di Alessandro Palladino (alessandropalladino@alice.it; I di 2)
Nel presente studio si tenterà di verificare l’esistenza di un possibile collegamento tra la celebre formula utilizzata da Hannah Arendt nei confronti del criminale nazista Eichmann (la banalità del male), e il personaggio dostoevskiano di Ivan Karamazov[1]. Il procedimento adottato verte anzitutto sulla ricostruzione dell’uomo Eichmann, così come viene descritto da Arendt. Particolare attenzione è centrata sui problemi di carattere morale che tale descrizione comporta. In seguito si tenterà di stabilire se è possibile ipotizzare una relazione tra Eichmann e Ivan Karamazov, proprio alla luce del concetto di banalità del male. Tale relazione, se riscontrata, permette di pensare, da un altro punto di vista, la concezione del male che Dostoevskij esprime attraverso il personaggio di Ivan. Le acquisizioni che il presente studio crede di poter apportare, consentiranno, inoltre, di esprimere una considerazione generale sul rapporto tra filosofia e letteratura.
Come precedentemente dichiarato, il presente studio intende iniziare dalla ricostruzione dell’uomo Eichmann, così come Arendt ne sviluppa la vicenda processuale (bisogna precisare che tale percorso non pretende di esaurire le molteplici problematiche che vengono sollevate dal saggio di Arendt). Per cogliere la personalità di Eichmann, è utile fare riferimento alla prima descrizione che Arendt fornisce:
“la giustizia vuole che ci si occupi soltanto di Adolf Eichmann, figlio di Karl Adolf Eichmann, l’uomo rinchiuso nella gabbia di vetro costruita appositamente per proteggerlo: un uomo di mezza età, di statura media, magro, con un’incipiente calvizie, dentatura irregolare e occhi miopi, il quale per tutta la durata del processo se ne starà con lo scarno collo incurvato sul banco (neppure una volta si volgerà a guardare il pubblico) e disperatamente cercherà (riuscendovi quasi sempre) di non perdere l’autocontrollo, malgrado il tic nervoso che gli muove le labbra e che certo lo affligge da molto tempo.”[2]
è importante, per il fine perseguito in questo studio, cercare di rendere manifesta la concezione che Arendt ha di Eichmann; concezione da cui dipende la formula della banalità del male, qui al centro dell’attenzione. Diviene necessario, quindi, esplicitare quali sono i convincimenti dell’imputato rispetto ai mostruosi crimini di cui è accusato. Puntualmente Arendt fornisce preziose informazioni in proposito:
“Richiesto su ciascun punto se si considerasse colpevole, Eichmann rispose: “Non colpevole nel senso dell’atto d’accusa”. In quale senso si riteneva colpevole? Nel corso dell’interminabile interrogatorio, che secondo le parole dello stesso imputato fu “il più lungo” che mai ci fosse stato, né la difesa né l’accusa e nemmeno i giudici si presero la briga di rivolgergli quell’ovvia domanda.”[3]
La stessa Arendt cerca di chiarire rispetto a cosa si sentisse colpevole Eichmann. è di fondamentale importanza la chiarificazione di questo punto, poiché è a partire da qui che si inizia a districare la peculiare personalità dell’imputato. Afferma Arendt:
“Innanzitutto, a suo avviso l’accusa di omicidio era infondata: “con la liquidazione degli ebrei io non ho mai avuto a che fare; io non ho mai ucciso né un ebreo né un non ebreo, insomma non ho mai ucciso un essere umano; né ho mai dato l’ordine di uccidere un ebreo o un non ebreo: proprio, non l’ho mai fatto.” E più tardi, precisando meglio questa affermazione, disse: “è andata così... non l’ho mai dovuto fare” – lasciando intendere chiaramente che avrebbe ucciso anche suo padre, se qualcuno glielo avesse ordinato. Per questo non si stancò mai di ripetere ciò che già aveva dichiarato nei cosiddetti documenti Sassen, ossia nell’intervista che nel 1955, in Argentina, aveva concesso al giornalista olandese Sassen (un ex-membro delle SS che come lui si era sottratto alla giustizia riparando all’estero) e che dopo la sua cattura venne parzialmente pubblicata da Life in America e da Der Stern in Germania, e cioè che poteva essere accusato soltanto di avere “aiutato e favorito” lo sterminio degli ebrei, sterminio che effettivamente, riconobbe