollazzo

di Franco Santangelo (francesco.santan47@alice.it)

L’alba del XX secolo si affaccia al mondo rottamando tutti i valori del secolo precedente e lasciando dietro un cumulo di macerie come se fosse passata una terribile bufera. Avviene un mutamento al quale il cittadino aderisce senza però avvertire la responsabilità delle proprie azioni, sentendosi estraneo ad ogni riferimento morale. Questo comportamento si riversa sulla politica, spogliandola di ogni etica e mettendo in crisi la democrazia e il capitalismo, motivi portanti alla base della nascita dei totalitarismi nel mondo. La stessa tecnica abbandona quel ruolo neutrale avuto al servizio dell’umanità intera per diventare strumentale e di parte, in favore di tutti gli assolutismi, facendo nascere una tempesta che rompendo ogni equilibrio ci ha consegnato l’orrore dei lager, delle due guerre mondiali e della bomba atomica. È questa la nuova tecnica che nasce col totalitarismo e giunge ai giorni nostri con la globalizzazione, figlia della paura di una terza guerra mondiale e che, insieme alla tecnologia avanzata del nucleare e del digitale, è diventata padrona assoluta del mondo naturale. Questo processo evolutivo ha modificato il rapporto fra natura e tecnica, in favore di quest’ultima, rendendolo sempre più precario e creando il presupposto affinché il totalitarismo del terzo millennio si identificasse come il totalitarismo della tecnica. La valutazione di questo rapporto è oggi al centro di dibattiti filosofici, politici, etici, biologici, psicologici, storici ed esplode con l’incalzare delle nuove tecnologie, che mettono in secondo piano la centralità dell’esistenza umana. La creazione di organismi internazionali, come l’Onu, non basta a scongiurare dissociazioni drammatiche fra nazioni, cercando di sostituire i valori del passato, sempre più de-ristrutturato, con nuovi valori che stentano ad apparire limpidi all’orizzonte.
Federico Sollazzo, docente di Filosofia Morale presso il Dipartimento di Letterature comparate dell’Università di Szeged (Ungheria), collaboratore di altre docenze presso l’Istituto di Sociologia dell’Università Corvinus di Budapest, conferenziere e lettore di Filosofia morale in Università straniere e italiane, membro del Comitato ungherese per le borse di studio relative a studi e ricerche postdottorato, collaboratore di molti periodici filosofici, ideatore e curatore della rivista «CriticaMente», ha pubblicato diversi saggi e libri e con l’ultimo suo lavoro, Totalitarismo, democrazia, etica pubblica, ha ricevuto il premio speciale per la sezione Saggio Filosofico dall’Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche.
Sollazzo con questa opera mette in evidenza come la sconfitta e la fine dei regimi totalitari non abbiano determinato il loro superamento, in quanto il nuovo sistema, inglobando valori del passato, ha generato una mutazione della forma ma non della sostanza, di conseguenza nasce la necessità di avviare una nuova etica pubblica, con al centro l’uomo e le sue problematiche, senza rinunciare ad ogni decisione etico-politica. Sollazzo ai margini del suo consistente lavoro riporta la tesi di Heidegger, il filosofo del Führer, secondo cui la tecnica sarebbe stata “l’oblio dell’essere” e che potrebbe costituire, dopo l’esperienza dei lager, una vera minaccia per il mondo. L’autore sottolinea come per Heidegger la metafisica, in Europa, si sia sviluppata in modo ontologicamente travisata perché per tanto tempo è stata oggettivata e manipolata come qualcosa di indefinibile, sicuramente da individuare con l’Essere, verso il quale l’uomo si è posto in atteggiamento di attesa e di ascolto. Un modo, questo di Heidegger, di rivolgersi al passato per poi tentare di cambiarlo, osservando l’Essere terreno, che per lui è l’Essere terribile e violento, dove vita e violenza rappresentano un binomio che genera una equazione: «Non ci può essere vita là dove non c’è violenza e là dove c’è vita c’è inevitabilmente violenza» (p. 249). 
