di Libero Federici (federici.libero@virgilio.it; I di 3)
Walter Benjamin è pensatore complesso e caleidoscopico. La sua produzione[1] si presenta originale, frastagliata e poliedrica; in essa convergono singolarmente motivi che, andando dall’ebraismo al marxismo più eterodosso, dalla critica letteraria a quella estetica, delineano un profilo tanto fine quanto sfuggente e inclassificabile: inquadrare Benjamin in schemi di correnti speculative non rende giustizia all’altissimo grado di specificità della sua riflessione[2].
Dietro una variegata scrittura sta una filosofia come critica che ogni volta denuncia la rappresentazione del reale, l’agire su esso del principio identitario e dei suoi dispositivi, la sua mitologia e la sua ideocrazia. In questo senso è proprio la Kritik del mito[3], nelle sue varie forme e concrezioni, a costituire il centro della speculazione del berlinese: criticare il principio mitico e l’ideocrazia significa discutere delle rigide fissazioni di saperi e poteri, delle leggi con le loro autodeterminazioni e i loro residui.
La decostruzione delle “forze mitiche” è ardua perché esse sono di derivazione preistorica e hanno attecchito in ogni angolo della modernità. La diffrazione del Mythus ha percorso intere epoche e ora plasma un secolo permanendone ogni anfratto.
Il mito è atono, fissa gli esseri e la storia, ne impedisce lo sviluppo. Secondo Benjamin è necessaria un’archeologia teoretica volta a “bonificare i territori su cui è cresciuta finora solo la follia. Penetrarvi con l’ascia affilata della ragione, e senza guardare né a destra né a sinistra, per non cadere preda dell’orrore che adesca dal fondo della foresta. Ogni terreno ha dovuto, una volta, essere dissodato dalla ragione, ripulito dalla sterpaglia della follia e del mito. È quanto occorre fare qui per il XIX secolo”[4]. Nel mýthos l’ancoraggio all’arcaico soffoca il presente privandolo del novum; la semantica della possibilità è rarefatta dal permanere statico del sempre-uguale (Immergleichen). Il mito si oppone alla verità, è nel reale ma non è il reale. Chi si situa nei solchi del Mythus confondendolo con la Wahrheit rimane in improduttiva posizione dualistica rispetto a quest’ultima; ciò è dimostrato anche dalla nascita, in Grecia, della filosofia come risposta opposta alle formulazioni mitiche: “È perciò che in Grecia la vera e propria arte, la vera e propria filosofia – a differenza del loro stadio improprio, teurgico – cominciano solo al tramonto del mito, poiché la prima non meno, e la seconda non più dell’altra, riposano sulla verità”[5]. Del mito si può e si deve avere conoscenza ma esso non può esserne il fondamento: “Per quanto il mitico, nei particolari, possa essere benissimo oggetto di indagine, dove si tratti invece dell’essenza e della verità nell’opera e nella vita, la comprensione del mito non può, anche nei riguardi oggettivi, essere l’ultima”[6]. Il mito, quindi, è rappresentazione di ogni condizione presente, concetto incontrovertibile di ogni datità: identità irriflessa, la mitologia è vista da Benjamin come continuo e immediato discorso che naturalizza l’essere delle cose fabbricando predicati ascrittivi all’immutabile, a sua volta radicato in un lontano e ineffettivo fenomeno atavico.
Nonostante l’importanza teoretica di questa distinzione si è creata una confusione tra mito e verità; questa ha generato una commistione indebita e fuorviante che, poi, si è annidata nei soggetti e nelle strutture sociali che essi esprimono. Il Mythus è improprio, con la sua rappresentazione figurale ammalia il reale e opacizza l’evento: “Non c’è mentalità più rovinosa di quella che confonde e riconduce al mito anche ciò che ha cominciato ad uscirne”[7]. A fronte del dominio del mito e della sua sussumente Mythologie, che trattengono l’essere dietro la cortina dell’intemporale non-scelta, occorre porre una genealogia che disarticoli la secolare subordinazione alle potenze mitiche oltrepassando la condizione dell’incantesimo: un’autentica Kritik non può non avere come suo precipuo dovere quello di affermare la totale alterità di Mythus e Wahrheit, di sceverare i reali nessi del reale dagli elementi mitico-rappresentativi.
Nello svolgimento di essa Benjamin accosta la sfera del mito a quella del destino.
