sabato 23 novembre 2013

Quante facce ha la banalità del male? Uno studio su Arendt e Dostoevskij

di Alessandro Palladino (alessandropalladino@alice.it; II di 2)

Come è già avvenuto per Eichmann, anche per Ivan il percorso intrapreso costringe a non analizzare tutti gli elementi che riguardano il personaggio dostoevskiano. Ci si limita, quindi, a prendere in considerazione soltanto quegli aspetti ritenuti essenziali per giungere ad un possibile collegamento con Eichmann. Per far ciò, si tenta di ricostruire la personalità di Ivan seguendo le caratteristiche che Dostoevskij stesso disvela, così come esse si susseguono nel romanzo. Ogni aspetto meriterebbe più spazio; ma ai fini del presente studio ci si limita soltanto a ripercorrere brevemente gli episodi che chiariscono la “filosofia” di Ivan Karamazov.
I lettori di Dostoevskij che conoscono anche Eichmann, potrebbero pensare che non ci sia nulla in comune tra Ivan e Eichmann. Effettivamente la prima descrizione che Dostoevskij fornisce di Ivan sembrerebbe confermarlo:
“questo ragazzo cominciò molto presto, fin dall’infanzia (a quanto si diceva, almeno), a manifestare non comuni e spiccate attitudini allo studio.”[1]
A ciò va aggiunto che Ivan era anche laureato in storia naturale. Al termine del presente itinerario si tenterà, invece, di mostrare quanto Ivan ed Eichmann siano vicini.
Il primo episodio del romanzo che bisogna citare si svolge nella riunione della famiglia Karamazov presso lo starets Zosima. In questa occasione il liberale Miusov riferisce i contenuti di un'argomentazione tenuta da Ivan:
“egli dichiarò solennemente in una discussione che in questo mondo non c’è assolutamente niente capace di costringere gli uomini ad amare i propri simili; che non esiste affatto una legge naturale per cui l’uomo debba amare l’umanità; e che, se c’è e c’è stato finora amore sulla terra, non è per una legge di natura, ma unicamente perché gli uomini hanno creduto nella propria immortalità. Ivan Fedorovic aggiunse poi tra parentesi che appunto a questo si riduce ogni legge di natura, cosicché se si distruggerà negli uomini la fede nella propria immortalità, senz’altro si inaridirà in loro non soltanto l’amore, ma ogni energia vitale, capace di perpetuare la vita nel mondo. Non basta: allora non ci sarebbe più niente di immorale, tutto sarebbe lecito, perfino l’antropofagia. Non basta ancora questo: concluse affermando che per ogni singolo individuo, come noi per esempio, che non creda in Dio, né all’immortalità della propria anima, la legge morale della natura deve immediatamente trasformarsi nel perfetto opposto dell’antica legge religiosa, e che l’egoismo spinto magari fino al delitto non solo deve essere permesso all’uomo, ma addirittura riconosciuto come la soluzione più necessaria, più ragionevole e quasi la più nobile delle condizioni in cui si trova.”[2]
Come Zosima rivela, Ivan non crede a ciò che ha espresso nella discussione riportata da Miusov; o comunque tali posizioni non giungono ancora a chiarezza nel suo animo. A conferma di ciò è necessario riportare il dialogo tra Ivan, il fratello minore Alioscia e il padre dei due, Fëdor Pavlovic. Tale dialogo ci informa sulle convinzioni religiose di Ivan; infatti la discussione inizia con la richiesta di Fëdor ad Ivan:
“Dio c’è o non c’è? Sul serio però! Adesso ho bisogno di parlare sul serio.
- No, Dio non c’è.
- Alioscia, Dio c’è?
- Dio c’è.
- Ivan, e l’immortalità esiste, qualcosa di simile nell’aldilà, anche piccola, minuscola?
- Neanche l’immortalità.
- Di nessun genere?
- Di nessun genere.
- Cioè un perfettissimo zero, il nulla. Ma forse ci sarà qualche cosetta? Non sarebbe mai il nulla!
- Lo zero più perfetto.”[3]
Poco dopo questo dialogo, si svolge una scena importante: il fratello maggiore Dmitrij picchia il padre Fëdor in presenza degli altri due fratelli. Ristabilita la situazione, segue un dialogo di grande interesse in cui si chiariscono ulteriormente le idee di Ivan. Alioscia chiede ad Ivan:
“- Fratello, permetti ancora una domanda: ogni uomo ha forse il diritto di decidere, guardando i suoi simili, chi di essi sia degno di vivere e chi non lo sia più?
