Caro Pasolini, il rammarico più grande che provo scrivendoti è di non averti potuto conoscere da vivo. Provo un senso di frustrazione nell'averti scoperto pienamente solo ora, grazie alla tua morte, che mi fa sentire molto simile alla canaglia che ora finge di ammirarti, ben contenta di non avere più il pungolo della tua presenza tra le costole, e solo la certezza che il tuo pensiero non resterà a marcire nelle biblioteche riesce a consolarmi.
Scrivendoti, cerco quindi di smorzare il mio senso di colpa nei tuoi confronti cercando di tenere aperto il dialogo su di te, nella speranza che intellettuali ben più preparati studino, analizzino e divulghino le implicazioni che derivano dal tuo pensiero, così che dalla tua morte nascano interessi sulla tua opera, ben maggiori di quanti ne hai suscitato da vivo.
Un'altra cosa che mi sta a cuore dirti è che non intendo mitizzarti. La ragione ispiratrice di questa mia risiede unicamente nella convinzione che tu sia stato un uomo che, per circostanze della vita e qualità intellettuali, ha avuto una capacità di analisi della condizione umana che, valutando il passato, ha trasceso il presente per prefigurare un futuro che doveva allarmare l'intera società.