di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
In data 22/03/04 si è svolto, presso la Fondazione Basso, un seminario sul tema del biopotere in Michel Foucault; l’organizzazione dei lavori è stata curata da Giacomo Marramao ed Antonio Negri e, tra gli altri, sono intervenuti Giorgio Agamben, Massimo De Carolis, Ida Dominijanni, Emanuela Fornari, Antonella Moscati, Elettra Stimilli, Mario Tronti e Paolo Virno.
Gli argomenti trattati sono stati molteplici in virtù del fatto che la concezione foucaltiana di biopotere ha funzionato da “trampolino di lancio” per l’esposizione delle nuove e personali ricerche dei partecipanti. Si è spaziato, infatti, dall’origine filologica del termine di biopolitica, nato in Francia negli anni Sessanta parallelamente alla critica allo strutturalismo, all’identificazione di argomenti centrali quali: la difficoltà (o l’impossibilità) di giungere ad una definizione ultima del concetto di vita ed eventualmente a chi spetti tale definizione, se alla filosofia, alla medicina, alla politica o alla teologia; la proposta di inquadrare le relazioni fra la vita e la politica in una prospettiva sincronica, anziché, come viene abitualmente fatto, diacronica; la possibilità che il concetto di biopolitica possa condurre al superamento dell’attuale impostazione sociale (quella cioè descritta dalla Scuola di Francoforte) sorta dalla crisi del rapporto tra realtà e ideologia, tra “struttura” e “sovrastruttura”, marxianamente intese. Non sono inoltre mancati riferimenti e confronti con altri autori quali, in primo luogo, Hannah Arendt, Karl Marx ed Alain Tourenne, e questioni rimaste aporeticamente aperte, in discussione, come ad esempio: l’eventuale validità od obsolescenza dell’economia politica marxiana; l’analisi della materializzazione storica, quindi di volta in volta mutevole, del concetto di biopotere in determinate forme d’organizzazione politica; l’ipotesi di traduzione del confronto “potere-biopotere” nel confronto “potere sovrano-contropotere”; le possibili interazioni tra l’idea di biopotere ed il messianesimo.
Si riporta, di seguito, l’intervento introduttivo del Prof. Giacomo Marramao.
Questa dedicata al biopotere è la seconda seduta seminariale che la Fondazione Basso ha organizzato su diretto suggerimento di Antonio Negri; è nostra intenzione come Fondazione moltiplicare occasioni di questo genere perché questi incontri seminariali, a mio avviso, sono un modo molto proficuo di mettere a confronto, non soltanto i diversi punti di vista, ma anche le ricerche in corso di ciascuno di noi, cercando di evidenziare quelli che possono essere sia i punti di convergenza che quelli di divergenza, di frizione, ma comunque attorno a un comune interesse. La ragione per la quale abbiamo deciso, con Negri, di concentrarci sulla questione, sulla categoria di biopotere è perché questa categoria ha una doppia rilevanza: ha una rilevanza di tipo concettuale, ma anche una rilevanza pratica e, naturalmente, scopo di questi seminari è cercare d’individuare dei concetti ponte che siano dei concetti forti anche dal punto di vista della riflessione teorica e che rimandino a “costellazioni di esperienza”, quindi a costellazioni pratiche. La ragione, inoltre, per la quale ci siamo concentrati sulla categoria di biopotere è perché abbiamo avuto la sensazione, Negri ed io, che vi fossero ormai accezioni varie, o addirittura, una accezione ambivalente del termine della categoria di biopolitica, se volete, un’accezione che può essere ben rapresentata per un verso dalla ricerca di Agamben, che è un’accezione, se volete, negativa, cioè la biopolitica come dimensione legata al potere sovrano, a uno stato di eccezione globale e via dicendo, o un’accezione latu sensu positiva che è quella di Negri.
