Come è ormai evidente, siamo entrati a pieno titolo nell’era della web-politica. Internet è ormai un prezioso strumento politico, sia perché diffonde informazioni in maniera più capillare rispetto ai mass-media tradizionali (sia per gli aggiornamenti in tempo reale sia perché ogni singolo utente può generare contenuti), sia perché consente un’interattività che sembra gratifichi molto gli utenti, sia perché si ritiene possa essere il vettore di una nuova diretta e compartecipata democrazia. Ma è così pacifico che le cose stiano così?
Poiché un fenomeno affonda sempre le sue radici nella situazione che lo precede e lo rende possibile, per capire qualcosa di questa web-politica sembra opportuno fare un passo indietro per vedere quali sono i tratti salienti di questa tecnologia e di questa politica, che vengono ora fuse insieme.
Sulla tecnologia mi sembra siano più che valide le considerazioni svolte dalla prima Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer, Marcuse), a livello strumentale, e da Martin Heidegger, a livello ontologico e riprese in Italia (in particolar modo le seconde), fra gli altri da Umberto Galimberti (e recentemente, relativamente alla valutazione dell’impatto sociale del web, da Paolo Ercolani).
Sulla tecnologia mi sembra siano più che valide le considerazioni svolte dalla prima Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer, Marcuse), a livello strumentale, e da Martin Heidegger, a livello ontologico e riprese in Italia (in particolar modo le seconde), fra gli altri da Umberto Galimberti (e recentemente, relativamente alla valutazione dell’impatto sociale del web, da Paolo Ercolani).
In breve, un oggetto tecnologico non è mai, come invece di primo acchito si è portati a pensare, un oggetto neutrale, al contrario esso ha sempre una sua forma di razionalità intrinseca, è informato da una certa razionalità (per questo, mi sembra sempre utile la distinzione marcusiana fra tecnica, capacità di fare qualcosa, e tecnologica, la forma storica che questa capacità assume). Ovvero, è un oggetto prodotto da una certa razionalità, che evade e alimenta le necessità e i desideri posti da quella razionalità e, così facendo, produce un tipo d’uomo in linea con quel tipo di razionalità; Pasolini parlava a questo proposito di “mutazione antropologica” (per approfondimenti, segnalo di aver sviluppato il tema della questione tecnologica nel mio volume Totalitarismo, democrazia, etica pubblica e quello della mutazione antropologica nell’articolo L’ultimo Pasolini, di prossima pubblicazione in «Orizzonti culturali italo-romeni»). Esemplificando, è vero che possiamo usare un portatile anche per metterlo sotto la gamba di un tavolo che balla, ma è anche vero che così facendo lo stiamo usando in un modo diverso rispetto alle funzioni per le quali è stato prodotto e rispetto al modo in cui esso ci chiede di essere usato: ogni oggetto ci parla quindi, ci parla della e dalla sua razionalità e in essa ci assorbe. E questa razionalità è quella che possiamo definire come razionalità tecnologica, ovvero quella razionalità informata da criteri utilitaristi, efficientisti, calcolanti, criteri che assorbiamo talmente in profondità (e il più delle volte talmente inconsapevolmente) da diventare il metro con cui misuriamo il mondo, gli altri e noi stessi.
Quanto al versante politico, oggi questo è animato da una fortissima tensione populista, che ritorna non solo nell’ambito strettamente politico ma in tutti i soggetti che basando la propria esistenza sull’accettazione da parte delle masse, fanno loro l’occhiolino. Basta guardarsi intorno per vedere fenomeni di affabulazione di massa; il modo migliore di amicarsi il grande pubblico è sempre stato quello di dire delle banalità: facili da capire, restano impresse, sollevano dal peso di un ragionamento articolato.
Per restare ai tempi recenti, una forte ondata populista è stata introdotta in Italia negli ultimi venti anni da Berlusconi (Umberto Eco a questo proposito ha parlato di populismo mediatico). Ma, come dire, chi di populismo ferisce di populismo perisce: Berlusconi sembra ormai giunto alla fine della sua avventura politica, perlomeno in termini di consenso di massa, e ritengo che sia estremamente interessante notare come questa fine non sia determinata dall’avvento di un discorso politico a lui veramente alternativo, un discorso politico nella sua essenza in radicale discontinuità con le modalità populiste del berlusconismo. Al contrario, questa fine è data dall’emergere di un nuovo tipo di populismo, quello ora rappresentato da Grillo che sostituisce la banalità del “tutto è lecito” con quella (per altro non nuova) del “sono tutti uguali”. Insomma, ben lungi dall’essere un cambiamento radicale, assistiamo semplicemente ad un passaggio di consegne da una forma obsoleta ad una aggiornata del medesimo problema.
