sabato 12 giugno 2010

La concezione del totalitarismo nella Arendt e in Marcuse

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Entrambi tedeschi di origini ebraiche Hannah Arendt ed Herbert Marcuse condividono il percorso di una emigrazione che negli anni Trenta li porta negli Stati Uniti a causa dell’ascesa del nazionalsocialismo in Germania; proprio all’interno della società statunitense (e spesso in netta contrapposizione con essa1) attraversano un periodo di intensa attività culturale che li porta a comporre alcune delle loro più celebri opere.
In Vita Activa la riflessione della Arendt raggiunge l’apice della critica della modernità interpretando la decadenza dell’agire politico in Occidente, come conseguenza dell’allontanamento da un tipo ideale di comunità: la pòlis greca al tempo di Pericle, rappresentante una forma di governo che forniva agli uomini una sorta di teatro nel quale apparire, tramite la libertà delle azioni. Per la Arendt la “condizione umana” è caratterizzata da tre fondamentali attività, il lavoro, l’opera e l’azione. Il lavoro costituisce l’insieme delle attività necessarie per la sopravvivenza biologica (da questa prospettiva l’uomo viene definito come animal laborans); l’opera è la funzione tramite la quale l’uomo "fabbrica l’infinita varietà delle cose la cui somma totale costituisce il mondo artificiale"2 (la figura corrispondente a ciò è quella dell’homo faber); l’azione, caratteristica esclusivamente umana non legata a mere necessità biologiche e/o istintuali, rappresenta la capacità di iniziare qualcosa che ancora non è in atto, "Agire, nel senso più generale, significa prendere un’iniziativa, iniziare (…) mettere in movimento qualcosa"3, e la massima azione umana è l’azione politica che inizia con la nascita ed è costituita da un insieme di relazioni con gli altri attuate senza l’utilizzo di oggetti materiali bensì tramite il linguaggio, che ne conserva anche la memoria grazie al racconto. Queste tre attività si collocano all’interno di uno spazio pubblico o di una sfera privata, che però hanno ormai caratteristiche nettamente diverse rispetto all’antica Grecia. Infatti, nelle pòleis greche la sfera privata era percepita come una limitazione della libertà a causa dell’adempimento alle necessità per la sopravvivenza, e lo spazio pubblico era vissuto come uno spazio politico grazie al quale si poteva lasciare un segno duraturo del nostro passaggio, mentre attualmente, la sfera privata è vissuta come proprietà di qualcosa e come intimità (privacy), e lo spazio pubblico si è ridotto nel sociale inteso come la pubblicizzazione di temi che prima erano privati. Secondo la Arendt tutto ciò è avvenuto a causa della proiezione del “sociale” sul “politico”: quella che era un’alleanza finalizzata alla sola sopravvivenza (il sociale), si è sostituita all’interazione fra gli uomini finalizzata all’edificazione del mondo (il politico)4. Di conseguenza la politica si trasforma nel sociale al quale vengono delegate le funzioni domestiche che prima erano private; specificatamente, tale proiezione è stata causata dall’abolizione della sfera pubblica (come la intendevano i greci) operata dal cristianesimo (in particolare da Tommaso d’Aquino) e dal marxismo, i quali hanno sostituito le tre categorie di lavoro, opera e azione, o con le categorie di vita materiale (male necessario) e vita contemplativa (bene verso il quale tendere), per il cristianesimo, o con quelle di lavoro improduttivo (che non lascia traccia) e lavoro produttivo (di beni e servizi), per il marxismo. Proprio il concetto marxiano di lavoro produttivo è colpevole, per la Arendt, di avere eliminato la distinzione tra opera e lavoro, interpretando quest’ultimo non più come un modo per sottrarsi alle necessità bensì come una vendita del proprio corpo ovvero di forza-lavoro, riducendo l’attività umana ad una produzione di beni