di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
Mi sento accerchiato. Mi sento accerchiato come se fossi su una nave che affonda, con la nave che sprofonda a vista d'occhio e l'acqua che penetra dappertutto, e le persone continuassero a ballare nel salone delle feste, e se gli dici "ma che fai, balli? Ma non vedi?!", ti rispondessero "il capitano dice che va tutto bene".
Altri invece sembra che capiscano, e ti dicono "noi siamo illuminati, adesso andiamo a chiudere la falla armati di stuzzicadenti e forchette".
Potrei buttarmi in mare e velocizzare il tutto, ma preferisco di no.
E quindi sono costretto a costruirmi un'oasi, un riparo, un angolo, un rifugio per me e per quanti, nelle mie stesse condizioni, ne avessero bisogno, per quanto resisterà, dal quale poter osservare in attesa della consumazione finale. Ma non per sadismo, per vendetta, per giustizia. Solo per assistere a una fine liberatoria; possibilità dell'inizio di un nuovo inizio?
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