di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
Recentemente pubblicato da Gemma Lanzo Editore, sia in versione cartacea che e-book, il n. 8 della collana di cultura cinematografica “Moviement”. Come i precedenti numeri della collana anche questo è un volume monografico, ma a differenza degli altri questo non è dedicato ad un cineasta ma ad un argomento: il 3D stereoscopico.
Il volume si compone di una prima e principale parte che contiene studi sull’argomento, seguono poi recensioni di film, interviste e strumenti di approfondimento come un glossario sul 3D. Fra gli studi, che costituiscono il cuore del volume, si va da quelli metodologici (Atkinson) a quelli storici (Antermide, Del Valle, Botelho), da quelli estetici (Huhtamo, Menduni) a quelli sugli aspetti tecnici (Neri, Piazza, Tornimbeni, Callarello), da quelli sul cinema d’Autore (Catolfi, Nencioni, Thompson, Zazzara) a quelli sul cinema d’animazione (Lanzo), chiude la sezione la ripubblicazione di un articolo del 1953 di Mario Verdone che poneva alcune domande sul 3D. Le recensioni sono invece dedicate ai film Hugo Cabret (2011; Martin Scorsese), Avatar (2009; James Cameron), Alice in Wonderland (2010; Tim Burton) e Pina (2011; Wim Wenders).
Il volume affronta in maniera particolareggiata gli aspetti tecnici dell’argomento, al punto tale che per un quadro del versante tecnico-professionale della lavorazione in 3D mi limito a rimandare al testo stesso. In questa sede invece, desidero soffermarmi su alcune considerazioni inerenti il rapporto fra cinema, cinema 3D, intrattenimento e Arte.
Il volume affronta in maniera particolareggiata gli aspetti tecnici dell’argomento, al punto tale che per un quadro del versante tecnico-professionale della lavorazione in 3D mi limito a rimandare al testo stesso. In questa sede invece, desidero soffermarmi su alcune considerazioni inerenti il rapporto fra cinema, cinema 3D, intrattenimento e Arte.
La domanda di fondo che attraversa il volume è se oggi il cinema 3D (dopo l’invenzione della stereoscopia nel 1838 ad opera di Charles Wheatstone (p. 8), la sua presentazione al pubblico nel 1903 ad opera dei fratelli Lumière con il loro ormai celebre L’arrivée d’un train en gare de La Ciotat, e varie ondate in tempi recenti) debba essere considerato semplicemente come show, intrattenimento (veste prevalente nella quale sinora è stato proposto al grande pubblico) o se possa essere considerato anche in chiave artistica; se la “prospettiva” (sia in senso metaforico che letterale) che esso presenta, e che nacque per rispondere alla crisi dell’industria cinematografica di fronte alla con concorrenza di altri media, sia spendibile solamente in chiave di show-business o se abbia una qualche potenzialità artistica. Insomma «la questione sta nel cercare di capire se e quando il 3D serva, possa fornire un valore aggiunto, permetta insomma di mostrare e narrare qualcosa che sarebbe meno efficace raccontare diversamente. In questo senso è fondamentale capire anche quale sia il suo reale effetto sul pubblico e quanto, eventualmente, riesca ad assolvere a questa nuova funzione enunciativa» (p. 56). Per cercare di rispondere alla questione vengono presi in considerazione, da una parte, gli aspetti tecnici della lavorazione 3D (che ovviamente richiede delle procedure diverse, sia di realizzazione che di proiezione, rispetto al cinema bidimensionale) e dall’altra, l’impatto che il 3D ha sul pubblico, investigando quest’impatto nel suo profilo scientifico: come reagiscono occhio e cervello a una simile visione. A mio modesto parere, questo modo di impostare la questione presenta però una carenza che rischia di inficiare la questione stessa, orientandone già la risposta in una direzione che non è certo quella artistica.
Infatti, se ci limita a considerare gli aspetti tecnici della lavorazione e la fruibilità/fruizione da parte dello spettatore, peraltro analizzando la cosa in meri termini scientifici, non si sta ancora toccando il versante artistico del discorso. Versante artistico che invece emerge se, anziché tecniche e punto di vista del fruitore, scientificamente declinato, si considerasse il punto di vista del creatore. Per colui che crea l’opera (non il prodotto!), è quella modalità espressiva adeguata per esprimere in profondità quel che vuole esprimere? E poiché, nonostante una certa elasticità, nessuna tecnica è neutrale, al contrario, ogni tecnica già porta inscritta in sé la sua specifica razionalità, se ci rifacciamo al 3D per come si è sviluppato sino ad oggi, ci ritroveremo sempre e soltanto di fronte ad una tecnica d’intrattenimento. Renderla Arte, significa ripensare radicalmente l’essenza di questa tecnica, meglio, non pensarla più in termini tecnico-scientifico-consumistici; significa iniziare a scrivere una nuova storia, quella di una semiologia che, sebbene superficialmente possa sembrare la stessa che è stata finora, sia in realtà qualcosa di completamente altro – e solo essendo qualcosa di altro, può parlare di alterità.
Se Hollywood continuerà a produrre film così, il pubblico si stancherà presto del 3D. Nei primi quattro anni, abbiamo visto il 3D come lo producevano gli Studios, e ciò non ha portato a nessun risultato. Ha portato il pubblico a pensare che fosse un linguaggio basato solo sugli effetti speciali. Ma il 3D è altro, è un grande passo come il passaggio dal muto al sonoro: è un nuovo linguaggio che deve ancora essere studiato a fondo. Spetta agli autori, ai giovani registi mostrare al pubblico cosa si può fare con esso.
Wim Wenders (p. 54).
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