Il destino viene definito come “contesto colpevole (Schuldzusammenhang) di ciò che vive”[8], nesso di colpevolezza. Esso corrisponde alla costituzione naturale del vivente e riguarda gli esseri umani, le loro relazioni e le oggettivazioni di queste ultime. L’elemento destinale e mitologico è infinitamente esteso e “non è quindi (in fondo) l’uomo ad avere un destino, ma il soggetto del destino è indeterminabile”[9]. Nello Schicksal tutto si riferisce alla colpa, nulla muta rispetto all’accadere del sempre-identico legato alla colpevolezza; destino è scandirsi dello Immergleichen[10] in cui il soggetto non riesce ad incidere la propria decisionalità. Oltre alla colpa, l’altra caratteristica distintiva del destino è l’infelicità. Benjamin delinea il destino come “ordine i cui soli concetti costitutivi sono infelicità e colpa”[11]: colpa e infelicità si riduplicano ogni volta in ascrizioni in cui attori ed azioni sociali perdono la loro innocenza e decisione. Mito e destino sono quindi principi costrittivi che irrigidiscono e naturalizzano l’esistenza, fissandola in una oscura e lontana primordialità che fa cooptazione a ri-petere stilemi: determinazioni di un’indeterminabile Identität che non ammettono scostamento di differenza e neutralizzano, nella loro forza rappresentativa, il senso della possibilità. La cornice della colpevolezza mitico-destinale vede l’alterità affievolirsi e trascolorare in anonimità. Nel Mythus e nello Schicksal la vita è nuda vita (blosses Leben), ossia vita colpevole, vita portatrice di colpevolezza. Proprio perché il destino è il contesto colpevole di ciò che vive il blosses Leben è sottratto alla possibilità del novum, catturato in un’anticipazione che vede la sua strutturale colpevolezza. La nuda vita è esistenza ripristinata ogni volta al sempre-identico, sussistenza nella linearità dell’invarianza che prima di riconoscersi è riconosciuta. Le potenze mitiche bloccano il blosses Leben nell’a-decisionalità, lo fissano in una intelaiatura storicisticamente astorica che vede la serialità della colpa e il tramandamento di essa. Il destino mitologico, la mitologia del destino toglie la decisione all’umano, erode la scelta di quest’ultimo. Dunque il Mythus si predica di un apriorismo deterministico, di un principio di necessità: la colpevolezza si estende illimitatamente sino a “trascendentalizzarsi”, il blosses Leben non sceglie ma diventa decidibile.
La trattazione giuspolitica benjaminiana lega insieme la prospettiva mitica e quella giuridica: infatti Benjamin non vede nel diritto un antidoto al mýthos, ma in quest’ultimo la sorgente del Recht stesso. Risalta immediatamente il portato tanto affascinante quanto problematico di tale impostazione. Il diritto è un potente residuo mitico, in esso risiede l’atavico perpetuarsi del potere del mito; siccome essere in rapporto con il mito significa anche, come si è visto, essere in rapporto con destino, colpa e infelicità, il diritto è una struttura in cui le esistenze sono meste e tacciate di colpevolezza: “Si tratta di cercare un altro campo, dove contino solo infelicità e colpa, una bilancia su cui beatitudine e innocenza risultano troppo leggere e si librano in alto. Questa bilancia è la bilancia del diritto. Le leggi del destino, infelicità e colpa, sono poste dal diritto a criteri della persona”[12]. Con la Rechtsordnung l’infelicità e la colpa, da konstitutive Begriffe della condizione mitico-destinale, diventano Gesetze, leggi per regolare e giudicare la persona sulla Identität mitica. Il diritto, estendendosi nel corso dei secoli, ha permesso al fiume carsico del mito di mantenersi e sfociare nella modernità; il suo ambito è quello del magnetismo della Mythologie. Lungi dall’essere quel luogo che rescinde i legami con le indefinite forme dell’ancestrale, Recht per Benjamin viene ad indicare la concretizzazione normativa di quel Schuldzusammenhang che costituisce la cifra della condizione mitica; il giuridico è così destinale, spazio dell’irrogazione della rappresentazione e della corrispondente in-azione, spazio della cristallizzazione della colpa e dell’inefficacia della differenza: in esso e con esso le relazioni soggiacciono, in maniera destinal-ineluttabile, all’immutabilità dell’irriflessione identitaria. Entro il diritto non v’è e non vi può essere affrancamento dall’infelicità e dalla colpa, ma solo indifferenziate e infeltrite consuetudini; l’innocenza non è contemplata, gli statuti del diritto (Rechtsatzungen) sono radicati nella Weltanschauung mitica e da questa corroborati. Ciò che nel mito è potente, ossia il sempre-uguale, è proiettato nel diritto, giuridico diviene pertanto l’involucro dell’abituale ripetizione in cui ciò che è rilanciato è proprio il nesso di colpevolezza: “Il destino appare quindi quando si considera una vita come condannata, e in fondo tale che prima è stata condannata e solo in seguito è divenuta colpevole. Come Goethe riassume queste due fasi nelle parole: <<Voi fate diventare il povero colpevole>>. Il diritto non condanna al castigo, ma alla colpa”[13]. Questa inversione della consecutio di pena e colpa conduce l’umano ad essere sospeso nel non riconoscimento, nella necessità dell’ugualità. L’apnea del pensiero mitico e il suo dispositivo giuridico producono quadri di vigenza della conditio culpae, applicano la pena e la colpa ad ogni esistenza; ogni cosa rinvia alla sua precolpevolezza condannabile[14]. Il mito destinale fa il creaturale colpevole, lo fagocita apriori nel determinismo implementante; in esso la comminazione della sanzione e l’inserimento nell’uni-verso della Schuld sono già stabiliti, la ragione è assoggettata ad una reità di immemorabile fondazione: l’essere è essere colpevole, l’infelicità è reiterata dal retrivo. La nuda vita non è condannata in quanto soggetto di colpevolezza bensì è colpevolezza oggettivata; di essa si appropria il Mythus-Recht che riconduce tutto al nesso di colpevolezza: colpevolezza di un nesso che fissa le forme dell’agire in forme del puro ri-petere, antiumanesimo di una falsa coscienza che è realmente e astoricamente ideocratica.
