lunedì 26 agosto 2013

Verità e mondo in Dostoevskij, a partire dall’interpretazione di Camus

di Alessandro Palladino (alessandropalladino@alice.it)

A partire dall’interpretazione che Camus svolge in L’uomo in rivolta[1], si tenterà di trarre una possibile valutazione sull’uso del linguaggio in Dostoevskij.
Pubblicato nel 1951, questo saggio di Camus tenta, tra gli altri, un confronto con la figura di Ivan Karamazov nel paragrafo intitolato: Il rifiuto della salvezza. Esaminiamo brevemente il percorso di Camus fino al punto che qui è di interesse.
Lo scrittore francese comincia riconoscendo che nella figura di Ivan viene fatto un passo avanti rispetto alla rivolta romantica: "Con Dostoevskij invece la descrizione della rivolta farà un passo avanti. Ivan Karamazov prende le parti degli uomini e pone l’accento sulla loro innocenza. Afferma che la condanna a morte che grava su loro è ingiusta. Nel suo primo movimento almeno, invece di difendere la causa del male, difende quella della giustizia mettendola al di sopra della divinità. Non nega dunque assolutamente l’esistenza di Dio. La confuta in nome di un valore morale. Era ambizione dei ribelli romantici parlare a Dio da pari a pari. [...] Con Ivan invece il tono muta. Dio è a sua volta giudicato, e dall’alto".[2]
Quindi Ivan ammette l’esistenza di Dio in via ipotetica per poterlo poi giudicare in nome della giustizia, posta da Ivan al di sopra della divinità. Dio viene allora condannato al nulla in nome della giustizia.

sabato 24 agosto 2013

"Limite" di Serge Latouche. Ennesima imposizione o tanto attesa liberazione?

di Pietro Piro (sekiso@libero.it)

Chi mette il proprio cuore nella esclusiva ricerca dei beni di questo mondo ha sempre fretta, perché non ha che un tempo limitato per trovarli,
procurarseli e goderne.
Il pensiero della brevità
della vita lo pungola senza requie.

Alexis de Tocqueville, La democrazia in America
  
I.

Serge Latouche il cui nome è indiscutibilmente legato il concetto di decrescita,[1] ci offre una riflessione serrata su uno dei punti più dolenti nel vissuto dell’uomo contemporaneo: la questione del limite. Il nucleo teorico dell’intero discorso di Latouche si fonda sua una domanda tanto diretta quanto drammatica:

La scienza e la tecnica avrebbero dato una risposta a tutto. Ma se l’uomo può tutto, perché dovrebbe rimanere prigioniero della camicia di forza della morale? Il diritto a godere senza nessun intralcio, conseguenza dell’abbondanza limitata, non può che abolire tutte le norme sulle quali si fondava la vita in società.[2]

La domanda di dostoevskiana memoria[3], ci mette tutti con le spalle al muro. Non sono forse le nostre norme morali una semplice verità autoimposta che ci limita rispetto a un mondo diventato oramai “senza morale” e “senza limiti” dove il più forte vince e il più debole soccombe perché si è dotato di una moralità che invece di favorirlo lo costringe a una prassi che gli impedisce il successo? La dottrina neoliberista[4] non ha forze spezzato definitivamente il legame tra moralità e profitto (ma è mai esistito veramente questo legame, è mai esistita un’accumulazione senza sfruttamento?) rendendoci tutti complici di un immensa opera di depredazione? Pare che Latouche propenda per questa visione critica:

In effetti, l’imperialismo dell’economia abolisce le frontiere tra morale, politica ed economia. Il potere praticamente totalitario del consumismo convive perfettamente con il caos politico, sotto l’occhio delle telecamere di videosorveglianza.[5]

A questa deriva dell’illimitata voracità, Latouche cerca di contrapporre una prassi del limite che possa arginare l’imponente fiume dei divoratori, ingrossato sempre più dagli affluenti della persuasione organizzata che spingono nella direzione dell’illimitato e dello sconfinato:

Contrariamente a quello che pretende questa ideologia, la frontiera non isola, filtra. Le frontiere per quanto arbitrarie (e c’è da sperare che lo siano il meno possibile), sono indispensabili per ritrovare l’identità necessaria allo scambio con l’altro. Al contrario di quello che sostiene la tesi mondialista, non c’è democrazia senza capacità del corpo dei cittadini, a tutti i livelli, di darsi dei limiti. Si può dire che la democrazia può funzionare soltanto se la politeía è di piccole dimensioni e fortemente ancorata ai valori specifici.[6]

Latouche si batte per una nuova forma di organizzazione mondiale che non veda l’Occidente dominare con il suo potere aggressivo l’intero pianeta:

mercoledì 21 agosto 2013

Eisler, "Uomo lupo" e De Benedetti, "Céline e il caso delle 'Bagatelle'". Due recensioni

di Patrizio Paolinelli (patrizio.paolinelli@gmail.com)

Un mondo pacifico è possibile? Tradotto per la prima volta in Italia Uomo lupo di Robert Eisler

Tutti noi abbiamo sentore che dentro il nostro essere esiste una regione refrattaria alla ragione e alla vita artificiale condotta in società. Freud chiamò questa regione: inconscio. Jung si spinse ancora oltre e parlò di inconscio collettivo. Secondo tale concezione la mente umana non è una tabula rasa ma è dotata di archetipi. Ossia di immagini primordiali comuni alla nostra specie e che ogni cultura elabora autonomamente attraverso riti e miti. La Caduta dell’Umanità, il Diluvio, la Grande Madre sono alcune di queste immagini.
Sulla scia delle scoperte di Jung l’esperto di iconografia e storico delle religioni Robert Eisler (1882-1949) pubblicò nel 1948 un’opera da poco tradotta in italiano con il titolo: Uomo lupo. Saggio sul sadismo, il masochismo e la licantropia (Edizioni Medusa, 316 pagg., 24 euro). A dire il vero Uomo lupo è per ora l’unico libro di Eisler nella nostra lingua. Si tratta essenzialmente di un saggio sull’aggressività umana che scava nella notte dei tempi per riportare alla luce le cause profonde del sadismo e del masochismo. Eisler compie quest’impresa da archeologo in virtù di una sbalorditiva erudizione. Ma se una qualità del libro è data dallo sterminato sapere del suo autore non meno interessanti sono le tesi esposte (peraltro in solo una quarantina di pagine; il resto del volume è composto da note, schede e appendici).

lunedì 19 agosto 2013

Riflessioni semi-serie di un emigrante dell'inconsueto

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Paul A. Valenti, Io amo me stesso, ma è amore non corrisposto, L'Autore Libri Firenze

sabato 17 agosto 2013

Fenomenologia e fenomenologia

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Mauro Cascio, Fenomenologia della Sfiga. (Un contributo alla scienza), Parvapolis

domenica 11 agosto 2013

Sul morboso rapporto tra Stati Uniti d’America e Israele

di Giacomo Pezzano (giacomo.pezzano@binario5.com)