a Gerusalemme, era stato “uno dei più grandi crimini della storia dell’umanità.” La difesa non si curò della teoria personale di Eichmann, ma l’accusa dedicò molto tempo a cercare di dimostrare che Eichmann, almeno in un caso, aveva ucciso di propria mano (un ragazzo ebreo in Ungheria), e ancor più tempo dedicò, questa volta con più successo, ad analizzare un appunto che Franz Rademacher, esperto di questioni ebraiche al ministero degli Esteri del Reich, aveva scarabocchiato durante una conversazione telefonica con Eichmann su un documento che riguardava la Jugoslavia: “Eichmann propone la fucilazione.” Questo risultò l’unico “ordine di uccidere”, ammesso che tale fosse da considerarsi, per cui esistesse almeno un’ombra di prova.”[4]
Dalle parole di Arendt si inizia a delineare la personalità dell’imputato e la sconcertante dissonanza tra i crimini commessi e le affermazioni fatte in sede processuale. Bisogna dire, come più volte Arendt ripete, che tali affermazioni sono, con ogni probabilità, da ritenersi sincere. Ciò che è sconcertante oltre ogni misura, è la dichiarazione di Eichmann secondo la quale egli non si riteneva colpevole “nel senso dell’atto d’accusa”. Giustamente la filosofa tedesca torna in diversi punti sull’interpretazione che è possibile fare di queste parole di Eichmann. Arendt cerca di immedesimarsi nell’imputato e afferma:
“Forse egli si sarebbe riconosciuto colpevole se fosse stato accusato di concorso in omicidio? Può darsi di sì, ma sicuramente avrebbe sollevato importanti obiezioni. Le sue azioni erano criminose soltanto guardando retrospettivamente, e lui era sempre stato un cittadino ligio alla legge, poiché gli ordini di Hitler – quegli ordini che certo egli aveva fatto del suo meglio per eseguire – possedevano “forza di legge.”[5]
Dalle ultime parole citate, Arendt sostiene che Eichmann commise i crimini di cui era accusato, per aver rispettato la legge. è del tutto evidente che porre la questione in questi termini, equivale ad interrogarsi sulla coscienza dell’imputato. Non è un caso, infatti, che subito dopo l’ultima citazione riportata, Arendt stessa si interroga su questo punto, lasciando intravedere il lato più sconcertante di Eichmann:
“Per tutto il processo Eichmann cercò di spiegare, quasi sempre senza successo, quest’altro punto grazie al quale non si sentiva “colpevole nel senso dell’atto d’accusa.” Secondo l’atto d’accusa egli aveva agito non solo di proposito, ma anche per bassi motivi e ben sapendo che le sue azioni erano criminose. Ma quanto ai bassi motivi, Eichmann era convintissimo di non essere un innerer Schweinehund, cioè di non essere nel fondo dell’anima un individuo sordido e indegno; e quanto alla consapevolezza, disse che sicuramente non si sarebbe sentito la coscienza a posto se non avesse fatto ciò che gli veniva ordinato – trasportare milioni di uomini, donne e bambini verso la morte – con grande zelo e cronometrica precisione. Queste affermazioni lasciavano certo sbigottiti. Ma una mezza dozzina di psichiatri lo aveva dichiarato “normale”, e uno di questi, si dice, aveva esclamato addirittura: “Più normale di quello che sono io dopo che l’ho visitato”, mentre un altro aveva trovato che tutta la sua psicologia, tutto il suo atteggiamento verso la moglie e i figli, verso la madre, il padre, i fratelli, le sorelle e gli amici era “non solo normale, ma ideale”; e infine anche il cappellano che lo visitò regolarmente in carcere dopo che la Corte Suprema ebbe finito di discutere l’appello, assicurò a tutti che Eichmann aveva “idee quanto mai positive.”[6]
Affermazioni del genere rendono assolutamente urgente la necessità di considerare il criminale Eichmann abbandonando le consuete categorie morali generalmente adottate. In tal senso bisogna intendere le ripetute critiche che Arendt fa all’intera impostazione del processo. Ad esempio, la filosofa tedesca crede che Eichmann sia sincero quando afferma di non odiare gli ebrei (anche se ha contribuito attivamente a mandarne a morte milioni). Anzi, è proprio questo aspetto a definirlo e, paradossalmente, a renderlo comprensibile. Ma, come Arendt sottolinea più volte, ciò non è stato intuito:
“Ahimè nessuno gli credette. Il Pubblico Ministero non gli credette perché la cosa non lo riguardava; il difensore non gli dette peso perché evidentemente non si curava dei problemi di coscienza; e i giudici non gli prestarono fede perché erano troppo buoni e forse anche troppo compresi dei principi basilari della loro professione per ammettere che una persona comune, “normale”, non svanita, né indottrinata, né cinica, potesse essere a tal punto incapace di distinguere il bene dal male. Da alcune occasionali menzogne preferirono concludere che egli era fondamentalmente un “bugiardo” – e così trascurarono il più importante problema morale e anche giuridico di tutto il caso. Essi partivano dal presupposto che l’imputato, come tutte le persone “normali”, avesse agito ben sapendo di commettere dei crimini; e in effetti Eichmann era normale nel senso che “non era una eccezione tra i tedeschi della Germania nazista”, ma sotto il Terzo Reich soltanto le “eccezioni” potevano comportarsi in maniera “normale.” Questa semplice verità pose i giudici di fronte a un dilemma insolubile, e a cui tuttavia non ci si poteva sottrarre.”[7]
Arendt ci informa che per comprendere Eichmann è necessario inserirlo nella Germania del tempo. In tale contesto Eichmann, che aveva un ruolo non secondario nello sterminio degli ebrei, è semplicemente uno spirito “gregario”:
“già prima di entrare nel partito e nelle SS Eichmann aveva dimostrato di avere la mentalità del gregario, e l’8 maggio 1945, data ufficiale della sconfitta della Germania, fu per lui un tragico giorno soprattutto perché da quel momento non avrebbe più potuto esser membro di questo o quell’organismo. “Sentivo che la vita mi sarebbe stata difficile, senza un capo; non avrei più ricevuto direttive da nessuno, non mi sarebbero più stati trasmessi ordini e comandi, non avrei più potuto consultare regolamenti – in breve, mi aspettava una vita che non avevo mai provato.”[8]
Arendt continua nella ricostruzione della carriera di Eichmann. La filosofa ci fa notare come per l’imputato fare carriera fosse l’unica cosa ad avere senso. Eichmann passa da un incarico ad un altro, fino a quando si scopre un sincero appassionato del sionismo. Ciò gli fornisce l’occasione per sviluppare il suo peculiare “idealismo”:
“Eichmann spiegò che la ragione per cui la “questione ebraica” lo affascinava tanto era il proprio “idealismo”. Anche quegli ebrei, a differenza degli assimilazionisti, da lui sempre disprezzati, e degli ortodossi, che lo annoiavano, erano “idealisti”. Essere “idealisti”, secondo Eichmann, non voleva dire soltanto credere in un’idea oppure non rendersi rei di peculato, benché questi fossero requisiti indispensabili; voleva dire soprattutto vivere per le proprie idee (e quindi non essere affaristi) ed essere pronti a sacrificare per quelle idee tutto e, principalmente, tutti. Quando in istruttoria dichiarò che avrebbe mandato a morte suo padre se così gli fosse stato ordinato, non intese soltanto mostrare fino a che punto era soggetto agli ordini e pronto ad obbedire; volle anche mostrare fino a che punto era sempre stato “idealista”.[9]
Come sarà chiarito più avanti, l’ “idealismo” di Eichmann si spiega con il suo essersi pericolosamente distaccato dalla realtà. Sottilmente, Arendt coglie il legame che questa problematica di estraniamento di Eichmann, ha con il linguaggio usato dall’imputato:
“il linguaggio burocratico (Amtsprache) è la mia unica lingua.” Il fatto si è però che il gergo burocratico era la sua lingua perché egli era veramente incapace di pronunziare frasi che non fossero clichés. (Erano forse questi clichés che gli psichiatri trovavano così “normali” e “ideali”? Sono queste le “idee positive” che un religioso spera di riscontrare nelle anime che cura?) [...] Certo, i giudici non ebbero torto quando alla fine dissero all’imputato che tutto ciò che aveva detto erano “chiacchiere vuote”: ma essi pensavano che quella vacuità fosse finta e che egli cercasse di nascondere altre cose, odiose sì, ma non vuote. L’ipotesi sembra confutata dalla sorprendente coerenza e precisione con cui l’imputato, malgrado la sua piuttosto cattiva