materiali con loro relativo consumo, conseguentemente "il tempo libero dell'animal laborans non è mai speso altrimenti che nel consumo, e più tempo gli rimane, più rapaci e insaziabili sono i suoi appetiti. Che questi appetiti divengano più raffinati  così che il consumo non è più limitato alle cose necessarie, ma si estende soprattutto a quelle superflue  non muta il carattere di questa società, ma nasconde il grave pericolo che nessun oggetto del mondo sia protetto dal consumo e dall’annullamento attraverso il consumo"5; in epoca moderna il lavoro diviene la funzione principale ("L’emancipazione del lavoro non ha dato luogo all’eguaglianza di questa attività con le altre della Vita Activa, ma al suo quasi indiscusso predominio. Dal punto di vista del “lavorare per vivere”, ogni attività non connessa al lavoro diventa un “hobby”"6), lavoro che non crea nulla di nuovo (tale facoltà è propria solo dell’azione), uniformandosi all’esistente senza essere in grado di giudicare le condizioni socio-politiche nelle quali si svolge, badando solo a parametri di efficienza e funzionalità. Ed ancora, la dinamica di produzione e consumo dell’animal laborans coinvolge anche la natura che viene dominata, sfruttata, ovvero consumata. Inoltre la Arendt ravvisa in Karl Marx due rilevanti contraddizioni: in primo luogo, se l’uomo deve lavorare per essere libero, ma se libertà si avrà solo con la fine del lavoro, allora l’uomo stesso oscilla tra una schiavitù produttiva ed una libertà improduttiva7; in secondo luogo, poiché per Marx "È nella natura del lavoro riunire gli uomini nella forma del gruppo di lavoro, in cui alcuni individui "lavorano insieme come se fossero uno solo"8, ma per tal via l’individuo perde la propria identità in quanto "La fusione dei molti in un’unità è fondamentalmente antipolitica"9, perché "L’uguaglianza che si addice alla sfera pubblica è necessariamente un’uguaglianza di ineguali che devono essere resi “uguali” in certi aspetti e per specifici fini. Il fattore dell’uguaglianza non proviene dalla “natura” umana ma dall’esterno"10 (come si vedrà meglio in seguito); a causa di tutto questo quella che dovrebbe essere l’uguaglianza politica, fondata su varie visioni del mondo che si devono accordare, si riduce ad una generica e spersonalizzante uguaglianza di lavoratori11. Infine, benché nella contrapposizione tra Grecia e modernità si avvertono influssi heideggeriani, la Arendt rifiuta l’esito anti-mondano dell’ultimo Heidegger: "gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare"12.
Nonostante alcune affinità (che emergeranno in seguito) fra la Arendt e i rappresentanti della “Scuola di Francoforte”, notevoli sono i motivi di distacco che investono soprattutto il differente orizzonte da affidare all’agire politico che, per i francofortesi, necessita di una fondazione morale, mentre la Arendt insiste invece sul carattere non fondativo, non filosofico della politica, rivolta essenzialmente alla condivisione di parole e azioni fra i cittadini. Di qui nasce la critica alla Arendt di Juergen Habermas, relativa alla riduzione della politica al solo modello normativo della pòlis greca, basato sul discorso, sulla persuasione e sulla più larga partecipazione possibile dei membri della società ai processi decisionali13. Resta però da vedere se la Arendt voglia riferire tutto il politico all’esempio ateniese, o se lasci un margine per l’edificazione di una morale pubblica volta a formare giudizi in grado di distinguere, innanzitutto, il bene dal male. In caso contrario, le tematizzazioni della Arendt sarebbero esclusivamente dedicate al tentativo di sganciare l’ambito della conoscenza morale individuale dalla sfera pubblica, all’interno della quale l’attenzione è completamente rivolta al raggiungimento di determinate finalità politiche indipendentemente da una valutazione squisitamente personale e morale.