Ora, quest’accezione ambivalente potrebbe essere a rigore ricondotta a una distinzione tra biopotere sovrano e biopolitica tendenzialmente agita da movimenti costituenti, stà di fatto che in Foucault, anche alla luce dei corsi ancora inediti in Francia, resta indecisa la questione del rapporto tra biopolitica e sovranità, che è un rapporto cruciale a partire dal XVIII sec. Per Foucault il XVIII secolo, e qui cito proprio una frase molto plastica de La volontà di sapere, segna proprio «l’ingresso della vita nella storia». Prima di allora «il sistema del vivente era racchiuso in un cerchio invalicabile» (questa non è un’espressione di Foucault, ma un’espressione di Broudel); prima del Settecento «il sistema del vivente era racchiuso in un cerchio invalicabile». Quindi come si pone la questione del rapporto tra biopolitica e sovranità in Foucault? In Foucault sovranità, ovviamente questo si sa, è un potere meramente negativo-repressivo il cui esercizio ha luogo solo nella forma della sottrazione, sulla base di quello che Foucault chiama «il puro diritto di prelievo», una sorta di vampirismo, cioè la sovranità è sostanzialmente una prestazione vampiresca, quindi ha la forma della sottrazione e del prelievo di beni, servizi e sangue dei sudditi, mentre la dimensione biopolitica si traduce, dice Foucault, in «una relazione di cura, tutela, crescita, potenziamento della vita». Una impostazione di questo genere chiama in causa perlomeno l’esistenza di un “campo di tensione” tra una concezione negativa e quella che potremmo chiamare una concezione produttiva o generativa del potere, questo è uno dei motivi classici di tutte le interpretazioni dell’opera foucaultiana, ma in ogni caso il trait d’union tra questa due concezioni, tra una concezione negativo-repressiva e una concezione produttivo-generativa del potere, sembra essere per Foucault il potere specificamente moderno, inteso come controllo della pulsione di morte. Da questo punto di vista, Foucault, attraverso percorsi ben diversi, ci dice una cosa analoga a quella che ci aveva detto Weber: il potere moderno, la sovranità moderna hobbesiana e post-hobbesiana, condivide con la sua religione la prerogativa del controllo della pulsione di morte; cioè il potere è potere di vita e di morte, o meglio potere di vita/morte, la barra è decisiva in quanto non dimentichiamo che per Foucault il gesto fondamentale del potere sovrano è la separazione tra vita e morte, alla lettera «la decisione tra vita e morte», la linea di divisione, la decisione tra vita e morte, questa è la decisione ultima. A rigore si dovrebbe dunque parlare di “bio-thanato-politica”: la thanato-politica è in altri termini l’altra faccia o, come io preferisco dire, l’interfaccia, della biopolitica, come del resto lo stesso Foucault esplicitamente dichiara, e qui cito un brano di Foucault tratto dal volume Tecnologie del sé, uscito per Bollati almeno una decina d’anni fa: «Poiché la popolazione non è altro che ciò di cui lo Stato si prende cura a proprio vantaggio, è naturale che esso sia autorizzato anche a portarla al massacro se necessario, il reciproco della biopolitica è la thanatopolitica»; questa è una formula foucoultiana estremamente icastica.
Il biopotere si trova così situato al punto di confluenza, o al punto d’incrocio, di due vettori, tra due linee apparentemente divergenti: il far vivere e il far morire. Ma per Foucault si tratta di un passaggio non soltanto storico, ma costitutivo della struttura epistemica, della struttura teorico-pratica del biopotere, cioè il passaggio dal sovrano Ancien régime, interpretato da Foucault come potere di far morire e di lasciar vivere, al potere propriamente moderno che è quello di far vivere e di lasciar morire. Si delinea di qui quella che potremmo chiamare la linea d’ombra della politicizzazione della vita, la linea d’ombra che separa la comunità totalitaria dalla comunità dell’umanità redenta e non a caso il totalitarismo è definito da Foucault come la forma di potere in cui la generalizzazione del diritto sovrano di uccidere viene a coincidere con la generalizzazione del meccanismo del biopotere. Ma per afferrare il senso di questo esito dobbiamo mettere a fuoco, anche criticamente credo, (almeno è anche questo il compito di questo seminario: partire da Foucault per andare oltre) il modo in cui Foucault introduce quella che lui chiama la «soglia di modernità biologica», questa soglia è segnata dall’apparire dell’uomo, come è noto, quest’allotropo empirico-trascendentale, l’uomo che è un prodotto dell’Illuminismo, nel senso scientifico-positivistico del