M. T. Pansera (cura), A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica. Problemi socio-psicologici della civiltà industriale, Armando, Roma 2003
In età contemporanea si sviluppa un’intensa critica sociale e culturale, che và da Nietzsche a Spengler, da Bergson a Marcuse, particolarmente aspra nei confronti della tecnica vista come l’emblema di un decadimento morale. Agli antipodi di questa critica si trova la posizione di Gehlen, per il quale rifiutare la tecnica equivale a rifiutare l’intera società attuale, sorta (e tuttora in via di formazione) a seguito di radicali mutamenti derivanti dal fenomeno dell’industrializzazione. Se invece si accettasse la tecnica ci si accorgerebbe di come essa costituisca un miglioramento della condizione umana, caratterizzata da carenze biologiche poiché gli uomini sono per natura sprovvisti di organi specializzati (contrariamente agli animali); in questa prospettiva la tecnica offre un triplice miglioramento all’uomo poiché essa sostituisce gli organi mancanti, potenzia quelli già esistenti e alleggerisce le fatiche materiali. Il fine ultimo della tecnica risiede nel tentativo di dominare la realtà concreta, tentativo che in passato competeva alla magia che si poneva come potenza in grado di controllare la natura, evitando, quindi, che gli uomini venissero travolti dalle forze naturali. Dunque la volontà di controllare e dominare la natura era, in ultima analisi, finalizzata al raggiungimento di una condizione di equilibrio tra l’uomo e l’ambiente circostante; tale stabilità è, per Gehlen, comprensibile grazie al meccanismo psicologico della “risonanza”: “senso antropologico” che ci rende consapevoli di quando i meccanismi interni si ripetono in consonanza agli eventi naturali. Il senso della risonanza rischia però di essere quasi del tutto dimenticato a causa del processo di intellettualizzazione da cui deriva una tale specializzazione del sapere per la quale risulta oggi pressoché impossibile avere una conoscenza globale della realtà, rendendo indispensabili “esperienze di seconda mano” fornite dai media, per la comprensione di fatti che avvengono in sovrastrutture sociali alle quali non si può accedere direttamente; queste conoscenze di seconda mano sono da Gehlen definite “opinioni”. Ma le opinioni mediatiche suggestionano le masse originando degli schemi di pensiero che influenzano le relazioni interpersonali, esempi di ciò sono dati da alcuni principi a priori come il “principio del rendimento totale” (consistente nella massimizzazione delle prestazioni lavorative), il “principio degli effetti previsti” (dato da un controllore che indirizza le azioni altrui), il “principio delle misure standard o dei pezzi sostituibili” (in base al quale i pezzi sostituibili sono non solo gli strumenti ma anche gli uomini, nelle loro funzioni di lavoratori) e il “principio della concentrazione in vista dell’effetto” (nel quale tutti gli sforzi sono finalizzati al raggiungimento di un obiettivo dato). Da qui il passo è breve verso la schematizzazione di tutti i comportamenti (inter)personali. Atteggiamenti, ragionamenti, giudizi, decisioni, valutazioni, tutto ciò diventa automatico, meccanicamente determinato non dal tipo di persona che si è ma dal ruolo sociale che si ha: da essere unico e irripetibile l’individuo diventa un mero “titolare di funzioni” che ha come sua massima aspirazione quella di svolgere con efficienza le sue mansioni sociali; in quest’ottica mutano persino i valori morali che non vengono più interpretati qualitativamente ma solo in base alla loro adeguatezza per il conseguimento di un fine pratico. La titolarità di funzioni è quindi un effetto ed una conferma della società specializzata che liquida come asociali o geniali tutti quei comportamenti non standardizzati. L’estrema conseguenza di ciò sta nel fatto che non solo le opinioni ma anche i sentimenti diventano di seconda mano, ovvero perdono la loro essenza di esperienze uniche inerenti ad irripetibili rapporti umani, trasformandosi in “gusci di emozioni” emblematicamente esemplificati da Gehlen nella diffusione delle pin-up girls. Se dunque i gusci di emozioni sono causati dalla e causano la perdita di un contatto autentico con la realtà, tale contatto si fa ancora più sfumato per un soggettivismo psicologico nel quale ci si rifugia a seguito della perdita degli “immobili culturali”. Ma a cosa è dovuta tale perdita? Secondo Gelhen due “svolte” caratterizzano l’evoluzione del genere umano: il passaggio, nella preistoria, dal nomadismo alla vita sedentaria ed il passaggio, nella modernità, dal lavoro manuale al lavoro meccanicizzato; Gehlen descrive questa seconda svolta con il termine di “industrializzazione”, derivante dalla rivoluzione scientifica che aveva caratterizzato la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, e che tra il XVIII ed il XIX secolo darà vita all’organizzazione capitalistica della produzione. E’ per questo che nella società contemporanea scienza, tecnica e industria sono così strettamente legate: esse delineano quel processo che ha portato l’uomo a sentirsi in possesso della natura credendosi quindi autorizzato a sfruttarla per la propria felicità terrena che però si configura esclusivamente come una felicità consumistica (è qui interessante notare come questa mentalità abbia i suoi germi, tanto per Gehlen quanto per Adorno ed Horkheimer, nella forma mentis dell’illuminismo). Allora la mancanza di immobili culturali non è altro che la conferma del fatto che la nostra è un’epoca di transizione culturale che, essendo ancora in corso, dà luogo a dei disagi che alcuni studiosi (Toynbee e Danilewskij) interpretano come i sintomi di una “cultura in declino”, mentre per Gehlen non sono altro che fenomeni di autoregolazione sociale destinati ad istituzionalizzarsi.