- Cosa c’entra qui decidere in base ai meriti? – Questo problema non viene quasi mai deciso nei cuori umani in base ai meriti, ma in forza di altri motivi, molto più naturali. Ma quanto al diritto, chi non ha il diritto di desiderare qualcosa?
- Non la morte di un altro però!
- E se anche fosse la morte? Perché mentire a se stessi, quando tutti gli uomini vivono così, e forse non possono vivere altrimenti? Ti riferisci alle mie parole di poco fa, che “i due rettili si divoreranno a vicenda”? Permetti anche a me, allora, di domandarti: mi credi capace, come Dmitrij, di versare il sangue di Esopo, su via, di ucciderlo, eh?”[4]
Nel brano più importante dell’intero romanzo e, forse, dell’intera produzione dostoevskiana, sono ribadite con forza le convinzioni di Ivan. Come è facilmente intuibile si fa riferimento alla Leggenda del Grande Inquisitore e al paragrafo che la precede. In questo contesto non è possibile analizzare in profondità gli straordinari temi che tale brano pone; ci si limita soltanto ad enucleare schematicamente le posizioni di Ivan. Anzitutto Ivan nega il mondo, anche ammettendo una possibile e futura armonia:
“immaginati ora che io non accetti questo mondo di Dio, pur sapendo che esiste, anzi non lo ammetto affatto. Non è Dio che non accetto, capisci, ma il mondo da Lui creato, è il mondo di Dio che non accetto e non posso decidermi ad accettare.”[5]
In realtà, a dispetto di ciò che Ivan afferma, la negazione della creazione è già la negazione di Dio. La sofferenza inutile patita dai bambini, rende inaccettabile per Ivan qualsiasi armonia futura, poiché non è riscattabile a nessun costo. In continuità con questa “rivolta” di Ivan (come è definita da Alioscia che lo ascolta), il fratello maggiore racconta il suo poema: la Leggenda del Grande Inquisitore. In conformità con la negazione del mondo creato e, quindi, di Dio; nella Leggenda assistiamo all’unico atteggiamento coerentemente possibile date queste premesse: la correzione dell’opera di Dio (schierandosi con il diavolo) e la descrizione del mondo che ne deriva.
Subito dopo aver raccontato al fratello Alioscia il suo poema, Ivan incontra il servo Smerdjakov. Questo incontro è importante per il discorso qui portato avanti, perché è l’episodio che permette di comprendere, seppur retrospettivamente, l’avanzare della follia di Ivan. Come si vedrà più oltre, il tema della follia di Ivan tornerà prepotentemente all’attenzione. In merito all’incontro con Smerdjakov bisogna sottolineare che tale follia si manifesta nella forma coscienziale-letteraria tanto cara a Dostoevskij: lo sdoppiamento. Smerdjakov, come la trama del romanzo chiarirà con il suo svolgersi, è l’esecutore delle idee professate da Ivan e che precedentemente sono state riportate.[6] 
Infatti, Smerdjakov è l’assassino di Fëdor Pavlovic e non Dmitrij. Ivan cerca fino all’ultimo di nascondere a se stesso che l’assassino è Smerdjakov, poiché inizia a comprendere che se fosse così, allora anche lui sarebbe complice del delitto. In tre dialoghi colmi di tensione, Smerdjakov svela ad Ivan la verità e, con sua grande sorpresa, si rende conto di come il suo padrone Karamazov ignori ciò che è avvenuto:
“- Siete stato voi ad uccidere, siete stato voi il principale assassino, io sono stato solo il vostro aiutante, il vostro servo fedele Liciarda, ed ho agito solo secondo le vostre parole.
- Agito? Allora l’hai ucciso tu? – Ivan divenne di ghiaccio. [...]
- Ma davvero voi non sapevate niente? – balbettò incredulo, sogghignandogli in viso.”[7]
La vicenda inizia a chiarirsi. Smerdjakov ha ascoltato soltanto una delle due voci che parlano in Ivan, quella che esprime il lato peggiore. Ma queste due voci non sono chiare, ancora, allo stesso Ivan che così non può comprendere perché Smerdjakov possa accusarlo di essere suo complice.
Continua Smerdjakov:
“ - Ma è possibile che ancora non sapevate niente? – domandò di nuovo Smerdjakov.
- No, non lo sapevo. Ho sempre creduto che fosse stato Dmitrij. Ah! Fratello, fratello! – All’improvviso si afferrò la testa tra le mani. – Senti: l’hai ucciso da solo? Con mio fratello o senza?