Il processo storico che ha condotto alle dittature europee, alla seconda guerra mondiale e, in termini filosofici, allo svilimento dell’agire politico concepito come dimensione pubblica dell’esistenza umana, è ricostruito in Le origini del totalitarismo14. I momenti decisivi di tale processo sono individuati nell’antisemitismo (derivante dal crollo degli Stati nazionali successivo alle due guerre mondiali che portò alla nascita di “apolidi” senza nazione, senza cittadinanza e senza diritti umani; tale questione si è poi aggravata per divisioni geografiche non tenenti conto dei gruppi etnici, delineando dunque uno scenario nel quale "Per gruppi sempre più numerosi di persone cessarono improvvisamente di aver valore le norme del mondo circostante"15), nell’imperialismo16 e nella trasformazione plebiscitaria delle democrazie (nelle quali è ormai presente "L’identificazione del diritto con l’utile"17, con il pericolo che ciò che risulta “utile” per la maggioranza delle persone può non esserlo per le minoranze che rimangono escluse dalla formazione di un mondo-con-gli-altri). Per recuperare i diritti umani, ossia un luogo nel mondo dove poter agire e pensare, svaniti a causa di una complessiva spoliticizzazione della cultura moderna, è necessario acquisire la consapevolezza che i diritti umani non sono basati su motivazioni naturalistiche, religiose, politiche, storiche o utilitaristiche, ma si fondano unicamente in una dimensione decisionale e collettivamente partecipativa alla creazione del mondo, "Non si nasce eguali; si diventa eguali come membri di un gruppo in virtù della decisione di garantirsi reciprocamente eguali diritti. La nostra vita politica si basa sul presupposto che possiamo instaurare l’eguaglianza attraverso l’organizzazione, perché l’uomo può trasformare il mondo e crearne uno di comune, insieme coi suoi pari e soltanto con essi"18. Il risultato di tali riflessioni confluisce nella concezione della Arendt di totalitarismo, caratterizzato come la negazione della realtà effettiva per farla combaciare con un’ideologia, pertanto come un male assoluto e al tempo stesso banale, nascosto come possibilità sempre presente in ogni piega del quotidiano. Per la Arendt, il totalitarismo rappresenta una forma nuova e incomparabile con le forme conosciute di regime autoritario, una forma che costituisce la cristallizzazione non necessaria delle contraddizioni dell’epoca moderna; concretamente, il modello totalitario è riconoscibile per il suo elemento ideologico, per l’uso della violenza, per la presenza di un partito unico e per l’intolleranza verso qualsiasi opposizione al punto di preferire la perdita di alcuni cittadini piuttosto che albergare nel suo seno dei dissidenti, ma tale eliminazione avviene solo dopo che ai dissenzienti siano stati sottratti i loro diritti umani, "In altre parole, è stata creata una condizione di completa assenza di diritti prima di calpestare il loro diritto alla vita"19. Per la Arendt, in tale forma di totalitarismo convergono sia il comunismo che il nazismo, ed il “campo di sterminio” come luogo di sospensione del diritto e come luogo di destrutturazione e ricostruzione dell’uomo, ne diventa la metafora più emblematica. Essendo questi i tratti salienti del totalitarismo ne consegue che, nei desideri della Arendt, la prassi politica deve essere per così dire “movimentista”, cioè sganciata da qualsiasi ideologia e dai partiti.

Secondo Marcuse, oltre al modello di totalitarismo individuato dalla Arendt ne esiste anche un altro più problematico da riconoscere, sviluppatosi in epoca moderna come effetto del capitalismo20. Questa nuova forma di totalitarismo si è sviluppata all’interno della società industriale avanzata ed i suoi tratti essenziali sono: la sostituzione di un “sistema” indeterminato al posto di individui controllanti il potere, il soffocamento delle facoltà psico-fisiche della persona a causa della repressione spazio-temporale alla quale è sottoposta, la chiusura sia politica che culturale della società con conseguente nascita della civiltà “unidimensionale”, il tutto inserito in una organizzazione sociale apparentemente tollerante. Cogliendo il nesso fra le nuove tecniche dei processi produttivi, l’assetto sociale e le modificazioni antropologiche e psicologiche dei singoli individui, Marcuse vede nella massimizzazione della prestazione lavorativa del singolo, subalterno alla macchina totalitaria (razionale nei meccanismi ma irrazionale nei fini), la nuova esigenza del sistema che innesca una dinamica di produzione e consumo di beni e servizi (superflui), convincendo l’individuo della necessità ineluttabile degli stessi, e provocando così una sostituzione dei bisogni veri con quelli indotti. Inoltre, questo sistema ha operato una liberazione dalle forme tradizionali di repressione, per rendere il singolo del tutto conforme alle esigenze di controllo, quindi questa liberazione và, paradossalmente, nella direzione dell’asservimento dell’individuo a una forma di dominio totale, poiché ai vecchi tabù ne sono stati sostituiti di nuovi. Il segno più tragico di tutto ciò è che l’uomo non è né in grado di intuire i segni della propria illibertà, né di immaginare il percorso verso una libertà futura, da conquistare concretamente. Avviene così una “cattiva democratizzazione” in cui il diritto/dovere di ciascuno è unicamente quello di produrre e consumare. Da tutto ciò nasce un tipo d’uomo con una mentalità pragmatico-calcolante, disincantata e, per ciò, integrata nel sistema totalitario; un tipo d’uomo che si sente esonerato dalle questioni morali, dall’arte, dall’alta cultura e che gode appieno delle libertà a buon mercato concessegli dal sistema per ricaricargli le energie; un tipo