La guerra al terrorismo è ormai aperta da anni, lo sappiamo. Gli integralisti islamici, pericolosi fondamentalisti musulmani, sono i nemici dei lumi e della democrazia, della libertà. Sappiamo altrettanto bene che dopo quell’ormai famigerato “11 settembre” le accuse di imperialismo rispetto alla politica estera (alla politica tout-court) americana sono state molte, più o meno motivate e più o meno fondate. Gli americani considerano l’America non tanto un territorio, quanto un’idea o, se si preferisce, un’ideologia, o ancora, più semplicemente (forse troppo semplicemente, e sappiamo ormai bene come il più terribile dei mali può risiedere nella più semplice banalità) uno stato d’animo, tanto che quando la Corte Suprema statunitense condanna il regime carcerario di Guantanamo lo fa non tanto in ragione dell’inaccettabilità delle torture lì praticate, quanto per il fatto che il diritto americano, non conoscendo frontiere, deve vigere e valere – quasi fosse uno spirito che aleggia su tutto il mondo, senza radicamenti o identificazioni con un territorio specifico (statuale o cittadino che sia) – anche a Guantanamo! Verrebbe da dire che aveva davvero ragione Deleuze quando sosteneva che la vita è tutta una questione di giurisprudenza, di cosa l’uomo considera accettabile o meno e di come sceglie di renderlo accettato o meno. La cosa interessante è che quest’assenza di Ortung, di collocazione spaziale ben precisa, rende il popolo americano facilmente esposto al messianesimo, alle idee di redenzione e di salvezza millenaria, alle prospettive escatologiche e apocalittiche, e sappiamo bene come il popolo che – ormai da secoli – ha fatto (talvolta ha dovuto fare) di tutto ciò il vero e proprio marchio di fabbrica è quello ebraico. Per questo il popolo americano e quello ebraico (quello israeliano) sono così amici e sodali (al di là delle tante e sempre sottolineate ragioni più strettamente storiche, politiche e – soprattutto – economiche)? Trovo quasi sconvolgenti quelle ricerche (come una ripresa da The Economist del 5 agosto 2006) che rivelano il “tasso di religiosità” della popolazione americana: quasi il 90% dei cittadini statunitensi si considererebbe credente, il 79% crederebbe nell’Immacolata Concezione (si scrive con le maiuscole?) e il 30% crederebbe che Gesù è prossimo alla seconda venuta, dopo una grande battaglia che si verificherà nel Medio Oriente in seguito alla nascita del Grande Israele, alla ricostruzione del terzo tempio di Salomone e al bombardamento atomico dell’Iran. C’è da mettersi le mani nei capelli, e lo dico molto seriamente: un americano su tre pensa che lo stato israeliano sia stato concesso al popolo ebraico da Dio (e io che credevo ci fossero stati dei “tavoli di trattativa” dopo la seconda guerra mondiale!), come “antipasto” del Secondo Avvento (ancora con le maiuscole?) di Gesù. Se non fosse tutto così drammatico mi verrebbe da esclamare “Oh mio Dio!” (oh my god!). Mi sembra persino troppo buono Agostino Carrino quando parla semplicemente di diffusa labilità etica e intellettuale, di un terreno generale fertile a fenomeni come quello degli evangelisti (diffusissimi negli U.S.A.), che credono nella Bibbia a tal punto da non mandare i propri figli in quelle scuole in cui si insegnano (sciagura!) le teorie di Darwin e non il comprovato creazionismo.

martedì 6 agosto 2013

Parlare con i muri

di Patrizio Paolinelli (patrizio.paolinelli@gmail.com)

Storia delle camere, un bel libro di Michelle Perrot

E’ un andante con brio l’ultimo lavoro di Michelle Perrot. Stiamo parlando di Storia delle camere, Sellerio 2011, 414 pagg., 18 euro. Il plurale del titolo è d’obbligo e lo si comprende man mano che Perrot ci introduce in un affascinante viaggio nella modernità ricostruendo, tappa dopo tappa, la vicenda di uno spazio domestico così scontato da sfuggire alla riflessione. D’altra parte, ciò che nella vita di ogni giorno facciamo senza pensare e che consideriamo naturale nasconde in realtà contenuti storico-culturali profondissimi e difficili da dipanare. Basti pensare alla disinvoltura con cui guardiamo l’orologio. Sembra un gesto qualunque. In realtà é il risultato di un lungo processo evolutivo che comprende persino violente dinamiche di potere. Esattamente come per le camere da letto.
Insieme ad alcune branche della sociologia e dell’antropologia, la storia sociale si è presa in carico l’indagine della vita quotidiana e della vita privata fornendoci quest’ultima ricerca della Perrot. Un lavoro grazie al quale comprendiamo quanto un gesto tanto spontaneo come infilarci la sera a letto sia saturo di avvenimenti, interdetti, saperi, controlli, conflitti, suggestioni. Non potrebbe essere altrimenti perché, come afferma la stessa Perrot, le strade che conducono in camera sono davvero tante: nascita, riposo, sonno, amore, lettura, scrittura, ricerca di sé, meditazione, preghiera, reclusione, malattia, morte. E a ognuna di queste funzioni corrispondono comportamenti che mutano profondamente nel corso della storia.