- Con voi, è solo con voi che ho ucciso, Dmitrij Fëdorovic è innocente.
- Va bene, va bene... parleremo più tardi di me. Ma perché continuo a tremare?... Non riesco a dire una parola.
- Allora eravate tanto deciso, “tutto è permesso”, dicevate, e adesso, guarda come siete spaventato! Mormorò Smerdjakov stupito.”[8]
A questo punto Smerdjakov racconta nei dettagli come ha escogitato e come si è svolto l’assassinio. Ribadisce come Ivan sia stato complice, poiché ha acconsentito al delitto, ben sapendo cosa sarebbe successo:
“dopo il nostro colloquio, potevate partire o rimanere. Se restavate, allora non sarebbe accaduto niente, avrei subito capito che voi eravate contrario e non avrei agito. Ma dato che siete partito, questa era la vostra garanzia che non mi avreste denunciato alla giustizia e che mi perdonavate per quei tremila rubli. In seguito non avreste più potuto perseguirmi, perché in quel caso avrei raccontato ogni cosa in tribunale, non certo che avevo rubato e ucciso, questo non l’avrei mai detto, ma che voi mi avevate istigato ad uccidere e a rubare, e che io mi ero rifiutato. Ecco perché mi serviva in quei momenti il vostro consenso: perché vi sareste poi trovato nell’impossibilità di accusarmi; infatti, in mano vostra, che potere restava? Mentre io potevo sempre mettervi alle strette, rivelando a che punto desideravate la morte di vostro padre, e, vi giuro, tutti mi avrebbero creduto e voi sareste stato disonorato per tutta la vita.
- Ma davvero desideravo questo? – digrignò di nuovo i denti Ivan.
- Certamente, e col vostro consenso mi autorizzavate ad agire, - disse Smerdjakov, fissando Ivan.”[9]
Poco dopo, nello stesso dialogo, Smerdjakov ribadisce chiaramente come il suo agire non sia stato altro che l’attuazione delle idee di Ivan:
“Prima pensavo di iniziare una nuova vita a Mosca con questo denaro, o ancora meglio all’estero, questo era il mio sogno, dato che “tutto è permesso”. Proprio questo voi mi avete insegnato, spiegandomi spesso che, se un Dio infinito non esiste, non esiste neppure la virtù, anzi in un caso simile non ce n’è affatto bisogno. Così dicevate. E così ho ragionato io.
- Ci sei arrivato col tuo cervello? – ridacchiò Ivan.
- Con la vostra guida.
- Ma ora, che restituisci il denaro, credi allora in Dio?
- No, non ci credo,  mormorò Smerdjakov.
- Ma allora perché lo restituisci?
- Basta... non serve a niente parlarne! – Smerdjakov fece di nuovo un gesto con la mano. – Voi stesso dicevate sempre che tutto è permesso, e adesso perché vi agitate tanto? Volete perfino denunciarvi... ma non farete niente! Non ci andrete! – ripeté, con profonda convinzione, Smerdjakov.
- Lo vedrai,  disse Ivan.
- Non può accadere. Siete troppo intelligente. Amate il denaro, lo so, e anche la stima degli altri, perché siete molto orgoglioso; le donne le amate ancora di più, soprattutto vi piace vivere tranquillamente, senza far di cappello a nessuno: questo più di tutto. Non vorrete mica rovinarvi per sempre la vita, disonorandovi così in tribunale. Siete come Fëdor Pavlovic, tra tutti i figli, voi siete quello che gli somiglia di più, siete una stessa anima.”[10]
Al termine di questo dialogo con Smerdjakov, Ivan cade nella follia. Comprendendosi colpevole dell’assassinio del padre, non riesce a reggere mentalmente e fisicamente a questo evento che, tuttavia, è la logica conseguenza delle sue idee. Questo quadro, seppur brevemente descritto, è indispensabile per comprendere “l’incubo” di Ivan: il diavolo. In realtà Ivan, quando riferisce questo episodio ad Alioscia, non è già più in grado di distinguere tra realtà e sogno-incubo. Nel presente studio è indispensabile concentrarsi sui caratteri del diavolo, così come si presenta ad Ivan, perché è proprio qui che risiede il punto di congiunzione con Eichmann.