memoria, ripeté parola per parola le stesse frasi fatte e gli stessi clichés di sua invenzione (quando riusciva a costruire un periodo proprio, lo ripeteva fino a farlo divenire un clichés) ogni volta che qualcuno accennava a un incidente o a un evento che lo riguardava direttamente. [...] Quanto più lo si ascoltava, tanto più era evidente che la sua incapacità di esprimersi era strettamente legata a un’incapacità di pensare, cioè di pensare dal punto di vista di qualcun altro. Comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva, ma perché le parole e la presenza degli altri, e quindi la realtà in quanto tale, non lo toccavano.”[10]
Questo estraniamento dalla realtà e dagli altri giustifica, secondo Arendt, il “grottesco” atteggiamento di Eichmann. Dalle parole della filosofa tedesca, comprendiamo come l’imputato sia vissuto per anni in una menzogna dalla quale non è più in grado di uscire:
“quella società tedesca di ottanta milioni di persone si era protetta dalla realtà e dai fatti esattamente con gli stessi mezzi e con gli stessi trucchi, con le stesse menzogne e con la stessa stupidità che ora si erano radicate nella mentalità di Eichmann. Queste menzogne cambiavano ogni anno, e spesso erano in contraddizione tra loro; inoltre, non erano necessariamente uguali per tutti i vari rami della gerarchia del partito o della popolazione. Ma l’abitudine d’ingannare se stessi era divenuta così comune, quasi un presupposto morale per sopravvivere, che ancora oggi, a vent’anni dal crollo del regime nazista, oggi che ormai il contenuto specifico di quelle menzogne è stato dimenticato, ogni tanto si è portati a credere che il mendacio sia divenuto parte integrante del carattere tedesco. Durante la guerra la menzogna più efficace per incitare e unire tutta la nazione tedesca fu lo slogan della “lotta fatale” (der Schicksalskampf des deutschen Volkes). Coniato che fosse da Hitler o da Goebbels, quello slogan serviva a convincere la gente che, innanzitutto, la guerra non era guerra; in secondo luogo, che la guerra era venuta dal destino e non dalla Germania , e in terzo luogo che per i tedeschi era una questione di vita o di morte: o annientare i nemici o essere annientati.”[11]
Quanto Eichmann fosse estraniato dalla realtà e dal suo passato, risulta evidente da un episodio raccontato da Arendt. Eichmann, per motivi burocratici, si era trovato nella condizione di aver salvato degli ebrei. Fatto sconcertante, al processo non riuscì a ricordare quasi nulla di questi episodi che potenzialmente potevano attutire la sua pena, poiché riusciva a ricordare solo eventi connessi alla sua carriera:
“quanto alla fase viennese, l’assurda affermazione fatta da Eichmann di aver salvato centinaia di migliaia di vite, affermazione che al processo fu accolta con risa dal pubblico, è stranamente confortata dal meditato giudizio degli storici ebrei, i Kimche: “così cominciò uno dei più paradossali episodi di tutto il periodo nazista: l’uomo che sarebbe passato alla storia come uno dei principali assassini del popolo ebraico si mise con impegno a salvare gli ebrei d’Europa.” Il guaio di Eichmann fu che egli non ricordò nessuno dei fatti che potevano confermare, sia pure vagamente, la sua incredibile versione, mentre il suo dotto difensore probabilmente neppure sapeva che c’era qualcosa da ricordare. [...] La memoria di Eichmann funzionò soltanto per cose che avevano direttamente a che fare con la sua carriera.”[12]
Questo episodio non rappresenta un’eccezione; davvero Eichmann, più volte e a suo discapito, non ricordava nulla che non fosse strettamente collegato alla sua carriera. Arendt ne fornisce un ulteriore esempio, riferendo le affermazioni dell’imputato dopo che in un colloquio con Heydrich viene informato della cosiddetta “soluzione finale” consistente nello sterminio degli ebrei:
“Ora persi tutto, tutto il gusto di lavorare, tutta l’iniziativa, tutto l’interesse; per così dire, mi sgonfiai. E poi mi disse (Heydrich): “Eichmann vada a Lublino da Globocnik [uno dei capi delle SS del Governatorato generale]; il Reichsführer [Himmler] gli ha già dato gli ordini necessari, e Lei guardi un po’ che cosa ha fatto nel frattempo. Credo che per liquidare gli ebrei si serva delle trincee anticarro dei russi”. Me lo ricordo ancora; finché vivrò non dimenticherò mai quelle frasi che pronunziò quando già l’intervista volgeva al termine.” Ma alla fine Heydrich gli disse anche un’altra cosa, e cioè che tutta la faccenda era stata “posta sotto l’autorità del WVHA” (non dunque dell’RSHA), e che il nome convenzionale di tutta l’operazione sarebbe stato “soluzione finale”. Eichmann, che in Argentina se ne ricordava ancora, a Gerusalemme si dimenticò di questo fatto, con suo gran danno, perché la cosa era importante per stabilire i limiti della sua autorità e quindi della sua responsabilità.”[13]
Come nota acutamente Arendt, il termine “soluzione finale” non veniva mai adottato. A tal proposito era stato sviluppato un gergo apposito (sprachregelung), che aveva fondamentali effetti nella mente di chi eseguiva gli ordini:
“i nazisti implicati nella “soluzione finale” si rendevano ben conto di quello che facevano, ma la loro attività, ai loro occhi, non coincideva con l’idea tradizionale di “delitto”. Ed Eichmann, suggestionabile com’era dalle parole d’ordine e dalle frasi fatte, e insieme incapace di parlare il linguaggio comune, era naturalmente da questo punto di vista l’individuo ideale.”[14]
C’è un unico episodio che sembra svelare un Eichmann diverso. In una sola occasione l’imputato non obbedì agli ordini (mandare a morte un convoglio di ebrei). In questo frangente Eichmann, di sua iniziativa, scelse di destinare ad altro luogo questi ebrei. Arendt sostiene che ciò non dimostra affatto che Eichmann si adoperasse a favore degli ebrei ogni volta che ne avesse l’occasione. L’episodio ci informa, semmai, del fatto che Eichmann avesse una coscienza, ma che agiva in modo del tutto particolare:
“egli aveva una coscienza, e questa coscienza funzionò per circa quattro settimane nel senso normale, dopo di ché cominciò a funzionare nel senso inverso. Ma anche durante le poche settimane in cui funzionò normalmente, la sua coscienza si mosse entro limiti alquanto singolari. [...] Se la sua coscienza si ribellava a qualcosa, non era all’idea dell’omicidio, ma all’idea che si uccidessero ebrei tedeschi. [...] Questo tipo di coscienza, che, ammesso che si ribellasse, si ribellava soltanto all’assassinio di persone provenienti dal “nostro stesso ambiente culturale”, è sopravvissuto al regime hitleriano: molti tedeschi di oggi si ostinano a credere che soltanto Ostjuden, ebrei dell’Europa orientale, venissero massacrati”.[15]
Secondo Arendt questo ottundimento della coscienza fu un evento collettivo nella Germania del tempo, rispetto al quale Eichmann non rappresenta affatto un’eccezione. Afferma la filosofa tedesca:
“Ciò che più colpiva le menti di quegli uomini che si erano trasformati in assassini, era semplicemente l’idea di essere elementi di un processo grandioso, unico nella storia del mondo (“un compito grande, che si presenta una volta ogni duemila anni”) e perciò gravoso. Questo era molto importante, perché essi non erano sadici o assassini per natura; anzi, i nazisti si sforzarono sempre, sistematicamente, di mettere in disparte tutti coloro che provavano un godimento fisico nell’uccidere. [...] Il problema era quello di soffocare non tanto la voce della loro coscienza, quanto la pietà istintiva, animale, che ogni individuo normale prova di fronte alla sofferenza fisica degli altri. Il trucco usato da Himmler (che a quanto pare era lui stesso vittima di queste reazioni istintive) era molto semplice, e, come si vide, molto efficace: consisteva nel deviare questi istinti, per così dire, verso l’io. E così, invece di pensare: che cose orribili devo vedere nell’adempimento dei miei doveri; che compito grava sulle mie spalle!”[16]
Un altro episodio è centrale per venire a conoscenza della personalità di Eichmann: la conferenza di Wannsee, in cui si coordinarono tutti gli sforzi per eseguire la soluzione finale. Eichmann funse da segretario della conferenza e le sue considerazioni in merito alle decisioni prese dai vertici nazisti sono oltremodo rivelative:
“Benché egli avesse fatto del suo meglio per contribuire alla soluzione finale, fino ad allora aveva sempre nutrito qualche dubbio su “una soluzione così violenta e cruenta.” Ora questi dubbi furono fugati. “Qui, a questa conferenza avevano parlato i personaggi più illustri, i papi del terzo Reich.” Ora egli vide con i propri occhi e udì con le proprie orecchie che non soltanto Hitler, non soltanto Heydrich o la “sfinge” Müller, non soltanto le SS o il partito, ma i più qualificati esponenti dei buoni vecchi servizi civili si disputavano l’onore di dirigere questa “crudele” operazione. “In quel momento mi sentii una specie di Ponzio Pilato, mi sentii libero da ogni colpa.” Chi era lui, Eichmann, per ergersi a giudice? Chi era lui per permettersi di “avere idee proprie”? Orbene: egli non fu né il primo né l’ultimo ad essere rovinato dalla modestia.”[17]
è doloroso dover ammettere che un contributo decisivo alla piena aderenza alla soluzione finale di persone come Eichmann, fu dovuto alla collaborazione degli stessi ebrei.[18] Ma, forse, una motivazione ancor più decisiva può essere stata fornita dalla acquiescenza mostrata dalla società tedesca:
“e in effetti la sua coscienza si tranquillizzò al vedere lo zelo con cui la “buona società” reagiva dappertutto allo stesso suo modo. Egli non ebbe bisogno di “chiudere le orecchie,” come si espresse il verdetto, “per non ascoltare la voce della coscienza”: non perché non avesse una coscienza, ma perché la sua coscienza gli parlava come una “voce rispettabile”, la voce della rispettabile società che lo circondava.[19]
Eichmann, con altri milioni di tedeschi, si era ridotto a poco più di un automa:
“ebbe dunque molte occasioni di sentirsi come Ponzio Pilato, e col passare dei mesi e degli anni non ebbe più bisogno di pensare. Così stavano le cose, questa era la nuova regola, e qualunque cosa facesse, a suo avviso la faceva come cittadino ligio alla legge. Alla polizia e alla Corte disse e ripeté di aver fatto il suo dovere, di aver obbedito non soltanto a ordini, ma anche alla legge. Eichmann aveva la vaga sensazione che questa fosse una distinzione importante, ma né la difesa né i giudici cercarono di sviscerare tale punto.”[20]
Arendt chiarisce ulteriormente questa tematica, approfondendo il richiamo che lo stesso Eichmann, sorprendentemente, fece, appellandosi all’imperativo categorico kantiano:
“tutto ciò che restava dello spirito kantiano era che l’uomo deve fare qualcosa di più che obbedire alla legge, deve andare al di là della semplice obbedienza e identificare la propria volontà col principio che sta dietro la legge – la fonte da cui la legge è scaturita. Nella filosofia di Kant questa fonte era la ragion pratica; per Eichmann era la volontà del Führer.”[21]
Questa ferrea aderenza alla legge e agli ordini di Hitler, spiegano anche l’atteggiamento di Eichmann quando disobbedì ad Himmler, il quale ordinò la sospensione della soluzione finale quando si rese conto che il terzo Reich stava crollando su stesso. Eichmann rimase fedele ad Hitler non perché odiasse gli ebrei, ma per rimanere “ligio alla legge”. Come in Eichmann, questo tipo di ragionamento che portò al sovvertimento di tutti i valori comunemente accettati in Europa, fu assunto dalla società tedesca quasi nella sua totalità:
“come nei paesi civili la legge presuppone che la voce della coscienza dica a tutti “Non ammazzare,” anche se l’uomo può avere talvolta istinti e tendenze omicide, così la legge della Germania hitleriana pretendeva che la voce della coscienza dicesse a tutti: “Ammazza,” anche se gli organizzatori dei massacri sapevano benissimo che ciò era contrario agli istinti e alle tendenze normali della maggior parte della popolazione. Il male, nel Terzo Reich, aveva perduto la proprietà che permette ai più di riconoscerlo per quello che è – la proprietà della tentazione. Molti tedeschi e molti nazisti, probabilmente la stragrande maggioranza, dovettero esser tentati di non uccidere, non rubare, non mandare a morire i loro vicini di casa (ché naturalmente, per quanto non sempre conoscessero gli orridi particolari, essi sapevano che gli ebrei erano trasportati verso la morte); e dovettero esser tentati di non trarre vantaggi da questi crimini e divenirne complici. Ma Dio sa quanto bene avessero imparato a resistere a queste tentazioni.”[22]
