martedì 2 aprile 2013

Nuovi (ir)realismi

di Giacomo Pezzano (giacomo.pezzano@binario5.com)

Queste brevissime note, prive di citazioni e lontane dall’accademico dissertare (lo dichiaro subito), vogliono insieme dare un contributo al dibattito (supposto tale) che si è generato intorno alle posizioni del New Realism e cercare di superarlo introducendo una categoria non certo “nuova” (non si deve mai cadere nel medesimo errore commesso da chi è oggetto della propria critica), ma chiusa nello sgabuzzino filosofico (dove purtroppo finiscono le cose migliori), quella di realismo idealistico/idealismo realistico. Non è uno sciocco gioco di parole, vediamo perché.

Premessa necessaria 

Quando si dice che la politica si occupa di interesse generale, di bene comune, si dice che si occupa della “collettività”, che si occupa della “totalità”: “uomo politico” è chi ha uno sguardo “globale”. Messa in questa forma, ormai grossomodo tutti sarebbero d’accordo. 
Meno accordo genera l’affermazione che questa questione ha a che fare con la filosofia. Sfatiamo allora un grosso equivoco: la domanda principe della filosofia non è né “che cos’è la filosofia?”, né “chi è il filosofo?”, bensì “chi è colui che ha un tale sguardo globale?”. La filosofia è nata per rispondere a questa domanda e la risposta – non è sorprendente – è stata “il filosofo!”, ossia in termini platonici il sin-ottico, colui che ha uno sguardo d’insieme, che com-prende la globalità dei rapporti (sociali, economici, produttivi, emotivi ecc.) e degli elementi (i singoli individui, gli organismi istituzionali, gli interessi parziali, le associazioni ecc.) di una totalità (la comunità, la città, lo stato ecc.). Il che, piaccia o non piaccia, significa che la “realtà” di cui parlano i “filosofi”, la realtà sulla quale speculerebbero invano queste truppe di mitragliatori di parole, è prima di tutto la realtà politico-sociale.
Detto diversamente e più semplicemente, per non dar l’impressione di vetero-marxismi latenti, la realtà in cui gli animali umani vivono. Sì, esatto, nient’altro che il mondo che ci circonda, fatto di altri animali umani che entrano in rapporto tra di loro e con noi, che in questo modo compiono azioni, costruiscono cose, producono beni, istituiscono strutture, articolano relazioni di sapere e di potere e così via.
Questo è un paletto significativo: se si vuole parlare di “realtà” o di (“vecchio” o “nuovo”) “realismo”, si deve parlare di questo tipo di realtà e non della realtà percettiva del PC tramite cui sto scrivendo o della realtà immaginaria del PC che sto sognando di avere. Ossia, bisogna parlare – al più – del significato storico-sociale che riveste e di cui è investito il PC stesso.

Bentornata realtà!(?) 