Il diavolo si presenta ad Ivan come un normale gentiluomo russo sulla cinquantina, ben vestito anche se con qualche pecca. Anzitutto, anche nel caso del diavolo si è in presenza di un rapporto tra sosia. Le parole di Ivan in proposito sono chiarissime:
“Tu sei l’incarnazione di me stesso, però di una sola parte di me stesso... dei miei pensieri, dei miei sentimenti, ma solo di quelli più vili e più stupidi. Da questo lato potresti anche riuscirmi interessante, se avessi tempo da perdere con te...”[11]
A questo punto, è essenziale citare nella sua integrità la descrizione che il diavolo fa di se stesso:
“ - Amico mio, voglio essere un gentiluomo, ed essere trattato come tale,  cominciò l’ospite in un accesso di amor proprio da vero parassita, già prima remissivo e benevolo. – Sono povero, ma... non dirò certo di essere onesto, ma... comunemente, in società, si accetta come un assioma che io sia un angelo decaduto. In fede, non riesco ad immaginarmi come una volta possa essere stato un angelo. Anche se lo sono stato, è passato talmente tanto tempo che non faccio peccato se cerco di dimenticarmene. Oggigiorno ci tengo solo alla mia reputazione di gentiluomo e vivo come capita cercando di essere gradito. Amo sinceramente gli uomini; oh, sono stato molto calunniato! Qui, quando, di tanto in tanto, mi trasferisco tra voi, la mia vita trascorre come qualcosa che esiste realmente, e che mi è gradita più di qualsiasi altra cosa. Vedi, il fantastico fa soffrire anche me, come te, per questo amo la vostra realtà terrestre. Qui, da voi, tutto è così ben determinato, tutto è formule e geometria; da noi, invece, solo equazioni indefinite! Qui, passeggio e medito. A me piace meditare. Inoltre sulla terra divento superstizioso. Qui, prendo le vostre abitudini: figurati che ho preso gusto a frequentare il bagno pubblico, e a fare il bagno in compagnia dei mercanti e dei preti. Il mio sogno è di incarnarmi, ma definitivamente, irrevocabilmente, in qualche mercantessa che superi i cento chili e di credere in tutto quello che crede lei. Il mio ideale sarebbe di entrare in una chiesa e di accendere una candela di buon cuore: Dio sa se è così. Allora le mie sofferenze sarebbero finite. Mi piacciono anche i vostri sistemi di cura: in primavera è scoppiato il vaiolo, ho preso e sono andato a vaccinarmi; se sapessi come ero felice quel giorno! Ho dato anche dieci rubli per i fratelli slavi! [...]
- Eppure l’anno scorso mi sono preso dei reumatismi che me ne ricordo ancora.
- Il diavolo con i reumatismi?
- E perché no, se a volte mi incarno? Incarnandomi, ne accetto tutte le conseguenze. Satana sum et nihil humani a me alieni puto.
- Come, come? Satana sum et nihil humani... non è affatto stupido per un diavolo.”[12]
Poco dopo, il diavolo fornisce ad Ivan un’ulteriore concezione di sé e del proprio ruolo nel mondo:
“Amico mio non sta mica tutto nell’intelligenza! Di natura io ho un cuore buono e gioviale: “Ho fatto anch’io dei vaudevilles”. A quanto sembra, tu mi prendi proprio per un vecchio Chlestakov, ma la mia parte è molto più seria. Da un tempo immemorabile un decreto mi ha affibbiato il compito di “negare”, e tuttavia sono completamente inetto alla negazione e sinceramente buono. “No, bisogna che tu neghi, senza negazione non ci sarebbe critica”, e che razza di giornale sarebbe quello che non ha la “pagina della critica”? Senza la critica, serebbe tutto un osanna. Ma per la vita l’osanna non basta, serve che questo osanna passi per il crogiolo del dubbio, e così via su questo tono. Del resto, io non mi immischio in tutto questo, non è opera mia e non me ne preoccupo. Mi hanno scelto come capro espiatorio, mi hanno costretto a scrivere nella pagina della critica, e la vita ha avuto inizio. Noi comprendiamo questa commedia: io, ad esempio, miro soltanto e semplicemente a sopprimermi. No, mi dicono, vivi perché senza di te non esisterebbe niente. Se, sulla terra, tutto fosse conforme alla ragione, non sarebbe mai accaduto niente. Senza di te non ci sarebbero eventi; invece c’è bisogno che ce ne siano. E così, col cuore indurito, eccomi occupato a suscitare eventi, e ad operare l’irragionevole su ordinazione. Gli uomini, malgrado la loro incontestabile intelligenza, prendono tutta questa commedia per una cosa seria. In questo