L’uomo come tutti gli altri viventi è portatore di violenza, perché l’Essere che rende possibile l’esistenza è esso stesso portatore di violenza verso tutti gli esseri viventi che da lui derivano, ma l’uomo è l’unico a rivolgere la violenza contro lo stesso Essere e l’unica cosa che può fermarlo è la morte, in questo Severino ammette che il vero problema per Heidegger è una radicale ricostruzione del pensiero metafisico.
Heidegger alla fine della II guerra mondiale, dopo l’esperienza dei lager e l’esito del suo processo per l’adesione al nazionalsocialismo, incomincia a manifestare le distanze dal proliferare della tecnica, nel momento in cui si accorge che il totalitarismo sovietico e il regime monopolistico hanno in comune “il triste correre della tecnica scatenata”, col rischio di far perdere la libertà all’uomo se non si premunisce, a priori, della consapevolezza del vero carattere della tecnica medesima.
Questa tesi stride con quella di Marcuse, di Hannah Arendt e di Anders che, insieme a Karl Jaspers e a quelli della scuola di Francoforte, fecero dei totalitarismi una ragione di studio e di vita. Per Heidegger l’uomo è un essere per la morte, per la Arendt invece è un essere per la vita, in quanto individua nella nascita di nuovi uomini l’inizio di ogni azione, che si compie in virtù dell’essere e non del morire. Quindi, si nota in ciò lo scontro di due concetti, quello di natura ontologica e quello di prospettiva valutativa. Sollazzo cerca di cogliere le motivazioni che portarono Heidegger ad aderire al nazismo, ma non a giustificarlo, partendo dal presupposto che tutto ciò che produce l’uomo è portatore di violenza e che essa si potrebbe riversare nella tecnica prodotta, che può essere di natura producente o oggettivante, quest’ultima veicolo di dominio. Una tecnica che produce potrebbe portare allo sfruttamento parziale dell’energia, come quella che scorre in un fiume attraverso l’impianto di un mulino, senza dominarla totalmente, invece con la costruzione di una diga ci troveremmo di fronte ad una tecnica provocante che domina l’essere, in questo caso l’ambiente. Una cosa è attendere che l’essere si manifesti e contemporaneamente creare le condizioni dell’intervento dell’uomo, altra cosa è oggettivare, dominare l’essere.

(…) la società industriale avanzata è caratterizzata da una nuova forma di repressione che prevede il consenso dei dominati, ottenuto appiattendo le aspirazioni e i bisogni umani sulle necessità del sistema e quindi facendoli coincidere con esso (p. 23).

Una forma nuova di totalitarismo democratico che non avviene più con la violenza fisica ma attraverso determinate impostazioni tecnologiche, forti di un nuovo linguaggio che sostituisce l’oppressione funzionale della classe dominante del passato.
È questo per Vàclav Havel il nuovo potere totalitario che si è affacciato nella Cecoslovacchia degli anni ottanta del secolo scorso, che ha segnato il passaggio da un totalitarismo violento ad un totalitarismo mite, un potere che non richiede più l’adesione ideologica del cittadino, ma il suo conformismo, legittimando così il potere con l’assuefazione, sino a determinare un “auto totalitarismo”, che dà l’illusione di avere una identità e una dignità propria. Havel e il suo maestro Jan Patočka, filosofi dell’Europa dell’est, concordano con le tesi di Hannah Arendt, secondo la quale ogni forma di totalitarismo manipola coscienza e memoria. Non a caso, oggi, non si assiste alla distruzione della memoria storica del nazi-fascismo, ma all’invenzione di una “cattiva memoria storica”, producendo falsi ricordi che spiazzano la memoria personale. In Italia si assiste al tentativo di collocare, sia i partigiani d’Italia che i repubblichini di Salò, sullo stesso livello morale, politico e storico.