termine, ma è anche un prodotto di Kant. È un prodotto dell’Illuminismo, diciamo, della ragione scientifica illuministica ma anche della ragione etica illuministica, nel senso che Kant rientra perfettamente in questa idea foucoultiana di apparire dell’umano, di quest’allotropo empirico-trascendentale, ma il clou è determinato dal fatto che l’uomo, prodotto tipico della modernità, prende il posto del re, cosa comporta questo? Comporta, per Foucault, un nesso paradossale tra finitudine e movimento infinito, tra la finitudine della condizione umana e biologica e il movimento infinito asintotico del progresso, proprio così come lo intende Kant, cioè il progresso come un indeterminato procedere verso il meglio e voi sapete qual è il giudizio che Foucault dà di quest’idea di progresso: l’involucro è il progresso, il nocciolo è la decadenza, nietzscheanamente. Si ricordi quel passo celebre in cui Foucault dice «prima della fine del XVIII sec. – cioè il periodo appunto degli scritti di Kant sulla storia e la politica, che poi il Foucault ultimo valorizzerà, quelli dell’ontologia dell’attualità l’uomo non esisteva, come non esistevano – badate bene – la potenza della vita, la fecondità del lavoro e lo spessore storico del linguaggio». Vita, lavoro e linguaggio, che sono gli indicatori della finitudine, con l’avvento della storia prendono il posto del re. Noi abbiamo in questa fase l’emergere, ed è qui che matura il concetto di biopolitica, di nuove tecnologie di potere connesse con la dimensione reattiva dei nuovi diritti; cioè per Foucault dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, quella delle Nazioni Unite, noi non abbiamo altro che la “interfaccia reattiva” della biopolitica, cioè abbiamo il diritto alla vita, al corpo, alla salute, alla felicità, cioè abbiamo una dimensione nuova del diritto incomprensibile per il sistema giuridico classico.
Foucault interpreta la nuova dimensione del diritto come la replica politica a tutte queste nuove procedure del potere che non partecipano del diritto tradizionale alla sovranità. Si aprono qui, a mio avviso, tre questioni dirimenti che restano indecise in Foucault, in quanto egli adotta spesso formule oscillanti; le espongo velocemente.
In primo luogo, prima questione dirimente, le politiche di massa degli ultimi due secoli, dalle guerre napoleoniche fino al nazismo e fino a oggi, dopo Foucault, queste politiche di massa, che la storiografia aveva individuato come crescita della vita materiale, crescita esponenziale della vita materiale, avvengono all’insegna del ritorno dell’ordine sovrano o del suo definitivo tramonto?
Secondo problema: che relazione intercorre, quanto al tema del biopotere, tra il prima e il dopo il Leviatano? Tra il prima dello Stato e il dopo lo Stato? La mia tesi è che il biopotere non coincide con la statalizzazione della vita biologica, ma piuttosto con il controllo deterritorializzato (questo è il tema che Negri ed Hardt hanno affrontato in Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione) della vita in tutte le sue sue declinazioni biometriche, bioetiche, biotecnologiche, dove lo stato d’eccezione è sostituito dalla normalizzazione del controllo capillare. In altri termini, lo stato d’eccezione è tanto più significativo quanto più produce forme di controllo normali.
Terzo punto: si tratta qui della questione relativa a quella che io ritengo essere l’indeterminazione del concetto di vita, ad onta della proliferazione del concetto di vita nel dibattito odierno, e mi piace molto citare spesso la formula di Barbara Duden dell’abuso del concetto di vita. Io credo che il paradigma immunologico, da questo punto di vista legato al concetto di vita, se non vuole volatilizzarsi in una flebile metafora deve fare i conti con l’autoreferenza e i suoi paradossi, da Luhmann e Hofstätter in giù (temi cari a Massimo De Carolis in particolare) il che significa ripensare la questione del biopotere nel suo intreccio con la questione dell’identità, argomento di cui mi sono interessato anche nel mio ultimo libro, cioè il tema del biopotere visto, diciamo, con la logica dell’identità, e pensare questo nesso di potere e identità, biopotere e identità, in una fase segnata da una effrazione, da una esplosione di tutti i paradigmi classici di politica, cioè in un’epoca segnata dallo spostamento continuo della linea di confine tra natura e artificio e con essa della frontiera tra visibile e invisibile, tra possibile e impossibile. Questo è credo, per larghe linee, lo scenario che Negri ed io avevamo pensato come scena influente del confronto tra di noi oggi.
