sabato 24 agosto 2013

"Limite" di Serge Latouche. Ennesima imposizione o tanto attesa liberazione?

di Pietro Piro (sekiso@libero.it)

Chi mette il proprio cuore nella esclusiva ricerca dei beni di questo mondo ha sempre fretta, perché non ha che un tempo limitato per trovarli,
procurarseli e goderne.
Il pensiero della brevità
della vita lo pungola senza requie.

Alexis de Tocqueville, La democrazia in America
  
I.

Serge Latouche il cui nome è indiscutibilmente legato il concetto di decrescita,[1] ci offre una riflessione serrata su uno dei punti più dolenti nel vissuto dell’uomo contemporaneo: la questione del limite. Il nucleo teorico dell’intero discorso di Latouche si fonda sua una domanda tanto diretta quanto drammatica:

La scienza e la tecnica avrebbero dato una risposta a tutto. Ma se l’uomo può tutto, perché dovrebbe rimanere prigioniero della camicia di forza della morale? Il diritto a godere senza nessun intralcio, conseguenza dell’abbondanza limitata, non può che abolire tutte le norme sulle quali si fondava la vita in società.[2]

La domanda di dostoevskiana memoria[3], ci mette tutti con le spalle al muro. Non sono forse le nostre norme morali una semplice verità autoimposta che ci limita rispetto a un mondo diventato oramai “senza morale” e “senza limiti” dove il più forte vince e il più debole soccombe perché si è dotato di una moralità che invece di favorirlo lo costringe a una prassi che gli impedisce il successo? La dottrina neoliberista[4] non ha forze spezzato definitivamente il legame tra moralità e profitto (ma è mai esistito veramente questo legame, è mai esistita un’accumulazione senza sfruttamento?) rendendoci tutti complici di un immensa opera di depredazione? Pare che Latouche propenda per questa visione critica:

In effetti, l’imperialismo dell’economia abolisce le frontiere tra morale, politica ed economia. Il potere praticamente totalitario del consumismo convive perfettamente con il caos politico, sotto l’occhio delle telecamere di videosorveglianza.[5]

A questa deriva dell’illimitata voracità, Latouche cerca di contrapporre una prassi del limite che possa arginare l’imponente fiume dei divoratori, ingrossato sempre più dagli affluenti della persuasione organizzata che spingono nella direzione dell’illimitato e dello sconfinato:

Contrariamente a quello che pretende questa ideologia, la frontiera non isola, filtra. Le frontiere per quanto arbitrarie (e c’è da sperare che lo siano il meno possibile), sono indispensabili per ritrovare l’identità necessaria allo scambio con l’altro. Al contrario di quello che sostiene la tesi mondialista, non c’è democrazia senza capacità del corpo dei cittadini, a tutti i livelli, di darsi dei limiti. Si può dire che la democrazia può funzionare soltanto se la politeía è di piccole dimensioni e fortemente ancorata ai valori specifici.[6]

Latouche si batte per una nuova forma di organizzazione mondiale che non veda l’Occidente dominare con il suo potere aggressivo l’intero pianeta:

Il libero scambio culturale, come il libero scambio economico, è un ingiustizia perpetuata dalle potenze economiche dominanti ai danni del resto del mondo. Le logiche liberoscambiste, oltre ai danni ecologici producono la distruzione dei modi di vita, la dilapidazione dei patrimoni sociali provenienti dall’accumulazione di saperi ancestrali e di reti di rapporti ancestrali. Assistiamo così a una straordinaria omologazione planetaria.[7]

L’occidentalizzazione del mondo ha portato alla diffusione di valori centrati sul profitto e sull’illimitato sfruttamento dei beni della Terra. Tuttavia, i limiti naturali di sopportabilità del pianeta, mettono in grave crisi ogni forma di vita che non si adegui ad uno stile più moderato e rispettoso. Il lungo processo storico che ha permesso un lento ma efficace scardinamento delle gabbie identitarie (e il Cristianesimo sarebbe il padre dell’individualismo che si trasforma nella sua forma più degenerata nel menefreghismo) ha portato all’affermarsi di un immoralismo corruttore che spezza i legami sociali e che si fa propiziatore della banalità del male.[8] Per Latouche è dunque fondamentale ritrovare il senso del limite e per farlo è imprescindibile una scelta che preveda l’autolimitazione come perno di una nuova identità planetaria.

II.