punto giace tutta la loro tragedia. Allora, soffrono, certo, ma... in cambio, vivono, vivono una vita reale e non fantastica; il dolore, infatti, è vita. Senza dolore, che piacere ci sarebbe nella vita? Tutto il mondo si ridurrebbe ad un Te Deum senza fine: cosa santa, ma noiosa. Allora, e io? Soffro, ma non vivo. Sono il fantasma di una equazione indeterminata, e ho anche finito per dimenticarmi il mio nome. Tu ridi... no, non ridi, sei di nuovo arrabbiato. Ti arrabbi sempre, vorresti solo dello spirito, ma io torno a ripeterti che darei tutta questa mia vita siderale, tutti i miei gradi e onori, solo per incarnarmi nell’anima di una mercantessa di cento chili e per accendere delle candele a Dio.”[13]    
Questo è precisamente il punto che ha maggior interesse per l’ipotesi interpretativa che il presente studio intende portare avanti. Nel suo incubo, Ivan dà vita alla visione del male in persona: al diavolo. Fatto di enorme interesse, questo diavolo è banale. Bisogna subito chiarire che questa banalità del diavolo non è imputabile alla follia di Ivan; vale a dire, non è lo stato di malattia di Ivan a generare la visione di un diavolo menomato. Si assiste, invece, a qualcosa di estremamente più profondo. La visione del diavolo espressa da Ivan è la visione che Dostoevskij stesso ha del male. Come si è dichiarato all’inizio (vedi nota 1 [della parte I di 2 del presente testo, NdC]), tutta l’argomentazione qui sviluppata, ha preso l’avvio da uno spunto del filosofo italiano Luigi Pareyson. è quindi necessario fare riferimento alla tesi di Pareyson e analizzare i possibili sviluppi che permette. Afferma Pareyson:
“Il diavolo non è più Lucifero, l’angelo decaduto, meravigliosamente bello nella sua luce infernale e terribilmente sublime nei bagliori del fuoco: da Satana, splendente della luce fredda e sinistra d’un astro notturno o del sole nero, si è trasformato in un gentiluomo mediocre e convenzionale, vestito in modo elegante ma non impeccabile, completamente conciliato con la realtà e bisognoso di concretezza, che vuole adottare tutte le abitudini umane, e preferisce la solida determinatezza del mondo dell’uomo alla fumosità del proprio regno, e non ha altro ideale che “incarnarsi definitivamente in una grossa bottegaia che pesi un quintale, e poi credere a tutto quello che crede lei, e andare in chiesa e accendere una candela con tutto il cuore”. Col farsi banale il diavolo rende banale tutto quello che tocca: egli può anche credere in Dio e andare a messa, giacché Dio è ridotto ad una semplice idea, che tutti possono ammettere tanto essa è larvale, e andare a messa è nient’altro che una convenzione in cui tutti possono ritrovarsi.”[14]
La banalizzazione del male consente a quest’ultimo una perfetta aderenza con la realtà, con la quale viene a confondersi. Ma, come spiega acutamente Pareyson, ciò rappresenta non la sconfitta del male, quanto il suo trionfo:
“Ma questa banalizzazione del diavolo non è una sua menomazione o estenuazione, bensì la sua completa inserzione nella realtà, e quindi il suo trionfo. Il diavolo tanto più acquisisce in realtà ed efficacia quanto più la sua immagine perde in spicco ed evidenza, al punto che si potrebbe dire che la vittoria del diavolo non ha luogo se non attraverso la sua scomparsa. L’opera più perfetta del diavolo consiste del resto nel convincere ch’egli non esiste: sulla base di questa convinzione ogni difesa contro il male viene smantellata, giacché non si lotta con chi non esiste, e così il diavolo ha vinto.”[15]
Dopo queste parole, lo stesso Pareyson collega la concezione del male espressa da Dostoevskij con il male incarnato da Hitler e dai suoi collaboratori:
“Il carattere diabolico di Hitler è confermato, non smentito, dal suo presentarsi in veste dimessa, mediocre e ordinaria, nel suo aspetto piccolo borghese e impiegatizio, con la nevicatina di forfora sulle spalle e l’impermeabile sul vestito scuro; e così si dica dei suoi più feroci collaboratori, simili a diligenti funzionari e onesti padri di famiglia. Il carattere soporifero del banale con la sua apparente affidabilità disarma la vigilanza e ottunde le difese, e col suo aspetto innocuo porta alla negazione completa.”[16]