Sollazzo, con cautela, ma coraggiosamente, rimette in gioco Herbert Marcuse, il quale fa una grande offensiva sia nei confronti di Heidegger, di cui fu compagno di studi, che di Karl Marx, affermando che la tecnica potrebbe essere fonte di asservimento come anche fonte di liberazione umana. Biasima Marx per non avere intuito che le masse proletarie sarebbero state assorbite dal processo tecnico dello sviluppo industriale ed eliminate dallo scenario rivoluzionario. A Marcuse, definito il padre spirituale dei sessantottini, spetta il merito di avere anticipato l’arrivo della globalizzazione e la fine del comunismo sovietico che, al pari del capitalismo, era portatore di una morale repressiva perché utilizzatore di una tecnica senza la capacità di assolvere allo scopo: da qui nasce uno dei suoi capolavori L’uomo a una dimensione.
La tecnica è, dunque, allo stesso tempo, il destino e il pericolo dell’uomo, sostiene Sollazzo, abitiamo in un mondo in cui l’essere non c’è più, lo abbiamo dimenticato riducendolo agli assenti del mondo e non c’è più nulla che possa illuminare l’uomo. Il pericolo per l’uomo non sta in quello che potrebbe causare o produrre uno strumento ma nell’impossibilità di ritornare in una posizione originaria. La tesi di Heidegger va letta, sostiene Sollazzo, alla luce di quanto sostenuto sul tò deinótaton, ove la violenza trova un limite solo nella morte. Sin dal suo primo apparire in politica la violenza ha assunto una valenza ambigua, facendo nascere un rapporto tra essa e la giustizia, che scompare nel momento in cui la violenza si tramuta in terrore. Si reclama la presenza della giustizia per arginare il terrorismo, quel terrore apparso già, l’11 settembre 2001, sullo scenario mondiale, col crollo delle torri gemelli a New York, come fenomeno del terrorismo globale inteso a destabilizzare l’ordine internazionale, sottoforma di rappresentante di un dominio sovranazionale (Al-Qaeda), in alternativa agli organismi rappresentanti gli Stati nazionali. Tutto ciò fa riemergere una verità, che la violenza possa ripercorrere una traiettoria ancora più alta di quella del passato.
Federico Sollazzo sviluppa le sue tesi partendo dal presupposto concreto della falsità e la menzogna dei totalitarismi e con chiarezza afferma: «non ha importanza che un soggetto con la propria azione faccia del bene o del male» [Ri-Costruire la Verità - Presentazione del libro "Totalitarismo, democrazia, etica pubblica", in «Liberi.tv», 28/04/2012, t. 19’10’’] perché se lo fa per soddisfare una ideologia e non per appagare un’aspirazione personale, fondata sulla libertà, egli obbedisce all’ideologia e mentisce a se stesso.
La possibilità di una eventuale terza guerra mondiale, paventata nella seconda metà del secolo scorso e che avrebbe significato la scomparsa della nostra civiltà, portò a delle riflessioni, come quella di costituire organismi sovranazionali ”Federazione delle Nazioni o un organismo preposto al governo mondiale”, ma i rapporti complicati delle nazioni fecero riaffiorare secolari ideologie, specie quella di reazione all’imperialismo occidentale, ove riaffiorano tutt’oggi elementi di razzismo sostenenti il principio della superiorità della razza bianca su quella di colore, (esempio di razzismo italiano su altri italiani, vedi il caso del calciatore Mario Balotelli, del ministro Cècile Kyenge e dei nuovi volti dell’atletica che rappresentano l’Italia, come Yassin, Joannes, Yemaneberhan Crippa, Erika Furlani e tanti altri, che oltre allo sport rappresentano la multiculturalità del nostro paese). In tutto ciò si nota l’impegno di Federico Sollazzo nel dimostrare come la società della disciplina, sostituita con quella del controllo e del suo evolversi, abbia prodotto ben poche differenze, mentre il perdurare in occidente e in America della presenza di ideologie fa correre seri rischi pratici alla nuova tesi dello sviluppo della società, ipotizzata dall’autore, che dovrebbe modellarsi dentro il nucleo centrale, cosiddetto sistema-impero. Egli, dopo avere analizzato le tesi di A. Negri, M. Hardt, Horkheimer, Adorno e Habermas, ipotizza il nucleo “sistema-impero” come l’elemento che dovrebbe assorbire la nuova società al suo interno, al di fuori del quale non rimarrebbe nulla. Solo una olistica o ingiusta valutazione del sistema lascerebbe fuori un significativo residuato razziale che porterebbe o alla sopravvivenza di stati-nazione o renderebbe verosimile la tesi arendtiana relativa al sorgere di una massa di apolidi al di fuori del nucleo-sistema.