(«B@belonline.net», n. 6, 2004)
In data 22/03/04 si è svolto, presso la Fondazione Basso, un seminario sul tema del biopotere in Michel Foucault; l’organizzazione dei lavori è stata curata da Giacomo Marramao ed Antonio Negri e, tra gli altri, sono intervenuti Giorgio Agamben, Massimo De Carolis, Ida Dominijanni, Emanuela Fornari, Antonella Moscati, Elettra Stimilli, Mario Tronti e Paolo Virno.
Gli argomenti trattati sono stati molteplici in virtù del fatto che la concezione foucaltiana di biopotere ha funzionato da “trampolino di lancio” per l’esposizione delle nuove e personali ricerche dei partecipanti. Si è spaziato, infatti, dall’origine filologica del termine di biopolitica, nato in Francia negli anni Sessanta parallelamente alla critica allo strutturalismo, all’identificazione di argomenti centrali quali: la difficoltà (o l’impossibilità) di giungere ad una definizione ultima del concetto di vita ed eventualmente a chi spetti tale definizione, se alla filosofia, alla medicina, alla politica o alla teologia; la proposta di inquadrare le relazioni fra la vita e la politica in una prospettiva sincronica, anziché, come viene abitualmente fatto, diacronica; la possibilità che il concetto di biopolitica possa condurre al superamento dell’attuale impostazione sociale (quella cioè descritta dalla Scuola di Francoforte) sorta dalla crisi del rapporto tra realtà e ideologia, tra “struttura” e “sovrastruttura”, marxianamente intese. Non sono inoltre mancati riferimenti e confronti con altri autori quali, in primo luogo, Hannah Arendt, Karl Marx ed Alain Tourenne, e questioni rimaste aporeticamente aperte, in discussione, come ad esempio: l’eventuale validità od obsolescenza dell’economia politica marxiana; l’analisi della materializzazione storica, quindi di volta in volta mutevole, del concetto di biopotere in determinate forme d’organizzazione politica; l’ipotesi di traduzione del confronto “potere-biopotere” nel confronto “potere sovrano-contropotere”; le possibili interazioni tra l’idea di biopotere ed il messianesimo.
Si riporta, di seguito, l’intervento introduttivo del Prof. Giacomo Marramao.
Questa dedicata al biopotere è la seconda seduta seminariale che la Fondazione Basso ha organizzato su diretto suggerimento di Antonio Negri; è nostra intenzione come Fondazione moltiplicare occasioni di questo genere perché questi incontri seminariali, a mio avviso, sono un modo molto proficuo di mettere a confronto, non soltanto i diversi punti di vista, ma anche le ricerche in corso di ciascuno di noi, cercando di evidenziare quelli che possono essere sia i punti di convergenza che quelli di divergenza, di frizione, ma comunque attorno a un comune interesse. La ragione per la quale abbiamo deciso, con Negri, di concentrarci sulla questione, sulla categoria di biopotere è perché questa categoria ha una doppia rilevanza: ha una rilevanza di tipo concettuale, ma anche una rilevanza pratica e, naturalmente, scopo di questi seminari è cercare d’individuare dei concetti ponte che siano dei concetti forti anche dal punto di vista della riflessione teorica e che rimandino a “costellazioni di esperienza”, quindi a costellazioni pratiche. La ragione, inoltre, per la quale ci siamo concentrati sulla categoria di biopotere è perché abbiamo avuto la sensazione, Negri ed io, che vi fossero ormai accezioni varie, o addirittura, una accezione ambivalente del termine della categoria di biopolitica, se volete, un’accezione che può essere ben rapresentata per un verso dalla ricerca di Agamben, che è un’accezione, se volete, negativa, cioè la biopolitica come dimensione legata al potere sovrano, a uno stato di eccezione globale e via dicendo, o un’accezione latu sensu positiva che è quella di Negri.