Come giustamente fa notare Pareyson, questo quadro non è nient’altro che la realizzazione del “tutto è permesso” professato da Ivan e che, interiorizzato da Smerdjakov, porta all’uccisione di Fëdor Pavlovic:
“Egli (Ivan) è più moderno e più attuale, perché oltrepassa quel nichilismo religioso e nostalgico, ed esercita la sua azione distruttiva in modo più sottile, più ambiguo, più accomodante, e perciò più radicale. Il suo è un nichilismo quotidiano e tranquillo, del tutto corrispondente al diavolo banalizzato e perciò vittorioso: è una negazione talmente universalizzata e totale da identificarsi completamente con la realtà. E questo perché attraverso il “tutto è permesso” è passato dalla ribellione incandescente ed eroica alla totale liberazione e alla soddisfazione quotidiana. Si tratta anzi della completa realizzazione del “tutto è permesso”: l’eliminazione della scelta porta con sé l’assenza di ogni dilemma, e quindi il superamento dei problemi, dei drammi, delle angosce della vita; la completa identificazione di sé con sé sopprime gli aspetti più crudeli dell’identità personale, e garantisce la scomparsa di remore, ostacoli, impedimenti, rimpianti, rimorsi, pentimenti; la rigenerazione è istantanea e continua, e coincide con lo stesso presente nel suo perpetuo rinnovarsi”.[17]
Le riflessioni di Pareyson appena riportate, fanno già ampiamente intravedere come sia possibile istituire un collegamento tra ciò che si è detto di Eichmann e quanto riportato in merito alla visione del diavolo di Ivan Karamazov. Tuttavia Pareyson lascia indeterminato questo collegamento. Il presente studio tenta, quindi, di proseguire la riflessione del filosofo italiano, cercando di individuare concretamente quelli che possono essere i punti di contatto tra la banalità del male in Arendt e in Dostoevskij.
Prima di analizzare la relazione sussistente tra Eichmann e il diavolo (che va considerato come il sosia di Ivan), è essenziale fare delle precisazioni. Innanzitutto, va sottolineato che i percorsi seguiti da Arendt e Dostoevskij sono molto differenti l’uno dall’altro. è ormai evidente che il punto di arrivo dei due pensatori in merito alla banalità del male ha delle forti convergenze, ciò nonostante, queste stesse convergenze possono essere giustamente valutate solo guardando ai rispettivi percorsi di Arendt e Dostoevskij. In sostanza, Arendt osserva un uomo reale, protagonista di un evento storico. Le riflessioni della filosofa tedesca si riferiscono ad una realtà che già ha avuto luogo. Valutando quanto prodotto da questo evento storico (in questo caso il nazismo), Arendt giunge a formulare la banalità del male. Ben diverso è il discorso da fare per quanto riguarda Dostoevskij. In quest’ultimo caso si è in presenza di un itinerario assolutamente differente. Dostoevskij è un romanziere e come tale opera. Per quanto fosse uno straordinario osservatore degli eventi della Russia e dell’Europa del suo tempo, è in un certo senso in anticipo sulla realtà. La concezione del male che lo scrittore russo esprime attraverso Ivan è il culmine del percorso di tutta la sua carriera.[18] Nel caso specifico di Ivan, la banalità del male va letta come un fenomeno religioso: la concezione del male che la mente delirante di Ivan concepisce (il diavolo), è dovuta al suo ateismo, ben riassumibile nella frase “se Dio non esiste, tutto è permesso”. La matrice religiosa da cui Dostoevskij elabora la sua straordinaria concezione del male, non toglie, tuttavia, il valore universale che ha questa stessa concezione. Proprio in virtù di questa universalità è pensabile un confronto con Arendt.
Un primo punto su cui è immaginabile un confronto tra Arendt e Dostoevskij riguarda l’impossibilità di riconoscere il male per ciò che è. A questo proposito le parole di Arendt sono chiarissime: “Il male, nel Terzo Reich, aveva perduto la proprietà che permette ai più di riconoscerlo per quello che è – la proprietà della tentazione.” Un male verso il quale non si è più tentati, è un male completamente calato nella realtà e nelle abitudini della società (in questo caso quella tedesca). Ciò significa che non si ha più potere di discernimento e di scelta nei confronti di nulla, compreso mandare a morte milioni di ebrei. In questo senso possono essere interpretate le parole del diavolo-Ivan: “Satana sum et nihil humani a me alieni puto”.