Per questo è estremamente pericoloso analizzare i concetti come se non avessero un loro specifico spessore genealogico, come se fossero venuti al mondo all’improvviso, senza un perché, senza un passato che li ha resi possibili (sia che essi si pongano in continuità o in discontinuità con esso). Diversamente, una “prospettiva genealogica” (per dirla con Foucault) ritengo abbia il grande merito di non portarci a ragionare al livello del “che cosa” ma su quello del “perché”, non sul senso comune che una parola, un concetto, una pratica, un’istituzione hanno, ma sul perché hanno quel senso e sulle pregresse modificazioni di significato che oggi determinano quello corrente. Tanto per fare un esempio che abbiamo ben sotto gli occhi, oggi si parla spesso di democrazia, al punto che la parola è stata inflazionata, ma in che termini se ne parla? Se ne parla in termini architettonici, geometrici, ingegneristici, ovvero, unicamente secondo il senso comune, come un meccanismo che ha le sue regole formali d’attuazione, una sorta di legge scientifica: quando tale meccanismo viene applicato c’è la democrazia, altrimenti no. Ma un simile modo, pericolosamente semplicistico, di intendere la questione non ci permette di vedere degli aspetti fondamentali, e correlati fra di loro, quali: le esigenze per rispondere alle quali la democrazia, una certa democrazia, nacque; i valori che la informano, specialmente quelli illuministici che sono quelli che a tutt’oggi (anche se spesso non in maniera seria) la innervano; il perché un certo meccanismo sia apparso adeguato, in un certo momento storico, a realizzare certi valori e se tale meccanismo sia o meno ancora oggi adeguato a tale scopo. Sotto questo profilo, eventi storici di enorme portata, come la Seconda guerra mondiale, il crollo del Muro di Berlino e le recenti primavere arabe, possono apparire in una luce completamente altra. Insomma, ed è questo il punto cruciale, una prospettiva genealogica ci abitua ad avere a che fare con la complessità, diversamente nasce il rifiuto della complessità e la ricerca di rassicuranti semplificazioni/banalizzazioni che confermino la nostra lineare, non articolata, non complessa identità; questo è il trionfo del populismo.
Tornando all’inizio, si diceva web-politica, forse ora risulterà più chiaro perché tenevo a specificare questa tecnologia e questa politica. Ovvero, un principio strumentale che calcola ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa, e un principio indifferenziante (e quindi massimamente antidialettico, antifilosofico, perché la dialettica è differenziazione, descrizione delle varie articolazioni della complessità) che fa di tutta l’erba un fascio, e che trova in questo web uno straordinario terreno di coltura. Insomma, ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa come modus operandi con cui si maneggiano concetti tagliati con l’accetta, senza spessore né storico né dialettico, semplificati e semplificanti, univoci, unidimensionali.
Certamente una via per uscire da questo disastro antropologico, almeno in teoria, c’è. E, si badi bene, non è certo quella di tornare al passato (altro discorso populista oggi purtroppo assai in voga), perché «possiamo infatti far uso dei prodotti della tecnica e, nello stesso tempo, in qualsiasi utilizzo che ne facciamo, possiamo mantenercene liberi, così da potere in ogni momento farne a meno. Possiamo far uso dei prodotti della tecnica, conformarci al loro modo d’impiego, ma possiamo allo stesso tempo abbandonarli a loro stessi, considerarli qualcosa che non ci tocca intimamente e autenticamente. Possiamo dire di sì all’uso inevitabile dei prodotti della tecnica e nello stesso tempo possiamo dire loro di no, impedire che prendano il sopravvento su di noi, che deformino, confondano, devastino il nostro essere», M. Heidegger, L’abbandono. Ma una soluzione non passa neanche attraverso la tecnologia (web o altro che sia) o la politica, bensì attraverso il recupero dell’idea, in tutta la sua bellezza, della complessità. Attraverso il recupero dello spessore genealogico, storico e dialettico, delle cose. E il primo passo di una simile operazione sarebbe necessariamente quello di togliere di mezzo, senza reticenze, le fonti, che oggi si trovano in primis in ambito politico e religioso, di tale semplificazione, che produce a loro uso e consumo identità bunkerizzate unidimensionalmente, incapaci non solo di parlare ma perfino di ascoltare il gergo della complessità.
(«Critica liberale», 04/04/2013)
Certamente una via per uscire da questo disastro antropologico, almeno in teoria, c’è. E, si badi bene, non è certo quella di tornare al passato (altro discorso populista oggi purtroppo assai in voga), perché «possiamo infatti far uso dei prodotti della tecnica e, nello stesso tempo, in qualsiasi utilizzo che ne facciamo, possiamo mantenercene liberi, così da potere in ogni momento farne a meno. Possiamo far uso dei prodotti della tecnica, conformarci al loro modo d’impiego, ma possiamo allo stesso tempo abbandonarli a loro stessi, considerarli qualcosa che non ci tocca intimamente e autenticamente. Possiamo dire di sì all’uso inevitabile dei prodotti della tecnica e nello stesso tempo possiamo dire loro di no, impedire che prendano il sopravvento su di noi, che deformino, confondano, devastino il nostro essere», M. Heidegger, L’abbandono. Ma una soluzione non passa neanche attraverso la tecnologia (web o altro che sia) o la politica, bensì attraverso il recupero dell’idea, in tutta la sua bellezza, della complessità. Attraverso il recupero dello spessore genealogico, storico e dialettico, delle cose. E il primo passo di una simile operazione sarebbe necessariamente quello di togliere di mezzo, senza reticenze, le fonti, che oggi si trovano in primis in ambito politico e religioso, di tale semplificazione, che produce a loro uso e consumo identità bunkerizzate unidimensionalmente, incapaci non solo di parlare ma perfino di ascoltare il gergo della complessità.
(«Critica liberale», 04/04/2013)
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