Il libro di Latouche è dunque un ottimo libro. Ritrovare il senso del limite e darci delle regole di rispetto e di parca frugalità, pare essere proprio la strada giusta per affrontare con minore disperazione l’avvenire. Tuttavia, non possiamo accettare questo libro, senza prima sottoporlo ad una profonda analisi critica che ci permetta di collocarlo in uno sfondo dal quale trarre poi la figura nitida e precisa del senso del limite. La prima considerazione riguarda l’autolimitazione. L’uomo dovrebbe porre un freno ai propri desideri e godere di quello che ha. Tuttavia, ci chiediamo se questo suggerimento vale allo stesso modo per il contadino vietnamita che sogna una vacca in più per arare con meno fatica il suo piccolo campo e per un dirigente di una multinazionale americana il cui stipendio personale supera quello di un anno di lavoro di mille contadini cinesi. L’imperativo di darsi un limite deve essere applicato anche a chi vive in una bidonville di Nairobi, di Caracas o di Calcutta, oppure deve essere ristretto a chi può permettersi uno stile di vita che prevede il lusso come quotidianità? Possiamo proporre di darsi un limite a tutti quegli sfruttati, emarginati, disperati che ogni giorno escono alla ricerca di quell’occasione decisiva che permetta un miglioramento della vita e che non arriva mai? Possiamo veramente proporre di darsi un limite a coloro che non hanno nient’altro da perdere che le loro catene? Crediamo che nel libro di Latouche manchi una prefazione che ci sentiamo di proporre per la seconda edizione:

Questo libro è dedicato alla razza dei grandi divoratori del pianeta, a coloro che vivono sulle spalle di una umanità fragile e sfruttata. A tutti coloro che vivono ricavando immensi profitti attraverso il plusvalore ricavato da immensi apparati produttori di denaro e di alienazione. Questo libro è dedicato ai persuasori occulti, a chi ricava denaro illudendo i deboli, a chi ricava denaro inquinando, distruggendo, abbruttendo la Terra. Questo libro è dedicato ai padroni del mondo a chi determina e minaccia l’intera vita del pianeta. Questo libro è dedicato alla superclass[9] dei burocrati della finanza e dell’imprenditoria che determina la vita e la morte dei popoli più fragili e meno aggressivi.

Con questa premessa, restringiamo il campo del nostro invito a un nuovo senso del limite e lo rivolgiamo con maggiore determinazione nei confronti di chi materialmente determina l’attuale situazione. Altrimenti, un sacrosanto invito al limite e alla moderazione, se esteso a livello planetario e generalizzato a ogni classe sociale, non fa altro che favorire chi non ha limiti perché mantiene lo status quo e invita alla rinuncia e alla moderazione coloro che invece potrebbero trovare spinte di liberazione dai gioghi dello sfruttamento proprio per il fatto di essere stati tenuti per troppo tempo in una condizione di limitazione forzata. I limiti, se non sono il frutto di una rinuncia che nasce da una pienezza dell’essere che trova giovamento non nel consumo esteriore ma nella ricchezza della propria interiorità (percorso difficile e che non si insegna in nessuna scuola pubblica o università), quando sono imposti da altri e non riconosciuti come propri diventano catene, imposizioni, lacci da sciogliere il prima possibile. La maggior parte di coloro che oggi si trovano investiti dalla crisi economica[10] non si autolimitano per virtù o perché sono diventati improvvisamente avvezzi a un cammino spirituale. Si autolimitano perché vivono in uno stato di costrizione, di privazione, di limitazione imposta da chi gode della crisi e si arricchisce nella crisi. Sono dunque dei forzati del limite. Dei limitati. Cosa succederebbe se potessero fare ciò che vogliono? Si limiterebbero? Perché dovrebbero? Storicamente, abbiamo conosciuto esperienze politiche che imponevano a una grande quantità di uomini dei limiti imposti da un élite di dirigenti (mi riferisco in particolar modo, agli stati del cosiddetto socialismo reale e alle dittature fasciste). Chi decideva i limiti da imporre alla popolazione (divieto di espatrio, divieto di commercio, divieto d’importazione-esportazione, divieto di esprimere liberamente la propria opinione, etc.) faceva poi di tutto per darsi alla pazza gioia dell’abuso e dell’oltraggio di ogni limite (accumulazione incontrollata di beni, sesso, violenza, omicidio arbitrario, sequestri, spionaggio, terrorismo, etc.). Sembra proprio che chi storicamente abbia voluto a tutti i costi imporre dei limiti agli altri senza prima autoimporsi dei limiti ai quali si attiene con un certo rigore, si sia ritrovato nella condizione di predicare bene e di razzolare molto male. Se un esponente di alto livello della finanza, la cui vita concreta si svolge tra case ben arredate, alberghi a cinque stelle e università di prestigio, predica la parsimonia, la moderazione e l’austerità, perlopiù a una fascia di popolazione la cui nuda vita si svolge già in una parsimonia imposta da un’economia canaglia che impone la lotta per la sopravvivenza come quotidianità, allora ci ritroviamo di fronte a una di quelle contraddizioni la cui natura non può essere risolta solo con un etica dei buoni consigli ma che deve essere affrontata a partire da una radicale messa in discussione dei rapporti di produzione che permetta a quante più persone possibili di scegliere la limitazione come stile di vita che nasce dalla cultura e dal rispetto e non come imposizione che nasce dalla miseria e dallo sfruttamento.