Questo farsi tutt’uno con la realtà, come afferma Pareyson, segna il trionfo del male, poiché non si hanno più difese contro di esso. Il male può così dispiegarsi indisturbato in tutta la sua potenza distruttrice. Ma, come Arendt sottolinea a proposito di Eichmann, per verificarsi un evento simile, tutta una comunità deve essere anestetizzata nei confronti del male. Così accade che un’intera comunità, come gli ottanta milioni di tedeschi al tempo del nazismo, sono contemporaneamente persone “normali” e spietati carnefici o osservatori disinteressati (salvo rare eccezioni). Essere insensibili al male equivale a non rendersi conto se lo si compie o meno. In tal senso va pensata la difficoltà giuridica nel considerare gli atti di Eichmann come quelli di un criminale, proprio perché manca l’intenzione di farli. Arendt afferma di Eichmann che “non capì mai cosa stava facendo” e che ciò accadde per “mancanza di immaginazione”, “mancanza di idee”. Insomma, Eichmann non era in grado di pensare oltre la realtà immediatamente presente e che riguardasse la sua carriera. Pertanto Arendt può affermare: “quella lontananza dalla realtà e quella mancanza di idee possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo”. Ma Dostoevskij non aveva forse compreso tutto questo ben prima che la realtà lo testimoniasse? Per tentare di rispondere a questa domanda bisogna cercare di interpretare la concezione del romanziere russo (con tutti i rischi di forzatura che ciò comporta).
Nel romanzo I Fratelli Karamazov il diavolo, come si è visto, esprime una concezione di sé come “banale”, confermata anche dalla sua individuazione empirica. Detto questo, bisogna tenere sempre presente che parlare del diavolo implica parlare, seppur in un rapporto di sdoppiamento, anche di Ivan (e viceversa). Per rispondere alla domanda di cui sopra, è necessario fare riferimento proprio ad Ivan.
Ivan afferma di essere uno “spirito euclideo”. In un dialogo con il fratello Alioscia, poco prima che enunci la Leggenda del Grande Inquisitore, Ivan afferma:
“Confesso umilmente di non avere alcuna attitudine a risolvere tali problemi, ho uno spirito euclideo, terrestre; e perciò come potremmo discutere di ciò che non è di questo mondo? E consiglio anche a te di non pensare a queste cose, amico Alioscia, e tanto meno a proposito di Dio, se esiste o meno. Sono tutti problemi inadatti a uno spirito creato con la sola nozione delle tre dimensioni.”[19]
Questa affermazione di Ivan, per essere compresa in tutta la sua portata, va comparata con quanto Ivan stesso afferma, secondo il racconto del liberale Miusov: “se c’è e c’è stato amore sulla terra, non è per una legge di natura, ma unicamente perché gli uomini hanno creduto nella propria immortalità; cosicché se si distruggerà negli uomini la fede nella propria immortalità allora non ci sarebbe più niente di immorale, tutto sarebbe lecito, perfino l’antropofagia.” Le due affermazioni di Ivan sono con tutta evidenza contraddittorie. Infatti, testimoniano la scissione interna di questo personaggio, che come si è visto sarà una delle cause dell’assassinio di Fëdor Pavlovic. Ivan farà propria la prima concezione tra queste due contraddittorie. Ma ciò che qui deve essere valutato rispetto alla concezione propria dello “spirito euclideo”, è la nozione di immaginazione.
Come si è visto, una delle cause per le quali Eichmann “non capì mai cosa stava facendo”, è dovuta alla sua mancanza di immaginazione e di idee. L’immaginazione e le idee permettono di relazionarsi alla realtà in modo attivo, critico; lungi da quella lontananza dal reale propria di Eichmann. Ora, Ivan si rifiuta di immaginare una realtà diversa da quella che non sia rivelata dalle sue “tre dimensioni”. Ma ciò significa ammettere, seguendo il ragionamento che porta ad escludere la fede nell’immortalità dell’anima, che “tutto è permesso”, anche l’uccisione del proprio padre. Da qui ha inizio la tragedia personale di Ivan che, capendo di essere in qualche modo complice del delitto del padre, cadrà nella follia; quella stessa follia che darà vita alla visione del diavolo banale. Quanto quest’ultimo sia lo sdoppiamento di Ivan, è confermato da un’affermazione del diavolo oltremodo significativa: “vedi, il fantastico fa soffrire anche me, come te, per questo amo la vostra realtà terrestre”. Proprio perché è il doppio di Ivan, anche il diavolo soffre il fantastico. Si può dedurne, allora, come il diavolo non voglia far altro che aderire perfettamente alla realtà, annullarsi e non essere più riconoscibile: “io, ad esempio, miro soltanto e semplicemente a sopprimermi.”
