martedì 27 dicembre 2011

"Manto di vita"

di Pietro Pancamo (pipancam@tin.it)

Spiegazione di un giorno

Il giorno che saltella
lungo le impronte delle mie scarpe;
il giorno che saluta frantumato,
quasi appostato
fra le dita.
Ogni minuto è fluido di rumori:
sbattono le ali
contro pannelli d’aria. L’impatto
vibra di scherno:
è un lazzo di sdegno
voluto dalla mia notte.

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L’ironia

Indosso la magrezza
con la disinvoltura
di chi ironizza.

Eh, ironia
con te la disperazione
è filosofia!
Ma senza di te,
ahinoi,
la poesia
è pura (mera) melanconia.

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Partenza

Ogni saluto è un commento
alla tristezza
di dover partire.

Nel disordine di un abbraccio
escogitiamo
ricordi improvvisati.

---

Vecchiaia: canto di un barbone errante della discarica

I
Quanta spazzatura
che mi ritrovo addosso
nelle dolci siepi di bosso.
Qui tra le foglie verdi
han fatto una discarica.
L’oblò di lavatrici scoperchiate
è un belvedere
per le formiche nere.
(Provviste nel secchio:
alimenti scompagni
come le scarpe vecchie,
bucate dalla noia dell’usura).
“Alla discaricaaaa!!”,
gridano torme di rifiuti.

II
Caldo e fetore
nei venti acuti
si mescolano a formare
uno smog estivo.
(Infatti se gli uomini
dàn di matto,
la sporcizia dà di puzzo).
Così il rosso del mio sangue,
che ogni mattina si sveglia,
non vuol dire più
rigenerazione
ma soltanto
riciclaggio.

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A mezzanotte

Ecco i fantasmi di queste labbra
e di quegli uomini all’occhiello dell’amore,
che attraversano le ombre cave dell’aria mansueta
con lo sguardo di chi trova nel buio
un manto di vita.

---

Mentre allaccio il destino

Ho fatto la mia vita con i piedi
senza nemmeno darle
una forma di sandalo
o di mocassino.
Che scemo.
Che cretino!
Dio come piango,
mentre allaccio il destino
qua
in mezzo alle narici,
proprio come un anello al naso.

(Manto di vita, LietoColle)

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mercoledì 21 dicembre 2011

La scoperta del "Trono della Grazia" di Vrancke van der Stockt

di Francesco Barresi (ruutura@hotmail.it)