d’uomo che non possiede ormai più alcuna riserva critica a cui attingere per resistere allo status quo e che quindi non può né pensare né, di conseguenza, realizzare le alternative; un tipo d’uomo, insomma, che non vive ma si lascia vivere. Per Marcuse, parafrasando la Arendt, è questa la banalità del male: la rassegnata obbedienza al sistema e la facile soddisfazione di bisogni (inautentici) e del tutto inoffensivi, l’affermarsi di false libertà e falso benessere in un regime di alienazione e repressione ormai accolto e giustificato come normale. È quindi avvenuta la conquista di una nuova frontiera del dominio: la sfera privata; essa introietta i modelli di dominio del sistema che la mettono al servizio dell’espansione dello stesso. Tale scenario si è delineato per l’integrazione della classe operaia nel sistema, avvenuta a seguito dell’aumento del tenore di vita ed alla, conseguente, adesione al sistema che avviene tramite l’introiezione dei modelli di dominio e la formazione di una falsa coscienza che giustifica ed accetta uno status quo repressivo: "È questo l’aspetto socio-psicologico dell’evento politico che distingue l’epoca contemporanea: il tramonto delle forze storiche che, nella fase precedente della società industriale, parvero rappresentare la possibilità di nuove forme di esistenza"21 cosicché "Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata"22. Ecco perché, nell’interpretazione marcusiana, "Il termine “totalitario”, infatti, non si applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione politico-tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti. Essa preclude per tal via l’emergere di una opposizione efficace contro l’insieme del sistema. Non soltanto una forma specifica di governo o di dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e di distribuzione, sistema che può essere benissimo compatibile con un “pluralismo” di partiti, di giornali, di “poteri controbilanciantisi”, ecc."23. Quindi, le prospettive di liberazione implicano non una semplice rivoluzione politica bensì una rivoluzione culturale dalla quale derivino trasformazioni concrete sul piano economico, politico e tecnologico. Le possibilità materiali di cambiamento sono ormai presenti grazie all’elevato livello di sviluppo economico, scientifico e tecnico, al punto tale che Marcuse ritiene ormai obsoleta la cosiddetta “teoria marxiana delle due fasi”24, poiché è stato attualmente raggiunto un tale grado di sviluppo della ricchezza sociale da rendere possibile un immediato passaggio alla costruzione vera e propria della società libera: il socialismo è ora una possibilità reale25. Il problema consiste però nell’individuare il soggetto in grado di spezzare l’oppressivo ciclo di ri-produzione-consumo. Per Marx, questo soggetto è il proletariato, spinto all’azione rivoluzionaria autonomamente dalle stesse condizioni dello sviluppo capitalistico; ciò presuppone due fondamentali condizioni: che la rivoluzione sia un evento che coinvolga la maggioranza della popolazione e che la popolazione stessa sia consapevole del proprio sfruttamento e quindi della necessità di un radicale mutamento sociale. Mentre, attualmente, il sistema assorbe in sé la quasi totalità della popolazione, sia concedendo ad essa una piccola parte della ricchezza sociale e “divertimenti”26 (legandola così alla sopravvivenza del sistema stesso27), sia facendo interiorizzare i modelli psicologici di dominio. Conseguentemente non esiste più la classe operaia proletaria, marxianamente intesa come soggetto della rivoluzione, bensì un’ampia classe borghese (o imborghesita), intesa come oggetto che deve essere guidato da una avanguardia che, differentemente dall’avanguardia comunista teorizzata da Marx, sarà composta da tutti coloro che resistono e rifiutano il sistema, primi fra tutti gli intellettuali cui spetta il compito prioritario dell’educazione politica. In ciò è riscontrabile anche una diversità, tra Marx e Marcuse, sul concetto di “classe” che, se per Marx rappresenta l’unione di tutte le persone accomunate dalle stesse condizioni materiali d’esistenza, per Marcuse designa invece tutti coloro che, indipendentemente dalle condizioni materiali d’esistenza, non sono integrati nel sistema costituendo, teoricamente, ancora il soggetto di una possibile rivoluzione. La speranza dell’ultimo Marcuse è che tale liberazione possa essere condotta dai gruppi sociali emarginati, dai giovani, dagli intellettuali, insomma dagli outsiders, che soli avvertono il peso e l’insostenibilità di questo assetto, dal momento che, come si è visto, la classe lavoratrice (il riferimento è in particolare agli Stati Uniti) risulta ormai profondamente integrata nel sistema; "al di sotto della base popolare conservatrice vi è il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili. Essi permangono al di fuori del processo democratico; la loro presenza prova come non mai quanto sia immediato e reale il bisogno di porre fine a condizioni ed istituzioni intollerabili. Perciò la loro opposizione è rivoluzionaria anche se non lo è la loro coscienza. La loro opposizione colpisce il sistema dal di fuori e quindi non è sviata dal sistema; è una forza elementare che viola le regole del gioco, e così facendo mostra che è un gioco truccato. Quando si riuniscono e scendono nelle strade, senza armi senza protezione, per chiedere i più elementari diritti civili, essi sanno di affrontare cani, pietre, e bombe, galera, campi di concentramento, persino la morte. La loro forza si avverte dietro ogni manifestazione politica per le vittime della legge e dell’ordine. Il fatto che essi incomincino a rifiutare di prendere parte al gioco può essere il fatto che segna l’inizio della fine di un periodo"28.