Arrivati a questo punto non è necessario seguire le ulteriori vicissitudini della “carriera” di Eichmann. Bisogna però registrare come l’imputato non smentì se stesso nemmeno al momento dell’esecuzione della condanna a morte:
“era completamente padrone di sé, anzi qualcosa di più: era completamente se stesso. Nulla lo dimostra meglio della grottesca insulsaggine delle sue ultime parole. Cominciò con il dire di non essere un Gottgläubiger, termine nazista per indicare chi non segue la religione cristiana e non crede nella vita dopo la morte. Ma poi aggiunse: “Tra breve signori, ci rivedremo. Questo è il destino di tutti gli uomini. Viva la Germania, viva l’Argentina, viva l’Austria. Non le dimenticherò.” Di fronte alla morte aveva trovato la bella frase da usare per l’orazione funebre. Sotto la forca la memoria gli giocò l’ultimo scherzo: egli si sentì “esaltato” dimenticando che quello era il suo funerale. Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato – la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male.”[23]
Per concludere il giudizio su Eichmann è necessario riportare anche le conclusioni a cui Arendt giunge nei confronti della banalità del male. Tali conclusioni saranno indispensabili per fondare un confronto con il personaggio di Ivan Karamazov. A tal proposito è fondamentale citare per intero una delle ultime riflessioni di Arendt. Dopo aver affermato la necessità di considerare i crimini contro gli ebrei come “crimini contro l’umanità”, la filosofa tedesca afferma:
“strettamente connessa a questo fatto fu l’incapacità dei giudici di capire veramente il criminale che avevano dinanzi, sebbene questo fosse il loro primo dovere. Non basta che essi non seguissero l’accusa che, evidentemente errando, aveva presentato l’imputato come un “sadico perverso”; e non basta che andassero un passo avanti e rilevassero l’incoerenza con cui il signor Hausner voleva processare il mostro più anormale che si fosse mai visto al mondo, e al tempo stesso “molti come lui”, addirittura “tutto il nazismo e l’antisemitismo”. Naturalmente i giudici sapevano che sarebbe stato quanto mai confortante poter credere che Eichmann era un mostro, anche se in tal caso il processo sarebbe crollato o almeno avrebbe perduto tutto il suo interesse. Non si può infatti rivolgersi a tutto il mondo e convocare giornalisti dai quattro angoli della terra soltanto per mostrare Barbablù in gabbia. Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica – come già fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati e dai loro patroni – che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis humani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male. A Gerusalemme lo si vide più chiaramente che a Norimberga, perché là i grandi criminali di guerra avevano sì sostenuto di avere obbedito a “ordini superiori”, ma al tempo stesso si erano anche vantati di avere ogni tanto disobbedito, e perciò era stato più facile non credere alle loro proteste di innocenza. Ma sebbene la malafede degli imputati fosse manifesta, l’unica prova concreta del fatto che i nazisti non avevano la coscienza a posto era che negli ultimi mesi di guerra essi si erano dati da fare per distruggere ogni traccia dei crimini, soprattutto di quelli commessi dalle organizzazioni a cui apparteneva Eichmann. E questa prova non era poi molto solida. Dimostrava soltanto che i nazisti sapevano che la legge dello sterminio, data la sua novità, non era ancora accettata dalle altre nazioni; ovvero, per usare il loro stesso linguaggio, sapevano di aver perduto la battaglia per “liberare” l’umanità dal “dominio degli esseri inferiori”, in particolare da quello degli anziani di Sion. In parole povere, dimostrava che essi riconoscevano di essere stati sconfitti. Se avessero vinto, qualcuno di loro si sarebbe sentito colpevole? Tra i più grandi problemi del processo Eichmann, uno supera per importanza tutti gli altri. Tutti i sistemi giuridici moderni partono dal presupposto che per commettere un crimine occorre l’intenzione di fare del male. Se c’è una cosa di cui la giurisprudenza del mondo civile si vanta, è proprio di tenere conto del fattore soggettivo. Quando manca questa intenzione, quando per qualsiasi ragione (anche di alienazione mentale) la capacità di distinguere il bene dal male è compromessa, noi sentiamo che non possiamo parlare di crimine.”[24]