Sollazzo incalza sollecitando una nuova responsabilità umana, come pretesa morale a creare imperativi adeguati alla nuova realtà, dopo avere esposto ed ipotizzato un tipo di società fatta di identità differenti dentro un luogo comune, in quanto società plurale, non chiusa né isolata, ma aperta. All’interno di questo modello verrebbe convogliata la responsabilità umana con una nuova etica pubblica, diversa da quella del passato, perché senza una visione globale della vita umana e, quindi, senza ipotesi di futuro.
Egli, però, richiamandosi alla “coscienza critica” arendtiana, precisa che le varie interpretazioni critiche alla società moderna non sono rivolte alla società in quanto tale, ma all’assenza del pensiero autonomo come forza che resiste al male. Chi è l’Uomo? Si chiede Sollazzo, non solo sotto l’aspetto della filosofia ontologica e antropologica, che lo vede come una mescolanza dell’elemento biologico con quello immateriale intellettuale, ma ricorre anche a Plessner che vede il corpo come un oggetto vivente, dove l’uomo è nel corpo e fuori dal corpo e, quindi, identificato come una realtà fisiologica e psicologica. Sollazzo sostiene che questi due elementi si fondono dando un concetto di uomo più completo rispetto a quello che ci dà la scienza, quando lo studia soltanto come materia. L’essenza biologica fusa con la psiche produce sentimenti umani, da ciò Sollazzo, in modo implicito, induce l’individuo a porsi la domanda: Chi Sono? Ed è attraverso il sentire delle emozioni e alle risposte che egli liberamente riesce a dare che scopre una dimensione più vera e naturale della vita, dove ognuno, osservando, scopre le proprie capacità individuali, facilitate e mai imposte da qualsiasi formazione politica, solo così la democrazia prenderebbe veramente forma rispetto ad altri sistemi di governo.
È la filosofia etica, secondo Sollazzo, che delimita i confini della filosofia politica inquadra le problematiche dell’uomo in modo universale, trovando specifiche forme di applicazioni instaurate non più fra differenti rapporti delle diverse civiltà, ma come differenza di rapporto tra persona e persona. La Arendt afferma che il totalitarismo nasce dalla degenerazione della vita pubblica, Sollazzo, identificandosi con il concetto arendtiano, sostiene che, al di là delle manifestazioni storico-politico-sociali, bisognerebbe comprendere il fenomeno del totalitarismo e capirne l’essenza, per allontanarne un ulteriore ritorno e coprire il vuoto creato dall’assenza di spazio pubblico. Sollazzo, in ciò, condivide anche il pensiero di Bobbio che, diversamente dalla Arendt, che vede nel nazismo e nel comunismo i due totalitarismi eguali della storia, egli li definisce uguali nell’uso dei mezzi e differenti negli scopi, in quanto i fini del comunismo furono traditi e apparvero falsamente uguali a quelli del nazismo. Federico Sollazzo, quindi, compie un significativo e generoso sforzo nell’elaborazione di questo suo pensiero critico e autonomo, ridando alla filosofia un ruolo predominante per leggere la storia del pensiero in chiave prevalente.