L’opera d’arte finisce lì dove iniziano le nostre domande. Ogni buon critico, dilettante o professionista, lo sa: l’opera d’arte senza l’ausilio delle parole dice poco o nulla. Restano solo le immagini e loro, assise nel loro universo, restano mute alle nostre domande. Chi non ha mai desiderato che un quadro o una scultura parlasse, che rispondesse a tutte le nostre domande insolute? Solo la forza della ricerca può compiere questo cammino, beninteso. Tutte le forze argomentative della ragione e dell’intuito dovranno prestarsi a questo compito.
L’analisi è solo un punto di partenza e la critica il processo che si sviluppa nel dubbio metodico: ciò che conta è un’analisi storica, comparata e scientifica dell’opera.
Tale metodo ha visto impegnati due grandi personalità della città di Caltagirone: il prof. Giacomo Pace e l’architetto Belvedere. Un quadro, anzi, i suoi enigmi hanno permesso di fare incontrare queste due personalità nella comune ricerca di possibili vie di interpretazione ma, soprattutto, di aggiornamento, di svecchiamento, di presa di coscienza dell’antico per scardinarlo nella luce del nuovo e del più vero sentire. Per restituire nuovi dubbi e nuove verità.
L’opera inquisita è la Trinità di Rogier Van der Weyden (1399-1464) della chiesa di S. Giorgio(1). In questa ricerca ha avuto un peso decisivo la "Società calatina di Storia Patria e Cultura" di Caltagirone(2). Il quadro, secondo la consueta didascalia:
“rappresenta il mistero della Trinità sospesa sull'universo. L'opera apparteneva alla nobile famiglia Interlandi di Caltagirone e fu poi donata alla parrocchia di San Giorgio dalla baronessa Agata Interlandi. Si tratta della tavola più preziosa custodita nelle chiese calatine”(3).
I nostri studiosi mettono in discussione fin da principio il titolo. Perché Trinità? E poi chi fu a donarlo? Chi lo portò a Caltagirone? È veramente di Rogier van der Weyden? Queste le domande principali che hanno animato l’interesse dei ricercatori.
Sappiamo che l’opera venne donata dalla baronessa Agata Interlandi della Favarotta nel 1783, la quale ordinò che fosse esposta nella chiesa di S. Giorgio con l’ordine di nobilitarla con cornici, di farla pulire e di dotarla di un cristallo per la pubblica esposizione. I dubbi interessano il titolo,  il motivo iconografico e la sua fortuna, perché in molti altri artisti rinascimentali come Campin(4) (maestro di van der Weyden) e Quentin Metsys notiamo che lo stesso motivo è variamente ripetuto. I personaggi rappresentati sono Dio Padre, Gesù, Lo Spirito Santo, i due Arcangeli Gabriele e Michelangelo (uno con il giglio, l’altro con la spada), la Maddalena Maria e S. Giovanni. Ma arriviamo al punto cruciale. Hulin De Loo fu un esperto critico dell’arte fiamminga e credette che alcune opere di Weyden fossero state confuse con quelle di Vrancke van der Stockt (1420-1495). Quando visitò la Chiesa di S. Giorgio di Caltagirone trovò confermata la sua ipotesi. Il critico Giovanni Carandente nel 1968 pubblica un volume sul Serpotta e la pittura fiamminga del Quattrocento in Sicilia, quotando appieno l’ipotesi di Hulin de Loo ed esaminando le opere di van der Stockt. Conclusione: non può essere di van der Weyden, è sicuramente di van der Stockt. L’aspetto inquietante della vicenda è il seguente: le interpretazioni di Carandente e Hulin de Loo erano bastate a fugare ogni dubbio ma nel loro girovagare silenzioso nella città della ceramica gli studiosi non avevano avuto modo di informare le autorità competenti delle loro mirabili intuizioni. Pertanto oggi tutto il mondo degli studiosi d’arte, fiamminga in particolare, sa che l’opera è sicuramente di Vrancke van der Stockt ma comunemente la si attribuisce ancora a Rogier van der Weyden! A conferma che la paternità dell’opera sia di van der Stocke vi sono anche altri importanti indizi. Ad esempio, il dipinto misura 68,1 x 99,7 cm. Un’opera piccola tutto sommato, ma se verifichiamo il loro rapporto vediamo che si basa su un numero: 1,618, il famoso numero aureo. Questo è un indizio chiarissimo: l’opera è strutturata secondo principi e figure geometrici, quindi porta avanti un’idea di perfezione e simmetria che non era data prima di van der Stockt.
Questo e altro ancora nel lavoro pubblicato dal professore Pace e l’architetto Belvedere. Attraverso un’interessante indagine storica (che passerà dal nome della famiglia Interlandi alla famiglia Santapau di Licodia) fino alla ricostruzione microanalitica del quadro (ricercando le più intime contraddizioni e somiglianze con altre opere), i nostri critici sono riusciti non solo a presentare l’opera sotto un aspetto inedito ma a porre continui interrogativi, lasciando in sospeso tutte le certezze, al vaglio della critica.
La ricerca della verità non è mai compiuta ma è sempre approssimativa e sfuggente. Ma più che angosciarci dovremmo rallegrarci di tutto ciò, perché proprio questa imperfezione è garanzia di salvezza. La ricerca è solo un punto fermo di una lunga catena che ancora dovrà e potrà continuare con l’ausilio, il tempo, la voglia, la passione di chi indaga gli angoli bui di tutte le domande che ogni quadro ci dà. 

1) Oggi l’opera è stata traslata nel Museo Diocesano di Caltagirone.
2) Il prof. Pace e l’architetto Belvedere sono infatti due dirigenti della stessa.
3) Vedi comunicato stampa del Comune di Caltagirone del giornalista Messineo in data 26 Ottobre 2011.
4) Vedi Throne of Grace, from Flemalle Altarpiece, 1430-4, 15c N.Renaissance.

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venerdì 16 dicembre 2011

La voce della natura

di Chiara Taormina (chiara.taormina@libero.it)

E gli uomini se ne vanno a contemplare le vette delle montagne, i flutti vasti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l'immensità dell'oceano, il corso degli astri, e non pensano a sé stessi. 

Sant'Agostino

Il mare blu sembrava più vasto, venato di sottili sfumature lunari che si specchiavano sul volto sbiadito della notte. Le onde rumoreggiavano nelle quiete e nell'oscurità impenetrabile si sentiva solo una eco che rimbombava in spirali di speranza: era la voce dell'immensità. 

