di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
Pagando anch’essa il suo dazio al corrente spirito dei tempi, la democrazia è oggi un brand produttivo, in crisi di produttività. Nel corso degli ultimi secoli, con un’accelerazione enorme nell’ultimo a causa del progresso tecnologico, la politica è gradualmente diventata un’estensione dell’economia (ovviamente intesa non come oikos ma come crematistica, oggi nella sua forma di capitalismo finanziario), assoggettando così i contenuti politici a quelli economici, rendendo la politica una funzione dell’economia. Questo scenario ha funzionato fintantoché l’economia era in attivo e la politica accettava di buon grado di prostituirsi ad essa (sedicente necessità a tutt’oggi ripetuta come un mantra) in cambio dei benefici di quell’attivo. Nel momento in cui questo quadro si è rotto (e c’era da aspettarselo dato che uno schiavo che è ormai tale nella sua forma mentis non necessita più di benefit che lo inducano alla e lo mantengano nella condizione servile), l’economia è uscita allo scoperto, manifestando di non avere più bisogno del suo obsoleto servo (la politica) e di voler amministrare uomini e cose in modo diretto: i tecnici. La politica, per parte sua, finge di volersi sottrarre da questo assoggettamento (di cui è complice) proponendo alternative demagogiche e populiste, per lo più basate su un mitico e mitizzato nomos della terra, sulla retorica della piccola patria (ripiegata su se stessa, come ogni “famiglia” che si rispetti); finge, perché lo scopo e l’orizzonte è sempre quello della gestione di un potere che o è economico o non è.
La democrazia partecipa a queste dinamiche, meglio, questa democrazia. Pro/im-posta come strumento del mitico bene comune da perseguirsi tramite l’ampliamento della partecipazione al perseguimento dello stesso, ma di fatto strumento del bene di alcuni, coloro che amministrano le modalità e i contenuti di tale coinvolgimento. Esito di un percorso storico e di una genealogia in cui ha assunto molteplici significati, oggi rimossi o strumentalizzati. Il compito che si pone al pensiero è allora quello di risignificare questa parola, ripercorrendone la genealogia, nella quale è contenuto il perché del suo uso e pratica correnti, non per riattualizzarne una certa passata fase (cosa impossibile), ma per costruire con consapevolezza nuove possibili forme di convivenza sociale.
(«Critica liberale», 21/04/2013)
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