Parlando di “nuovo realismo” dobbiamo allora chiederci perlomeno due cose: perché nuovo? Perché realismo? Potrei sintetizzare così: se i suoi “sostenitori” hanno dato più peso enfaticamente alla “novità”, i suoi “detrattori” (giacché qui gli schieramenti sono da stadio) hanno dato più peso altrettanto enfaticamente alla “realtà”.
Dico questo perché, da un lato, il nuovo realismo è stato presentato come un ritorno alla realtà dopo la “sbornia” post-moderna (“non ci sono fatti, solo interpretazioni! Evviva il relativismo, evviva la liquefazione della realtà violenta, dominatrice e usurpatrice! Abbasso le maiuscole!”), mentre dall’altro lato esso viene di rimando descritto – nei migliori dei casi – come nient’altro che una sorta di rivestimento ideologico del “montismo” (che non riguarda evidentemente solo il Governo-Monti, ma l’insieme delle politiche contemporanee di gestione e governo dell’economico non solo in Italia) o una “furbata” per riguadagnare spazi accademici e attenzione mass-mediatica (nonché per ripulire la propria “fedina accademica”: sì, ne esiste una). Ossia: da un lato si tratta di svegliarsi da sogni e incantesimi “estetizzanti” che offuscano la lucida consapevolezza dell’inemendabilità del reale, mentre dall’altro lato si tratta di svegliarsi dal “sonno dogmatico” di chi crede che la realtà si esaurisca con ciò che si vede e soprattutto con ciò che è politicamente ed economicamente determinato e socialmente accettato. Da un lato si rifiuta l’idea utopistica di una “costruibilità” del reale (W l’adaequatio!), dall’altro lato si rifiuta l’idea adeguazionista di una “inoltrepassabilità” del reale (W la modificazione!). 
Una volta iniziato il dialogo-scontro, da un lato si fa notare che c’è proprio chi credeva che non ci fosse fatto alcuno, ma che tutto fosse costruito socialmente, persino gli alberi (!), dall’altro lato si fa notare che in fondo un albero è costruito socialmente perché se sta per esempio in una città hai voglia a dire che è semplicemente “naturale” e “reale”. Da un lato si risponde allora che c’era chi credeva che l’albero fosse costruito persino “epistemologicamente”, dall’altro lato si dice che in fondo questo è vero perché il nostro apparato percettivo non è semplicemente passivo di fronte al “materiale” della “realtà” ma lo riplasma attivamente e perché per noi l’albero è definito biologicamente da un insieme di “paradigmi” scientifici che sono di fatto costruzioni e non “scoperte”. Da un lato si dice senza demordere che un muro è pur sempre un muro (prova a passarci attraverso!), dall’altro lato si dice che un muro può essere abbattuto o scavalcato (ricordate Berlino?!). Da un lato si risponde che è solo se riconosco che il muro è reale ed è fatto come è fatto che possiamo capire come oltrepassarlo o abbatterlo, dall’altro lato si risponde che questo lo sa bene anche mia nonna e la filosofia non c’entra molto con questa celebrazione del senso comune. E via discorrendo. Insomma, da un lato la “sobrietà” del post-sbronza, dall’altro lato la passione della trasformabilità di una realtà monotona, ripetitiva e soprattutto asfissiante (che in fondo è proprio ciò che la sbronza rivela come sua origine). 