Una tavola di legno fradicio, corrotta dalla salsedine, era l'unico appiglio per il corpo sfinito. Argor Mavigar, vecchio stimato lupo di mare, ormai era uno dei tanti e sfortunati naufraghi, in balia dell'impeto delle forti correnti. 

A tratti, il silenzio ingoiava il respiro delle onde che poi si innalzavano di nuovo minacciose, come creste dalle orribili sembianze, sul capo indifeso del superstite. Erano fugaci attimi di calma apparente. Pochi secondi e di nuovo si scatenava il rimbombo della tempesta. 

Alle prime luci dell'alba, il mare tornò a placarsi, rendendo la vista dell'orizzonte un disteso miraggio verso la possibile salvezza. Argor rinvenne una piccola bottiglia che galleggiava accanto a lui. L'afferrò con forza, anche se nelle braccia era rimasto solo un debole barlume di vigore e, dopo avere tolto il sigillo, fece scivolare sulla mano bagnata e piagata il foglio ingiallito dal tempo. 

Dopo averlo srotolato lesse: 

«Sei solo in mezzo all'oceano, hai solo una possibilità. Nuota innanzi a te e troverai la risposta: la verità.» 

Argor si sentì spaesato, non sapeva cosa significasse il misterioso messaggio. Decise di andare verso quella meta, verso la risposta, la verità. 

Abbandonò la tavola e usò le ultime forze per annaspare fino alla successiva bottiglia. 

La trovò a breve distanza e senza difficoltà. 

Anche stavolta l'aprì e con vorace curiosità lesse: 

«Sei sempre solo e innanzi a te c'è la vastità del mare. Io sono qui per dirti che non esiste più alcun lembo di terra ove approdare. Il mondo è stato sommerso per sempre. Quale sarà il tuo destino? Cosa farai?» 

Argor rise di cuore: pensò ad uno scherzo di qualche sciocco. Tornò a ripescare la tavola a cui aggrapparsi e su di essa trovò una strana scritta: 

“SVEGLIATI”. 

In quell'istante il mare lo attirò verso il fondo, senza pietà lo inglobò nella sue maglie di gelida fine. 

Argor Mavigar aprì gli occhi, forse per l'ultima volta, in mezzo al buio di quella eterna prigione. Sentì il rumore del suo respiro crescere dentro la nebbia degli ultimi attimi. Fu colto da uno scatto di puro terrore. Con un tonfo, cadde dal letto in una fredda notte invernale: era stato solo un incubo. 

Andò in cucina a bere un sorso d'acqua: erano le tre del mattino. 

Sul tavolo, trovò una bottiglia che di sicuro non gli apparteneva. “Cosa mai sta accadendo” si chiese tra sé. 

La prese, l'aprì e lesse il messaggio che era al suo interno: 

«Sei solo in mezzo all'immensità della terra. Il mare è scomparso, non potrai mai più solcarne le vie.» 

Argor, preso dal panico, andò alla finestra. Dalla cima della collina di casa sua si vedeva l'oceano: il buio totale copriva ogni scenario. 

Aprì la porta e con il foglio ancora tra le mani corse verso la spiaggia. Tra le fronde dei pochi alberi che si ammassavano nei pressi della sua dimora, poteva ascoltare solo il suono dimesso dei battiti del cuore. 

Mise piede sulla sabbia: il mare era davvero scomparso. 

All'orizzonte si vedeva solo una lingua di terra infinita, ingentilita nella forma dalle carezze delle prime luci solari. 

Al suolo campeggiava una scritta: 

“SVEGLIATI”. 

Argor Mavigar si destò all'alba, preso dal terrore. Aveva persino paura a guardare oltre il davanzale delle imposte. Capì che la sua anima era sospesa a metà tra l'amore per il mare e la terra. Non avrebbe mai voluto assistere alla distruzione delle due parti vitali del cuore umano. 

La solitudine non lo spaventava. Del resto l'uomo lo aveva sempre escluso dai salotti borghesi delle lussuose case senza sostanza. 

Lui, invece, faceva parte dell'essenza vera del creato, fatta di sassi e gocce di acqua, di tempeste e quiete. Adesso quella voce lo stava chiamando. In pochi potevano sentirla. 

Erano i suoni che armonizzavano la coscienza, che donavano all'essere umano la dignità di creatura vivente.