In questa prospettiva, essendo il diritto feudo del mito, e caratterizzandosi quest’ultimo come condizione violenta che annichilisce il soggetto vincolandolo alla colpa e rescindendo i suoi possibili legami con il novum, ciò che avviene nel passaggio dal mýthos al Recht è un trasferimento di violenza che, da condizione dell’esistente e nell’esistente, diventa fondante: “La manifestazione mitica della violenza immediata si rivela profondamente identica ad ogni potere giuridico, e trasforma il sospetto della sua problematicità nella certezza della perniciosità della sua funzione storica”[15]. La violenza mitica pone il diritto[16], le violente condizioni d’essere e di relazione del determinismo mitico si esplicitano nella fondazione del diritto. L’immediatezza della mythische Gewalt istituisce il diritto, mýthos e nómos specchiano la loro identità nella loro costitutiva Gewalt. Nel diritto, regione dell’enérgheia mitica, la consuetudine irrazional-destinale si rafforza, si organizza e diventa norma; la violenza continua ad essere violenza nella definizione di un ordine positivo in cui i soggetti sono espropriati dell’apertura al nuovo, giuridicizzare è mantenere la concezione destinale dei rapporti. Il passaggio al diritto avviene in una linea retta in cui la Gewalt mitica non subisce alterazione di senso e si trasferisce tutta nel diritto: la rappresentazione mostra la sua potenza nella voltura da ascrizione a prescrizione che, mediante la sanzione, iscrive il nómos nella necessità più stringente e irrepugnabile. A questo punto il diritto diventa tecnica normativa di controllo della nuda vita, tutore della neutralizzazione della differenza; il mito protrae la nuda vita come fascio di destino e colpevolezza nella fondazione violenta del diritto, il blosses Leben è indisponibile a se stesso in quanto appropriabile dal Mythus rifuso violentemente nel diritto: questo il ricondursi delle potenze mitiche nel complesso unitario delle norme disciplinanti.
Il diritto si fa nomologia che traduce la propria certezza in rigide prescrizioni. Le Rechtsformen diventano episteme, sapere sicuro della condizione di colpa dell’umano e ri-affermatore del determinismo destinale delle relazioni. Lo spazio giuridico è ora Wissenschaft esatta che deriva il suo rigore dalla dimensione annichilente del mito; la sua inderogabilità attinge ed attiene alla necessità dei principi-forme determinati dal calco mitico, frastico e neustico si fondono in una grammatica della disciplina inemendabile. L’esistenza è colpevole: questo il nucleo della rappresentazione mitica, questo il cardine epistemologico della scienza giuridica. “Fare maggior luce sul destino, che è sempre alla base del potere giuridico”[17]: quindi alla riflessione benjaminiana il Mythus-Recht appare disillusamente come autoasseverazione (Selbstermächtigung), assolutizzazione di un principio impropriamente infungibile della realtà che vincola alla non-diversione. Il Grund si dimostra Abgrund, auto-asseverazione che in quanto tale attesta producendo auto-approvazioni e, dunque, auto-giustificazioni e auto-legittimazioni; nel Selbstermächtigung è espresso il circolo dell’identità che fonda l’assioma della giustificazione giuridica come potenza o violenza autolegittimante.
[1] Non si condivide l’eccessivo accostamento di Benjamin ad altri autori: infatti ciò può relegare la pagina benjaminiana a veloce annotazione a fronte di più lunghe argomentazioni di teorie altre. Inoltre si contesta l’improprio uso di citazioni di questo autore in contesti non pertinenti.