Ora, quest’accezione ambivalente potrebbe essere a rigore ricondotta a una distinzione tra biopotere sovrano e biopolitica tendenzialmente agita da movimenti costituenti, stà di fatto che in Foucault, anche alla luce dei corsi ancora inediti in Francia, resta indecisa la questione del rapporto tra biopolitica e sovranità, che è un rapporto cruciale a partire dal XVIII sec. Per Foucault il XVIII secolo, e qui cito proprio una frase molto plastica de La volontà di sapere, segna proprio «l’ingresso della vita nella storia». Prima di allora «il sistema del vivente era racchiuso in un cerchio invalicabile» (questa non è un’espressione di Foucault, ma un’espressione di Broudel); prima del Settecento «il sistema del vivente era racchiuso in un cerchio invalicabile». Quindi come si pone la questione del rapporto tra biopolitica e sovranità in Foucault? In Foucault sovranità, ovviamente questo si sa, è un potere meramente negativo-repressivo il cui esercizio ha luogo solo nella forma della sottrazione, sulla base di quello che Foucault chiama «il puro diritto di prelievo», una sorta di vampirismo, cioè la sovranità è sostanzialmente una prestazione vampiresca, quindi ha la forma della sottrazione e del prelievo di beni, servizi e sangue dei sudditi, mentre la dimensione biopolitica si traduce, dice Foucault, in «una relazione di cura, tutela, crescita, potenziamento della vita». Una impostazione di questo genere chiama in causa perlomeno l’esistenza di un “campo di tensione” tra una concezione negativa e quella che potremmo chiamare una concezione produttiva o generativa del potere, questo è uno dei motivi classici di tutte le interpretazioni dell’opera foucaultiana, ma in ogni caso il trait d’union tra questa due concezioni, tra una concezione negativo-repressiva e una concezione produttivo-generativa del potere, sembra essere per Foucault il potere specificamente moderno, inteso come controllo della pulsione di morte. Da questo punto di vista, Foucault, attraverso percorsi ben diversi, ci dice una cosa analoga a quella che ci aveva detto Weber: il potere moderno, la sovranità moderna hobbesiana e post-hobbesiana, condivide con la sua religione la prerogativa del controllo della pulsione di morte; cioè il potere è potere di vita e di morte, o meglio potere di vita/morte, la barra è decisiva in quanto non dimentichiamo che per Foucault il gesto fondamentale del potere sovrano è la separazione tra vita e morte, alla lettera «la decisione tra vita e morte», la linea di divisione, la decisione tra vita e morte, questa è la decisione ultima. A rigore si dovrebbe dunque parlare di “bio-thanato-politica”: la thanato-politica è in altri termini l’altra faccia o, come io preferisco dire, l’interfaccia, della biopolitica, come del resto lo stesso Foucault esplicitamente dichiara, e qui cito un brano di Foucault tratto dal volume Tecnologie del sé, uscito per Bollati almeno una decina d’anni fa: «Poiché la popolazione non è altro che ciò di cui lo Stato si prende cura a proprio vantaggio, è naturale che esso sia autorizzato anche a portarla al massacro se necessario, il reciproco della biopolitica è la thanatopolitica»; questa è una formula foucoultiana estremamente icastica.
Il biopotere si trova così situato al punto di confluenza, o al punto d’incrocio, di due vettori, tra due linee apparentemente divergenti: il far vivere e il far morire. Ma per Foucault si tratta di un passaggio non soltanto storico, ma costitutivo della struttura epistemica, della struttura teorico-pratica del biopotere, cioè il passaggio dal sovrano Ancien régime, interpretato da Foucault come potere di far morire e di lasciar vivere, al potere propriamente moderno che è quello di far vivere e di lasciar morire. Si delinea di qui quella che potremmo chiamare la linea d’ombra della politicizzazione della vita, la linea d’ombra che separa la comunità totalitaria dalla comunità dell’umanità redenta e non a caso il totalitarismo è definito da Foucault come la forma di potere in cui la generalizzazione del diritto sovrano di uccidere viene a coincidere con la generalizzazione del meccanismo del biopotere. Ma per afferrare il senso di questo esito dobbiamo mettere a fuoco, anche criticamente credo, (almeno è anche questo il compito di questo seminario: partire da Foucault per andare oltre) il modo in cui Foucault introduce quella che lui chiama la «soglia di modernità biologica», questa soglia è segnata dall’apparire dell’uomo, come è noto, quest’allotropo empirico-trascendentale, l’uomo che è un prodotto dell’Illuminismo, nel senso scientifico-positivistico del termine, ma è anche un prodotto di Kant. È un prodotto dell’Illuminismo, diciamo, della