Terra e mare, le due parti del mondo, in fondo allo spirito della natura. E Argor sapeva che l'avanzamento della civiltà stava per dissolverle nella dimenticanza dell'avidità e del capitalismo. Per sempre...

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lunedì 12 dicembre 2011

Caffè Filosofico

Università degli Studi Roma Tre – Dipartimento di Filosofia
Società Filosofica Romana – Sezione della Società Filosofica Italiana

Caffè Filosofico
Elio Matassi, Maria Teresa Pansera, Francesca Gambetti
discutono di etica, politica ed economia
in occasione della pubblicazione del volume di

Federico Sollazzo

Giovedì 15 dicembre 2011 ore 16,30
Caffè della Limonaia di Villa Torlonia, Via Spallanzani 1, Roma

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lunedì 5 dicembre 2011

Le teorie sulla globalizzazione

di Patrizio Paolinelli (patrizio.paolinelli@gmail.com)

Un imperdibile saggio di Luke Martell: segna una svolta negli studi su questo tema

Da molto tempo si avvertiva l’esigenza di uno studio che facesse luce sulla globalizzazione e la mitologia che ne è seguita sin dalla comparsa di tale categoria interpretativa nei primi anni ’80 del secolo scorso. Finalmente questo studio è arrivato. Era ora! Davvero non se ne poteva più di leggere e ascoltare tanta approssimazione su un fenomeno che riguarda la vita di tutti gli abitanti del pianeta. E così, ad un anno dalla sua edizione inglese, Einaudi ha appena pubblicato un lavoro di Luke Martell, Sociologia della globalizzazione, 404 pagg., 26,00 euro. Si tratta di un’opera che segna una svolta negli studi su questo tema.
Pur avendo un taglio accademico il volume è scritto con un linguaggio facilmente comprensibile e per di più ogni capitolo può essere letto come uno studio a sé stante. Sociologia della globalizzazione affronta gran parte dei temi sulle trasformazioni del mondo contemporaneo dibattuti negli ultimi trent’anni: dalle metamorfosi culturali all’impatto sociale della tecno-scienza; dalle nuove disuguaglianze alle migrazioni; dall’economia finanziaria al nuovo ruolo dello Stato; dai movimenti per una giustizia globale al declino dell’impero americano; dalla formazione di una coscienza globale alla guerra.
E’ necessario aggiungere che il lavoro di Martell costituisce un’esauriente rassegna delle teorie sulla globalizzazione dagli anni ’80 ad oggi. Perciò il volume possiede anche un valore per così dire enciclopedico. Il ché non guasta. Ma è soprattutto la metodologia adottata a fare di quest’opera un punto di riferimento per gli anni a venire. In poche parole, Martell restituisce alla sociologia la sua funzione originaria: indagare la realtà analizzando la coerenza teorica delle sue interpretazioni sottoponendole a verifica empirica. Funzione largamente smarrita proprio da numerosi sociologi che si sono occupati della globalizzazione (per non parlare della vulgata giornalistica che da tempo costituisce ormai un vero e proprio ostacolo alla comprensione del fenomeno).
Sembrerà sconcertante ma il sociologo inglese si limita semplicemente a fare il proprio mestiere: sottoporre al confronto con i fatti le diverse teorie della globalizzazione applicate alle tematiche sopra indicate (economia, immigrazione, ecc.). Ne viene fuori un quadro non così inclusivo come appare a prima vista. Un quadro per nulla semplice e ancor meno coerente rispetto a quello che la maggioranza di noi ha in testa. A nostra discolpa va detto che l’informazione mainstream ha fissato nell’opinione pubblica mondiale un’idea radicale della globalizzazione. Idea ferma alla prima ondata teorica degli anni ‘80 e che da lì non si è più mossa mentre il dibattito è andato molto, molto più avanti. Tale ondata va sotto il nome di globalismo e a suo tempo ha fornito alcuni concetti-chiave per interpretare la globalizzazione: un fenomeno mondiale ineluttabile secondo il quale le economie nazionali hanno perso di importanza, gli Stati cedono progressivamente terreno, le culture si vanno omologando e ibridizzando. Negli anni ’90 a mettere in discussione l’omogeneità e la generalità di simili processi è proprio la seconda ondata dei teorici della globalizzazione: gli scettici. I quali ritengono che le identità nazionali si evolvono ma non si dissolvono, mentre la rinascita dei nazionalismi è di per sé un’evidenza che confuta le scorciatoie sull’estinzione dello Stato. Insomma, la globalizzazione non si diffonde in modo uniforme e provoca risposte differenti. Agli