III.

Abbiamo l’impressione che l’Occidente, dopo aver sfruttato tutto lo sfruttabile e trovatosi oggi nella condizione di essere minacciato da potenze nuove e aggressive che si trovano in un potente processo di crescita economica e conseguentemente ideologica, proponga ricette di salvaguardia del pianeta la cui profonda radice è da ricercare in due matrici interne: la prima è il senso di colpa per non essere riuscito a creare le basi per una convivenza pacifica tra i popoli perché patisce l’orrore di essere stato il primo carnefice, il primo sfruttatore, il primo imperialista. La seconda radice riguarda il futuro. L’Occidente non teme per il futuro dell’Umanità (della quale ha sempre avuto un'idea abbastanza riduttiva e orientata allo sfruttamento) ma per il proprio futuro, per i propri bisogni per i propri livelli di consumo e di vita. Quando i potenti della Terra (G8 e G20) si uniscono per prendere delle decisioni sui limiti da autoimporsi, spesso, gli stati più ricchi e potenti (che hanno deciso il limite del bene e del male) non sottoscrivono le limitazioni perche troppo limitanti. È dunque arrivata l’epoca dello smantellamento dei limiti imposti dai poteri e dalle mafie (politiche e economiche) per permettere a tutti popoli della Terra di scegliere liberamente quale limite è giusto e quale limite non lo è. Fino ad oggi, abbiamo assistito solamente all’imposizione di limiti, di barriere, di muri, di frontiere, imposti dai pochi per i molti. È arrivato il tempo di permettere agli sfruttati di decidere del proprio limite. È probabile che uno sfruttato del Mali, del Niger o dello Sri Lanka (ma anche del quartiere Scampia di Napoli o dello Zen di Palermo) abbia delle idee sul limite e sulla parsimonia, diverse da quelle che si possono generare nella vecchia, stantia e sommamente borghese ideologia della razza dei professori universitari occidentali. Siamo sempre pronti a elargire buoni consigli quando le nostre vite scorrono fisse sui binari del decoro, della dignità, del rispetto e del benessere. Ma se dovessimo deragliare e ritrovarci in un condizione di bisogno e di limitazione, saremmo ancora pronti a proporre la limitazione come stile di vita o ritorneremmo a cercare di accaparrare quanto più possibile per assicurarci quella serenità materiale (raggiunta con lo sfruttamento e la distruzione sistematica) che adesso ci permette anche di dire: diamoci un limite?

IV.

La storia dell’Occidente è la storia della falsa coscienza. Crediamo che non sia il caso di Latouche. Tuttavia, fin quando a scegliere il limite saranno sempre coloro che vivono nel benessere e nel lusso, tutti i discorsi che invocano un cambiamento di rotta si dovranno scontrare con divoratori la cui famelicità non ha confini.
Che fare dunque? La storia ci ha insegnato che l’autodisciplina (il limite che si auto-impone e che ci determina) nasce quando si punta ad un obiettivo. Se l’obiettivo che l’umanità si è imposta è di realizzare il profitto e di venerare il Dio denaro, allora non ci saranno limiti allo sfruttamento, all’ingiustizia, alla brutalità. Se l’obiettivo è dominare i propri impulsi aggressivi e indirizzare il meglio delle proprie energie alla compassione, alla crescita cooperativa, alla conoscenza e al rispetto, allora possiamo ancora augurarci un futuro.