ragione scientifica illuministica ma anche della ragione etica illuministica, nel senso che Kant rientra perfettamente in questa idea foucoultiana di apparire dell’umano, di quest’allotropo empirico-trascendentale, ma il clou è determinato dal fatto che l’uomo, prodotto tipico della modernità, prende il posto del re, cosa comporta questo? Comporta, per Foucault, un nesso paradossale tra finitudine e movimento infinito, tra la finitudine della condizione umana e biologica e il movimento infinito asintotico del progresso, proprio così come lo intende Kant, cioè il progresso come un indeterminato procedere verso il meglio e voi sapete qual è il giudizio che Foucault dà di quest’idea di progresso: l’involucro è il progresso, il nocciolo è la decadenza, nietzscheanamente. Si ricordi quel passo celebre in cui Foucault dice «prima della fine del XVIII sec. – cioè il periodo appunto degli scritti di Kant sulla storia e la politica, che poi il Foucault ultimo valorizzerà, quelli dell’ontologia dell’attualità l’uomo non esisteva, come non esistevano – badate bene – la potenza della vita, la fecondità del lavoro e lo spessore storico del linguaggio». Vita, lavoro e linguaggio, che sono gli indicatori della finitudine, con l’avvento della storia prendono il posto del re. Noi abbiamo in questa fase l’emergere, ed è qui che matura il concetto di biopolitica, di nuove tecnologie di potere connesse con la dimensione reattiva dei nuovi diritti; cioè per Foucault dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, quella delle Nazioni Unite, noi non abbiamo altro che la “interfaccia reattiva” della biopolitica, cioè abbiamo il diritto alla vita, al corpo, alla salute, alla felicità, cioè abbiamo una dimensione nuova del diritto incomprensibile per il sistema giuridico classico.
Foucault interpreta la nuova dimensione del diritto come la replica politica a tutte queste nuove procedure del potere che non partecipano del diritto tradizionale alla sovranità. Si aprono qui, a mio avviso, tre questioni dirimenti che restano indecise in Foucault, in quanto egli adotta spesso formule oscillanti; le espongo velocemente.
In primo luogo, prima questione dirimente, le politiche di massa degli ultimi due secoli, dalle guerre napoleoniche fino al nazismo e fino a oggi, dopo Foucault, queste politiche di massa, che la storiografia aveva individuato come crescita della vita materiale, crescita esponenziale della vita materiale, avvengono all’insegna del ritorno dell’ordine sovrano o del suo definitivo tramonto?
Secondo problema: che relazione intercorre, quanto al tema del biopotere, tra il prima e il dopo il Leviatano? Tra il prima dello Stato e il dopo lo Stato? La mia tesi è che il biopotere non coincide con la statalizzazione della vita biologica, ma piuttosto con il controllo deterritorializzato (questo è il tema che Negri ed Hardt hanno affrontato in Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione) della vita in tutte le sue sue declinazioni biometriche, bioetiche, biotecnologiche, dove lo stato d’eccezione è sostituito dalla normalizzazione del controllo capillare. In altri termini, lo stato d’eccezione è tanto più significativo quanto più produce forme di controllo normali.
Terzo punto: si tratta qui della questione relativa a quella che io ritengo essere l’indeterminazione del concetto di vita, ad onta della proliferazione del concetto di vita nel dibattito odierno, e mi piace molto citare spesso la formula di Barbara Duden dell’abuso del concetto di vita. Io credo che il paradigma immunologico, da questo punto di vista legato al concetto di vita, se non vuole volatilizzarsi in una flebile metafora deve fare i conti con l’autoreferenza e i suoi paradossi, da Luhmann e Hofstätter in giù (temi cari a Massimo De Carolis in particolare) il che significa ripensare la questione del biopotere nel suo intreccio con la questione dell’identità, argomento di cui mi sono interessato anche nel mio ultimo libro, cioè il tema del biopotere visto, diciamo, con la logica dell’identità, e pensare questo nesso di potere e identità, biopotere e identità, in una fase segnata da una effrazione, da una esplosione di tutti i paradigmi classici di politica, cioè in un’epoca segnata dallo spostamento continuo della linea di confine tra natura e artificio e con essa della frontiera tra visibile e invisibile, tra possibile e impossibile. Questo è credo, per larghe linee, lo scenario che Negri ed io avevamo pensato come scena influente del confronto tra di noi oggi.
(«B@belonline.net», n. 6, 2004)
Questa opera è pubblicata sotto una Licenza Creative Commons.
Molto interessante e ben scritto.
RispondiEliminaErwin