scettici seguono i post-scettici o trasformazionalisti (chiamati così perché ritengono che la globalizzazione comporti la prosecuzione e la trasformazione delle strutture esistenti all’interno dei singoli Paesi). Per i post-scettici la globalizzazione è un fenomeno nuovo ma non senza precedenti. L’ultima ondata teorica è costituita dalla prospettiva ideativa. Secondo questa visione l’elemento cruciale non è ciò che accade nel mondo ma la globalizzazione in quanto discorso. Insomma ciò che pensiamo della globalizzazione è più significativo della globalizzazione stessa: se pensiamo di vivere in un mondo globalizzato ci comportiamo come se lo fosse realmente (anche se non lo è).  
Dunque il quadro ricostruito da Martell indica chiaramente che tra gli addetti ai lavori non esiste una sola teoria della globalizzazione ma addirittura quattro correnti di pensiero che messe a confronto presentano diverse contraddizioni interne e su punti cruciali sono in netto disaccordo. Ma non sono solo i sociologi ad accapigliarsi. Anche tra gli storici c’è profonda discordia sull’origine della globalizzazione. Si pensi solo allo studio di Hirst e Thompson, i quali affermano che tra il 1870 e il 1914 l’economia era più internazionalizzata di quella attuale.
Se da un lato questo ginepraio di tesi spiega perché la stampa è ancora oggi bloccata alla spiegazione più facile (ma largamente superata), dall’altro, la ridda di opinioni non esime dalla ricerca di una definizione universalmente accettata. E allora per Martell un fenomeno è globale quando presenta tre caratteristiche: regolarità, continuità nel tempo, interdipendenza. Tuttavia, analizzando dimensioni  quali la cultura, l’economia, la politica ci si rende conto che è molto difficile parlare di globalizzazione. Sul piano economico ad esempio l’Asia si arricchisce mentre l’Africa impoverisce. Il che significa ché le distanze sociali aumentano e l’interdipendenza diminuisce a favore degli Stati più forti venendo così meno il presupposto fondamentale della globalizzazione: l’integrazione. Altro esempio: la Coca-Cola. Per Martell questo mito del consumismo è senz’altro un prodotto globale, ma ha a che fare più con l’internazionalizzazione che con la globalizzazione perché la casa-madre non ha affatto un’identità sovranazionale ma marcatamente nazionale (quella USA). E questo discorso vale per quasi tutte le multinazionali. Le quali appartengono ai Paesi ricchi del pianeta determinando così un’asimmetria inconciliabile con le tesi più diffuse sulla globalizzazione. Un ultimo esempio: il turismo. E’ sufficiente dare un’occhiata alle statistiche per rendersi conto che la circolazione delle persone non è un fenomeno regolare: circa l’80% del movimento turistico internazionale si svolge all’interno di Paesi europei  e nord-americani e solo il 20% in altre regioni. Dunque il carattere globale del turismo è limitato perché non ha apporti da tutto il mondo ma solo da alcune aree.
E’ chiara a questo punto la direzione che prende la riflessione di Martell: la globalizzazione è osservata attraverso le prospettive più classiche della sociologia quali il potere, la disuguaglianza, il conflitto. Tale approccio, accantonato da troppi sociologi, si spiega per due motivi: 1) la sociologia non è scienza se non esercita una funzione critica nei confronti delle idee di senso comune – e la globalizzazione è una delle più divulgate idee di senso comune; 2) la globalizzazione è incomprensibile se ci si limita ad analizzarla solo sul piano culturale, se ci si concentra principalmente sulle migrazioni, se la si presenta come pura esaltazione del nuovo rispetto al vecchio. Filtrate dal setaccio di Martell delle teorie sulla globalizzazione resta molto poco. E due dei risultati più interessanti del suo libro consistono nell’aver individuato una globalizzazione per pochi privilegiati e nell’essere questi stessi privilegiati un ostacolo alla globalizzazione intesa come integrazione. Martell infatti mostra che le nazioni ricche si aprono al commercio mondiale solo quando possono trarne vantaggio per le proprie industrie mentre lo ostacolano quando non riescono a trarne benefici. Ed è un dato incontrovertibile che il 60% della popolazione mondiale viva con un reddito che oscilla tra uno e due dollari al giorno. Il ché per molti significa la fame. Insomma la globalizzazione è più un’ideologia che una realtà.

VIAPO», 01/10/2011)

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