Da un lato quel po’ di “sano realismo” che ci vuole per non perdere la bussola, dall’altro lato la non accettazione della subordinazione al “principio di realtà” con il suo carico di sofferenza e frustrazione; da un lato di rimando l’accusa che si sono visti gli effetti (Berlusconi, populismo mediatico ecc.) della rinuncia al principio di realtà, dall’altro lato di rimando la contro-accusa che il problema non è “W la realtà” bensì “vogliamo un’altra realtà” non la rinuncia a essa. E via discorrendo. 
Sia chiaro, va riconosciuto a ognuno ciò che gli spetta: è vero che c’è chi ha creduto che tutto fosse semplicemente costruito a tavolino (persino il tavolino!), soprattutto in USA (non dimentichiamo infatti che in fondo è da lì che proviene la prima “ondata” del New Realism, ed è lì che c’era chi sosteneva l’esistenza di una “fotosintesi fascista” e di una “non fascista”: poteri dell’ElleEsseDi!), e che per questo occorre riaffermare che c’è qualcosa nel reale (che è la realtà del reale) di non-emendabile – “così è, se vi (ap)pare ma anche se non vi (ap)pare” –, così come è vero che pensare alla verità come “adeguazione alla cosa” ha un immediato risvolto di “adeguamento socio-politico” rispetto all’esistente – non a caso tipica del “nuovo realismo” è la distinzione tra un livello ontologico (le cose “come e dove stanno”) e uno epistemologico (le cose “come e dove noi le conosciamo”), mentre non c’è nessuno spazio per quello sociale o politico o prassistico o pratico o storico e via discorrendo. 
Fatte queste concessioni, il senso del dibattito sembra in fondo già venire meno, se non fosse che (punto a favore degli “anti-realisti”) il fatto che un dibattito pubblico sia improntato soprattutto sulla celebrazione di ciò che è reale (soprattutto in antitesi alla “menzogna-belusconiana”, come spesso si è letto) è un modo di trasmettere e diffondere l’idea che “se cambiamo sarebbe persino peggio” (tradotto poi in soldoni: uscita dall’Euro, insolvenza del debito ecc.), impedendo così di fatto ogni vera e propria discussione. Però è proprio qui che, mi pare, gli “anti-realisti” o “(ir)realisti utopici” in parte scivolano: i “realisti” hanno infatti gioco molto facile a dire “anche ammesso – ma sì, ammettiamolo pure! – che questo mondo vada cambiato, tu sapresti dirmi in che direzione, tu sapresti indicarmi qualcosa di diverso?”, aggiungendo magari “conosci un modo e un sistema migliori di far star bene le persone che non siano quelli basati sulla libertà per tutti?! Sarai mica un kumunista?? O per caso un neo-nazionalista razzista-fascista??”. Al che il nostro anti-realista o (ir)realista utopico diventa rosso dalla vergogna (“ah, allora sei comunista, lo sapevo!”) o si fa nero di rabbia (“ah, allora sei un nuovo-fascista-nazionalista, lo sapevo!”), perché in fondo una vera e propria risposta all’“alternativa” non ce l’ha, o – come preferisce – ancora non ce l’ha. 
Voglio dire, una posizione genuinamente realistico idealistica o idealistico realistica non si preoccupa (sol)tanto di dire che la realtà va cambiata e non accettata e che questo è il vero realismo, perché questo di fatto produce un incollamento ancora maggiore a quel reale che si vorrebbe trasformare nel momento in cui viene a mancare un’alternativa (per diversi motivi, evidentemente, storici e teorici): si preoccupa (anche e soprattutto) di dire che la realtà è già stata trasformata
Insomma, dà ragione ai “nuovi realisti” ma per dar forza alle istanze dei “nuovi irrealisti”: i fatti sono fatti, su questo non ci piove, ma ciò significa che sono fatti da qualcuno, qualcosa ecc. 