Una delle prime conseguenze che deriverebbero dall’applicazione delle teorie politiche arendtiane al contesto contemporaneo, sarebbe quella della scomparsa della figura del politico di professione. Egli infatti, insieme ai partiti, rappresenta la causa della trasformazione della politica, da azione ad amministrazione, la quale si esplica non tramite la condivisione di parole e azioni, ma attraverso delle precise tecniche, note solo ai professionisti della politica. L’agorà si muta così in “Palazzo”, testimoniando il fatto che il primo pericolo che ogni democrazia corre è quello di una degenerazione dall’interno. Tale degenerazione del sistema politico ne mina la stabilità, poiché dilata le distanze fra i cittadini e gli amministratori del potere, ponendo a quelli dei dubbi sulla legittimità governativa di questi. (p. 127)

(Concettualmente, a mio giudizio, in Italia si è pervenuti così alla formazione della cd. casta politica).
Sollazzo, nel rielaborare questo lavoro di ricerca in modo multidisciplinare, scandaglia un intreccio corposo di competenze che interessano diversi campi del sapere, come biologia, antropologia, psicologia, diritto, economia e politica. Investiga in prospettiva filosofica attraverso alcuni concetti chiave della morale e della politica che mettono in evidenza i limiti del totalitarismo. Analizza il concetto di democrazia procedendo con l’individualismo, il neocontrattualismo e il comunitarismo, tre correnti di pensiero di riferimento dentro le quali si muove con agilità esponendo concetti e teorie che ravvisano la necessita di una nuova etica pubblica, etica che crea una nuova identità non più statica ma a mosaico intercambiabile, come esperienza aperta e progressiva che interseca le coordinate orizzontali del passato con quelle verticali del presente, ove ognuno si relaziona e gestisce la propria identità entrando in competizione con le altre. L’etica mantiene una dimensione umanista fondando l’azione dell’uomo sulla preservazione della vita e dell’ambiente che lo ospita, divenendo egli stesso l’artefice della storia in modo cosciente e responsabile. Sollazzo, per superare ogni conflitto etico-politico fra comunitaristi e liberalisti, unisce la tesi delle responsabilità dell’uomo di Hans Jonas con quella di altri filosofi sul “modus”, grazie al quale gli uomini si relazionano adoperando la parola chiave “amami” allo stesso modo di come un amante rivolge la richiesta all’amata. L’etica si costruisce attraverso un patto con l’altro (il prossimo) con la parola chiave “amore”, rappresentante il culmine della capacita della nuova etica che più che affiancarsi alla libertà si affianca alla giustizia. In questo senso Sollazzo non solo aspira ad un rapporto saldo fra etica e politica ma va oltre, pretende un egual rapporto fra etica, diritto e giustizia. Affianca anche la tesi di Deridda sulla necessità di un ripensamento delle istituzioni politiche che, nate in un contesto nazionale, adesso venuto meno, in quanto chiamate ad agire su scala globale. L’eredità del passato di cui siamo portatori in questa nuova dimensione richiede una nuova responsabilità che, considerando l’uomo come un essere calcolabile, fa diventare la morale una incombenza contabile, dove una colpa singola o collettiva origina un debito, che, a sua volta, necessita di un credito etico. Questo credito dovrebbe trarre linfa dal diritto, il rappresentate in terra della giustizia, che legittima ogni risarcimento morale, sociale e politico. Conclude Sollazzo: «non ha molto senso decostruire la comunità se non si decostruisce l’individuo» (p. 242). Il suo lavoro accademico, sotto l’aspetto ontologico e del modo di concepire l’uomo del futuro e il suo habitat, costituisce un tassello prezioso, atto a coprire il vuoto creato dalla rinuncia a “pensare” dell’uomo moderno e a far nascere il laboratorio del dialogo fra entità umane diverse, dando l’avvio ad un cammino plurale e globale con un minimo denominatore comune per la grande catena dell’essere.

(«Nuove pagine», 09/09/2013)

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