V.

Tuttavia, con lucido distacco, valutando attentamente le forze in campo, crediamo che la scelta del limite auto-imposto richieda una maturazione della coscienza che può avvenire solo quando si riconosce il proprio Io come un nemico da limitare e da imbrigliare e che oggi (escludendo le scuole religiose tradizionali che hanno compreso perfettamente quanto la limitazione auto-imposta liberi energie da dedicare ai più alti valori dell’uomo e la cui tradizione e influenza s’indebolisce sempre di più, ed escludendo tutti coloro che si dedicano al volontariato, alla carità e alla ricerca scientifica, spirituale, morale) tutte le forze in atto soffiano sempre di più su un Io che non ha più limiti e che si sta espandendo a livelli inauditi. Un Io che è tanto gonfio quanto fragile, vuoto, superficiale. I giornali dedicano ampie pagine a personaggi senza storia la cui unica caratteristica distintiva è la capacità di parlare per ore senza esprimere nessun concetto, la televisione è ossessivamente riempita da contenuti insignificanti e volgarmente pornografici, le relazioni sono sempre più improntate al più completo opportunismo. In questa pedagogia nera, che educa le nuove generazioni con molta più efficacia di tutti i libri che un intellettuale possa mai scrivere in tutta la sua vita, in questo mondo senza più limiti, l’auto-limitazione non è forse l’unico strumento per accedere a quelle forze sopite la cui attivazione necessita della difficoltà e della fame? La fame di giustizia, di verità e di carità non è forse quella condizione essenziale per accedere a quell’esperienza dell’altro il cui volto ci appare sempre più oscuro e nascosto?
Non c’è forse scritto in quel libro dimenticato nella maggior parte dei cuori dei nostri contemporanei:

Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame.
Guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete.[11]

P.P.
Università di Enna Kore-UNED Madrid 
Termini Imerese
Settembre 2012

[1] Si vedano in particolare: Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino 2008; Come si esce dalla società dei consumi. Corsi e percorsi della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2011; Per una abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita, Bollati Boringhieri, Torino 2012.
[2] Cfr. S. Latouche, Limite, Bollati Boringhieri, Torino 2012, p. 15.
[3] Si veda: F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Garzanti, Milano, 1979, vol. II, pagg. 619, 623 e 680-681.
[4] Ho trovato utile: E. Toussaint, Da dove viene la crisi? L’ideologia neoliberista dalle origini a oggi, Edizioni dell’Asino, Roma 2012.
[5] Cfr. Cfr. S. Latouche, op. cit. p. 35.
[6] Ivi., p. 36.
[7] Ivi., p. 42.
[8] Ivi., p. 92.
[9] Faccio riferimento al libro di D. Rothkopf, Superclass: la nuova elite globale e il mondo che sta realizzando, Mondadori, Milano 2008. Sintomatico rispetto all’andamento delle dinamiche dei poteri che questo libro sia edito dalla casa editrice italiana che meglio rappresenta lo stile di vita della Superclass che è così potente e arrogante, da potersi permettere di fare profitto persino con chi la critica.
[10] Che la crisi non sia generalizzata e che riguarda elusivamente certi settori, lo aveva già messo in evidenza Ugo Spirito nel 1969, riflettendo sulla crisi dei valori tradizionali: «Per comprendere il significato della crisi che il mondo sta attraversando è necessario domandarsi in via preliminare se la crisi investa tutti gli aspetti della realtà o se ci sia qualcosa che ad essa sfugge, senza risentirne le conseguenze e anzi potenziando continuamente il proprio cammino. […] Scienza e tecnica procedono dappertutto con decisione e con sicurezza esemplari, e i risultati che ne conseguono vanno aldilà di ogni speranza. Nel loro campo parlare di crisi non può avere senso e semmai si deve parlare di super sviluppo e di estensione progressiva in tutte le direzioni». Cfr. U. Spirito-A. Del Noce, Tramonto o eclissi dei valori tradizionali? Rusconi, Milano 1972, p. 38.
[11] Luca 6:25

(Marginalia. Brevi annotazioni di un lettore vivo, Petite Plaisance, Pistoia 2012, pp. 19-26)

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1 commento:

  1. molto apprezzabile per il respiro critico non occidentalizzante. Lo condivido su fb...grazie.

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