Avanti e indietro 

Allora il punto in questione non è (sol)tanto dire “la realtà è trasformabile” (qui si ferma il “nuovo realismo”, che di fatto per questo si traduce in una filosofia dell’inemendabilità sociale) o “la realtà va trasformata” (qui si ferma l’“(ir)realismo utopico”, che di fatto per questo si traduce in una filosofia dell’irrealismo programmatico), quanto (anche e soprattutto) dire “la realtà è (già stata) frutto di trasformazione”, ed è qui che non si ferma quello che potremmo appunto chiamare il “realismo idealistico” o “idealismo realistico”. Vale a dire che prima di tutto, contro alla categoria di “inemendabilità”, bisogna accorgersi che ciò che c’è è storico perché è frutto di un percorso (da lì si è arrivati qui); certamente, a favore del “nuovo realismo”, “è così e non pomì”, ma perché – per così dire – così è stato fatto essere. 
Su questo bisogna fare molta attenzione: il miglior modo di cancellare la storia è solo a prima vista quello di cancellare la dimensione del futuro, perché è più sotterraneamente quello di negare il passato, di negare cioè che il presente sia il “parto” di un passato. Il “nuovo realismo” si limita a dire “è così” (“e così resta”), l’“(ir)realismo utopistico” si limita a dire “sarà diverso” (“non importa com’è”), il realismo idealistico/idealismo realistico fa notare “è così ma poteva essere altrimenti e per questo lo sarà”. 
Con l’aggiunta personale, che rappresenta un’aggiunta qualitativa alla “realtà” altrimenti vaga e fumosa (perché a-storico/sociale) del New Realism e un radicamento sostanziale alla “(ir)realtà” altrimenti altrettanto vaga e debole (perché oltre-storico/sociale) del New (Ir)realism: la direzione è quella indicata dall’uomo, è l’umanità stessa, è l’umano, che “ha trasformato” per dar forma alla propria umanità ma rispecchiandosi nel prodotto della propria trasformazione non si sentirà ancora soddisfatto e realizzato e proprio per questo “ritrasformerà”. 
Tornando all’esempio del muro, il problema non è né “c’è ed è così, se vuoi abbatterlo dovrai pur riconoscerlo!” (una volta si diceva, “filosofare è interpretare non trasformare, ma si interpreta solo ciò che è dato”), ma nemmeno “non importa se e come c’è, conta abbatterlo!” (una volta si diceva, “basta interpretare, è ora di trasformare!”): il problema è “è stato costruito da qualcuno e per qualche motivo, è solo se comprendo questo che comprendo il senso della sua costruzione dunque anche quello della sua possibile distruzione”. Il “nuovo realismo” si appiattisce sul presente, mentre l’“(ir)realismo utopistico” si slancia immediatamente verso il futuro assorbito dalla “furia del dileguare”: viene a mancare il raccordo tra essi, il passato, viene così a mancare la storia, è evidentemente il respiro ritmato del passato, del presente e del futuro. Il “realismo idealistico/idealismo realistico” deve proporsi allora di partire dalla posizione occupata per rinculare e prendere la rincorsa per saltare, di guardare dal presente al passato per aprire il futuro. 
Cambiamo esempio e prendiamo un bicchiere, che tutto sembra tranne un buon esempio per qualsiasi forma di “anti-adeguazionismo”. Il problema non è né “il bicchiere c’è ed è così, lo vedi e lo tocchi! bisogna guardare al limite se è mezzo pieno o mezzo vuoto”, né però “macché guardare se è mezzo pieno o mezzo vuoto, bisogna romperlo!” (vedere Comune di Negri e Hardt per esempio letterale), né tantomeno stare a spiegare che in fondo il bicchiere è quello certo ma lo è per noi, per il nostro sistema percettivo (una mosca mica lo “vede” come noi) o linguistico-concettuale (un indigeno mica sa cosa è un “bicchiere”, è un nome!), questo può essere vero o meno vero, il punto è che è molto poco interessante, ha molta poca pertinenza rispetto alla qualità delle nostre vite, che è il vero oggetto di qualsiasi sano interrogarsi e interrogare (filosoficamente e non). Quindi il problema è al limite che se il bicchiere c’è è perché è stato costruito (con materiale “reale”, che scoperta!) per un determinato scopo, ed è a partire da questa consapevolezza che possiamo chiederci “chi” lo avrebbe costruito e “perché”, dunque decidere se cambiarne l’utilizzo, smettere di utilizzarlo o persino davvero romperlo. Questo se proprio incontrate un “nuovo realista” che è di buon umore e vuole fermarsi a discutere con voi e cerca di mettervi alle strette. 

Postilla. A uso e consumo dei filosofi 

i) Ogni domanda sulla “realtà” insomma non è una domanda sul “che cosa/chi è/sono?”, bensì sul “come viv(iam)o? In che modo desider(iam)o vivere?”, da intendere nel senso letterale di “in quale modo storico-sociale desider(iam)o vivere, trovare realizzazione e stare bene?”. Ossia: la realtà è il modo migliore di realizzazione. La realtà non è mai un “nome”, nemmeno soltanto un “verbo” (d’altronde sappiamo che il passo per fare di un verbo Il Verbo è breve), piuttosto un “av-verbio”: non ci interessa “Il Bene”, ma “vivere bene”. 
ii) Il profilo assai sinteticamente tratteggiato segna tutta la differenza che intercorre tra il “trasformismo” fichtiano “idealistico” e il “trasformismo” postmoderno “decostruzionista”: il primo è quello dell’autore che sa che c’è sempre ancora qualcosa da fare quindi si rimette al lavoro per scrivere un nuovo copione, il secondo è quello dell’attore (lo zelig) che sa che in fondo non c’è più nulla da fare quindi prosegue nel suo adattarsi al ruolo che gli viene offerto. Una discussione più teorica e analitica è rimandata ad altra occasione, qui contava iniziare a indicare una direzione.

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