Questi stralci rivelano come la concezione della banalità del male è, nei suoi effetti ultimi, pensata allo stesso modo sia da Arendt che da Dostoevskij. Certamente la concezione del male di Dostoevskij è tutta inscritta nel suo pensiero di matrice religiosa, cosa che non si può certo dire di Arendt. In definitiva, però, queste due concezioni della banalità del male possono essere valutate come due facce della stessa medaglia.   
Ciò permette anche di esprimere una valutazione sul rapporto tra letteratura e filosofia; a loro volta le due facce di questa medaglia. Dostoevskij grazie alla sua incredibile creatività e perspicacia, riesce ad elaborare quella concezione della banalità del male che circa mezzo secolo dopo si sarebbe attuata con tutta la sua distruttività. Questa stessa concezione avrà poi in Arendt una puntuale osservatrice. Parafrasando Hegel, la filosofia è come la Nottola di Minerva, arriva quando la realtà è già fatta. Si potrebbe avanzare, allora, l’ipotesi che la letteratura, in virtù del suo linguaggio, del suo metodo e degli orizzonti della vita che è in grado di investigare, riesce a precedere la filosofia. Eppure, proprio ciò che sembrerebbe distaccare letteratura e filosofia, in realtà le unisce. Vale a dire che anche se la letteratura può venire in possesso di una verità prima della filosofia, la comprensione razionale di questa stessa verità non può che essere un’operazione filosofica.
Stando a quanto afferma Arendt, nel caso di Eichmann questa operazione non è avvenuta. Nel suo saggio sulla banalità del male la filosofa afferma: “questa fu la lezione di Gerusalemme. Ma era una lezione, non una spiegazione del fenomeno, né una teoria.”
Ma se è vero quanto questo studio ha cercato di mostrare, la “lezione di Gerusalemme” era stata già magistralmente anticipata da Dostoevskij più di cinquant’anni prima.


[1] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Rusconi, Milano 2004, cit. p. 13.
[2] Id., op. cit., pp. 74-75.
[3] Id., op. cit., p. 151.
[4] Id., op. cit., p. 161.
[5] Id., op. cit., p. 262.
[6] Non è mai stato osservato come Smerdjakov ed Ivan abbiano la stessa età: ventiquattro anni. Questo è un ulteriore indizio che spinge a considerare il loro rapporto come un rapporto tra sosia. Tutto il dialogo tra i due (cfr. F. Dostoevskij, op. cit. pp. 291-307.), è una magistrale costruzione narrativa di Dostoevskij. Sulla scena ci sono tre voci, anche se i personaggi sono due: Smerdjakov e le due voci in cui Ivan è scisso e che quest’ultimo non riesce a ricomporre sotto l’unità dell’Io. A complicare il quadro c’è l’incapacità di entrambi di rendersi conto del fatto che il dialogo è a tre: Smerdjakov non capisce che in Ivan è come se parlassero due voci (su questa circostanza si fonda tutto l’equivoco evidenziato nel dialogo citato), per cui egli ne coglie una soltanto che poi sarà quella che lo porterà ad essere l’esecutore del delitto. Ivan non può comprendere di essere scisso, quindi non può capire a sua volta come Smerdjakov prenda per buone le idee che in Ivan stesso ancora non giungono a chiarimento. Dostoevskij è insuperabile nel mantenere in piedi questa creazione narrativa, lasciando sempre in equilibrio questo “gioco” che non deve essere mai apertamente svelato al lettore. Un ulteriore elemento a favore della tesi secondo la quale Smerdjakov è il sosia di Ivan, consiste nel fatto che entrambi finiscono nella follia. Per comprendere fino in fondo l’importanza di questo brano, bisogna considerare che Dostoevskij stesso affermò che l’idea del sosia è la più grande idea che egli avesse mai escogitato ed apportato in letteratura.
[7] Id., op. cit., pp. 661-662.
[8] Id., op. cit., p. 663.
[9] Id., op. cit., pp. 665-666.
[10] Id., op. cit., pp. 669-670.
[11] Id., op. cit., p. 676.
[12] Id., op. cit., pp. 676-677.
[13] Id., op. cit., pp.679-680.
[14] L. Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino, 1993, p. 193-194.
[15] Id., op. cit., p. 194.
[16] Ibidem.
[17] Id., op. cit., pp. 194-195.
[18] In questo senso si è fatto riferimento all’opportunità di confrontare la banalità del male concepita da Arendt non solo con Ivan Karamazov, ma anche con altri personaggi come Stavrogin.
[19] F. Dostoevskij, op. cit., p. 261.

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