Questa autoregolazione, però, non avviene a seguito di automatismi storici, ma necessita dell’azione dell’uomo che deve guidare i problemi sociali verso la loro soluzione; il più grave di questi problemi è quello definito come il “disagio della tecnica” cioè la difficoltà di relazionarsi con le innovazioni tecniche e la relativa mentalità tecnologica. Per rispondere a tale questione è necessario ricordare che, per Gehlen, la tecnica è strettamente legata, da un lato con il progresso della scienza, e dall’altro con le sue applicazioni nel campo dell’industria; proprio da questi “vicini scomodi” la tecnica viene spesso tirata e deformata, sia verso la mentalità scientifica, che tutto vuole sapere, conoscere, dominare, sia verso la mentalità industriale, che vuole produrre per consumare. Le problematiche inerenti alla tecnica, allora, non derivano dalla stessa tecnica ma da chi la precede (scienza) e da chi la segue (industria), conseguentemente il disagio della tecnica potrà essere risolto solo grazie alla limitazione degli sfrenati desideri di un sapere dominante e di una produttività consumistica. Ma questa limitazione è dipendente dal recupero di ideali “ascetici” e morali che devono porsi come radicale ed autorevole alternativa ad un’esistenza altrimenti vissuta nella mera dimensione del benessere materiale che crea un sistema (di marcusiana memoria) che “produce e automatizza i bisogni del consumo”. Inoltre, le opinioni e le emozioni di seconda mano producono una schematizzazione del comportamento (sia individuale che di massa) in quanto ragionamenti e giudizi, valori e decisioni, non sono il frutto di processi autenticamente personali, ma il risultato di un appiattimento, di un livellamento su esperienze inautentiche non solo perché non si sono vissute direttamente, ma perché non si sono neanche meditate. Gli individui, inseriti per tal via nell’apparato produttivo, esistono gli uni per gli altri solo in quanto esplicano un’attività e si specializzano nello svolgimento di quell’attività, andando ad occupare una precisa posizione all’interno del meccanismo sociale. E’ per questo che oggi l’analisi del comportamento umano si riduce ad un’analisi mirante a determinare il grado di efficienza con cui il singolo può andare a prendere possesso di una funzione sociale. La “psicotecnica” è per Gehlen quel ramo della psicologia che si occupa di ciò: esaminare le idoneità e le probabilità di adattamento al sistema sociale esistente, che viene sempre presentato come legittimo e quindi meritevole di proporre indiscutibili criteri di comportamento. Sorge così la questione dell’efficace utilizzazione di risorse umane in un dato ambiente, in quest’ottica le caratteristiche personali si riducono a capacità per il conseguimento di obiettivi e, soprattutto, nasce da ciò la descrizione dell’uomo a partire dalle sue “attitudini naturali”. Al di là di una valutazione di merito, tutto ciò è per Gehlen metodologicamente errato poiché nessuna scienza (che avanza con procedimenti rigorosi e deterministici) potrà mai descrivere la personalità (irriducibile a qualsiasi legge) di un individuo, rimanendo questo un ambito di esclusiva pertinenza dell’ arte: “una scienza dell’individuale è una contradictio in terminis”. Oltre all’arte, un contributo allo studio dell’individuo può venire dalla psicoanalisi freudiana che però non deve trasformarsi (come è invece avvenuto) in psicologia sociale, essa è apprezzabile in qualità di analisi di singoli individui, ma improponibile come esame dei comportamenti delle masse. Tutte le teorie di Freud si basano sull’osservazione empirica di atteggianti relativi a singoli uomini e l’aver notato che in alcuni di loro certi fenomeni si ripetono con regolarità, non autorizza a fare di quelle ripetitività individuali delle leggi generali; perché ciò che avviene nella psiche di qualche persona dovrebbe avvenire in tutte le altre? “La psicoanalisi lavora bene come psicologia individuale, male come psicologia sociale”. Il problema della psicoanalisi freudiana, allora, è quello di avere avuto la pretesa di smascherare i processi psichici delle masse anziché concentrarsi nell’opera di psicoanalisi dell’individuo, come era negli originari interessi freudiani. Interessante ed originale è, inoltre, la soluzione prospettata da Gehlen per stabilizzare la personalità all’interno di un’epoca di transizione. Se oggi l’individuo, a seguito della sua integrazione nel sistema, svolge funzioni sempre più specializzate e in tal modo viene amministrato fin dentro la sua vita interiore, la risoluzione di questa problematica non consisterà nel tentativo di liberazione dell’uomo dall’apparato produttivo (indirizzo, questo, seguito invece dalla cosiddetta Scuola di Francoforte), bensì la società diverrà stabile modificando le istituzioni e trasformandole da semplici strumenti rivolti unicamente allo sviluppo della carriera e/o all’acquisizione del potere in “istituzioni culturali” che possiedono e diffondono valori morali. Rimane dunque intatto il rapporto gerarchico tra il sistema e gli individui da esso assorbiti, ed il pensiero di Gehlen si fa qui più sociologico che antropologico poiché si concentra non sulle qualità e sulle facoltà umane, ma sul ruolo e l’importanza delle istituzioni, al punto tale che: “non si può conservare la cultura accanto all’apparato, ma solo salvarla inserendola in esso”.
(«B@belonline.net», n. 6, 2004)
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