[2] “Bisogna riconoscere che il suo pensiero ha una portata assai più ampia, che mira nientemeno che a una nuova comprensione della storia umana. Gli scritti sull’arte e sulla letteratura possono essere compresi solo in relazione a questa visione complessiva, che li illumina dall’interno. La sua riflessione costituisce un tutto, nel quale arte, storia, cultura, politica, letteratura e teologia sono inseparabili”, M. LÖWY, Walter Benjamin: Avertissement d’incendie. Una lecture des thèses <<Sur le concept d’histoire>>, Paris 2001; tr. it., Segnalatore d’incendio. Una lettura delle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin, Torino 2004, p. 8.
[3] Su ciò si veda R. P. JANZ, Mythos und Moderne bei Walter Benjamin, in AA. VV., Mythos und Moderne. Begriff und Bild einer Rekonstruktion, Frankfurt am Main 1983, pp. 363-381.
[4] W. BENJAMIN, Das Passagenwerk, in Gesammelte Schriften, Unter Mitwirkung von T. W. Adorno und G. Scholem herausgegeben von R. Tiedemann und H. Schweppenhäuser, Frankfurt am Main 1972-1989 (d’ora in poi GS), V, 1-2, tr. it., Opere Complete IX. I <<passages>> di Parigi , Torino 2000, [N, 1, 4], pp. 510-511.
[5] W. BENJAMIN, Goethes Wahlverwandtschaften, in GS, I, 1, tr. it., Le affinità elettive, in ID., Angelus Novus, Torino 1995, p. 202.
[6] Ivi, p. 204.
[7] Ivi, p. 203.
[8] W. BENJAMIN, Schicksal und Character, in GS, II, 1, tr. it., Destino e carattere, in ID., Angelus Novus, cit., p. 35.
[9] Ibidem.
[10] Scrive Benjamin: “L’essenza dell’accadere mitico è la ripetizione”, W. BENJAMIN, Das Passagenwerk, cit., [D, 10a, 4], p. 129. Nel mito-destino il soggetto è incatenato alla reiterazione di forme di esistenza, la sua soggezione è soggezione irriflessiva ad una sragione uniformante: “L’<<eterno ritorno>> è la forma fondamentale della coscienza storico-originaria, mitica (mitica appunto perché non riflette)”, ivi, [D, 10, 3]. Qui vi sono assonanze con le teorie di Blanqui, Nietzsche e Baudelaire: “Mostrare energicamente come l’idea dell’eterno ritorno penetra quasi nello stesso tempo nel mondo di Baudelaire, di Blanqui e di Nietzsche. In Baudelaire l’accento cade sul nuovo, strappato con eroico sforzo al sempreuguale, in Nietzsche sul sempreuguale, che l’uomo affronta con eroica fermezza. (Blanqui è molto più vicino a Nietzsche che a Baudelaire, ma in lui prevale la rassegnazione). In Nietzsche questa esperienza si proietta cosmologicamente nella tesi che non succede più nulla di nuovo”, W. BENJAMIN, Zentralpark, in GS, I, 2, tr. it., Parco centrale, in ID., Angelus Novus, cit., p. 137. Sul rapporto tra Benjamin e questi pensatori cfr: F. RELLA, Benjamin e Blanqui, in F. RELLA (a cura di), Critica e storia. Materiali su Benjamin, Venezia 1980, pp. 181-200; G. FRANCK, Walter Benjamin e i paradossi di Zarathustra, in F. RELLA (a cura di), Critica e storia. Materiali su Benjamin, cit., pp. 117-136; A. PRETE, Un’allegoria d’autunno. Baudelaire e Benjamin, in aut-aut, cit., pp. 185-202; F. DESIDERI, La porta della giustizia, Bologna 1995, pp. 119-135; M. T. COSTA, Il carattere distruttivo. Walter Benjamin e il pensiero della soglia, Macerata 2008, pp. 175-188. Sulla connotazione del mito si veda M. PALMA, Benjamin e Niobe. Genealogia della ‘nuda vita’, Napoli 2008, pp. 98-112.
[11] W. BENJAMIN, Schicksal und Character, cit., p. 34.
[12] Ivi, p. 34.
[13] Ivi, p. 35.
[14] Cfr. G. AGAMBEN, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino 2005, p. 32. Per una riflessione genealogica sui connotati giuridici del corpo improprio cfr. C. B. MENGHI, Logica del diritto sociale, Torino 2006, p. 2 sgg.
[15] W. BENJAMIN, Zur Kritik der Gewalt, in GS, II, 1, tr. it., Per la critica della violenza, in ID., Angelus Novus, cit., 26.
[16] Cfr. ibidem.
[17] Ivi, p. 24.
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