Nelle sue considerazioni finali Arendt è, se possibile, ancora più chiara:
“Eichmann non era uno Iago né un Macbeth, e nulla sarebbe stato più lontano dalla sua mentalità che “fare il cattivo” – come Riccardo III – per fredda determinazione. Eccezion fatta per la sua eccezionale diligenza nel pensare alla propria carriera, egli non aveva motivi per essere crudele, e anche quella diligenza non era, in sé, criminosa; è certo che non avrebbe mai ucciso un suo superiore per ereditarne il posto. Per dirla in parole povere, egli non capì mai che cosa stava facendo. Fu proprio per questa mancanza di immaginazione che egli poté farsi interrogare per mesi dall’ebreo tedesco che conduceva l’istruttoria, sfogandosi e non stancandosi di raccontare come mai nelle SS non fosse andato oltre il grado di tenente-colonnello e dicendo che non era stata colpa sua se non aveva avuto altre promozioni. In linea di principio sapeva benissimo quale era la questione, e nella sua ultima dichiarazione alla Corte parlò di un “riesame dei valori” imposti dal governo nazista. Non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza d’idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo. E se questo è “banale” e anche “grottesco”, se con tutta la nostra buona volontà non riusciamo a scoprire in lui una profondità diabolica o demoniaca, ciò non vuol dire che la sua situazione e il suo atteggiamento fossero comuni. Non è certo molto comune che un uomo di fronte alla morte, anzi ai piedi della forca, non sappia pensare ad altro che alle cose che nel corso della sua vita ha sentito dire ai funerali altrui, e che certe “frasi esaltanti” gli facciano dimenticare completamente la realtà della propria morte. Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza di idee possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo. Questa fu la lezione di Gerusalemme. Ma era una lezione, non una spiegazione del fenomeno, né una teoria.”[25]
A questo punto si può considerare conclusa la vicenda di Eichmann per ciò che concerne il presente studio. Si passa, ora, ad esaminare il personaggio di Ivan Karamazov, cercando di giungere ad una possibile relazione con la formula di “banalità del male”, così come la si è esplicitata in riferimento ad Eichmann.
[1] Il presente studio muove da uno spunto di Luigi Pareyson (L. Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino, 1993), che sarà successivamente esplicitato. è però giusto sottolineare come non solo il personaggio di Ivan Karamazov si presta a questa analisi. Il concetto di banalità del male può essere un’ottima pietra di paragone per valutare la concezione del male che Dostoevskij esprime attraverso altri personaggi, soprattutto nel romanzo I Demoni (Stavrogin su tutti). Tuttavia, tale compito richiederebbe un’occasione più consona per essere esplicitato in tutta la sua complessità.
[2] H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2013, p. 13.
[3] Id., op. cit., p. 29.
[4] Id., op. cit., pp. 30-31.
[5] Id., op. cit., p. 32.
[6] Id., op. cit., pp. 33-34.
[7] Id., op. cit., pp. 34-35.
[8] Id., op. cit., p. 40.
[9] Id., op. cit., p. 49.
[10] Id., op. cit., pp. 56-57.
[11] Id., op. cit., p. 60.
[12] Id., op. cit., pp. 69-70.
[13] Id., op. cit., p. 92.
[14] Id., op. cit., p. 94.
[15] Id., op. cit., pp. 103-104.
[16] Id., op. cit., pp. 113-114.
[17] Id., op. cit., p. 122.
[18] Nel suo resoconto, Arendt fa precisi riferimenti a questa triste vicenda; nel presente caso si limita a citarla in maniera generale, soltanto per ciò che può aiutare a comprendere l’uomo Eichmann.
[19] Id., op. cit., p. 133.
[20] Id., op. cit., p. 142.
[21] Id., op. cit., pp. 143-144.
[22] Id., op. cit., pp. 156-157
[23] Id., op. cit., p. 259.
[24] Id., op. cit., pp. 281-283.
[25] Id., op. cit., pp. 290-291.
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