Già in Ragione e rivoluzione29 Marcuse aveva considerato il potere del pensiero critico o negativo che, rappresentando lo scarto che separa il dato di fatto, l’esistente, dalle esigenze della razionalità diviene anche un espediente per riavvicinare questi due poli30. Di qui la nozione di “negazione determinata” che rappresenta, allo stesso tempo, un metodo e un obiettivo: metodo in qualità di analisi delle concrete forme storiche di dominio, individuandone le interne contraddizioni; obiettivo come possibilità di negare tali incoerenze attraverso una pressi emancipatoria attuata da un reale soggetto antagonista che, coinvolto in quelle contraddizioni, è interessato a liberarsene negandole, senza arrendersi al corso del mondo, avendo invece la convinzione di poterlo mutare. In questa prospettiva è quindi indispensabile recuperare quell’illusione, quell’incanto, quella tensione utopica verso un futuro migliore che il capitalismo ha soffocato convincendo gli individui dell’inutilità di una opposizione al sistema. Conseguentemente, nonostante le critiche mosse all’Urss in Soviet Marxism31 motivate dall’incongruenza tra le premesse ideologiche del marxismo e la loro realizzazione storica nel sistema sovietico, Marcuse non può che rifiutare l’equiparazione arendtiana fra comunismo e nazismo32. Il frutto della negazione determinata sta nel progetto del “grande rifiuto”, da intendersi come la negazione radicale del presente operata da un soggetto concreto in vista di una “esistenza pacificata”; in sintesi, la negazione determinata ipotizza che nella negatività del presente siano contenute anche le ragioni della sua negazione, del suo superamento. Ciò significa che ogni eventuale mutamento sociale di ampia portata non avviene a seguito di inevitabili automatismi storici, bensì i cambiamenti prima di essere attuati devono essere pensati. Ciò di cui Marcuse và in cerca non è nulla di meno che una “rivoluzione del pensiero”, già tematizzata da Max Horkheimer e Theodor W. Adorno nella Dialettica dell’Illuminismo, che prospetta la storia occidentale come una evoluzione alterata a causa del rapporto strumentale di dominio soggetto-oggetto. Tali riflessioni si integrano in Eros e civiltà33 con la psicoanalisi freudiana, intesa primariamente come la conoscenza delle condizioni che rendono possibile la felicità: psicoanalisi (e marxismo) consentono l’identificazione di ragione e felicità, attraverso lo smascheramento e la critica dello sfruttamento e della repressione degli istinti34. Marcuse concorda con Sigmund Freud nel ritenere che per l’edificazione di una civiltà sia indispensabile una repressione istintuale, al punto che "La civiltà comincia quando si è rinunciato efficacemente all’obiettivo primario – alla soddisfazione integrale dei bisogni"35, ma è in disaccordo con Freud nel ritenere che la repressione in atto in questa specifica società sia adeguata al mantenimento della società stessa, infatti per Marcuse nella società occidentale è presente un surplus di repressione che ha trasformato la soddisfazione immediata in soddisfazione differita, il piacere in limitazione dello stesso, la gioia (gioco) in fatica (lavoro), la libertà in dominio finalizzato alla sicurezza, "Freud ha descritto questo cambiamento come la trasformazione del principio del piacere in principio della realtà"36. È solo la logica del dominio, cioè la struttura di un sistema di potere che si mantiene in vita controllando l’individuo, che costringe l’umanità a reprimere gli impulsi e a rinunciare alla felicità. Per porre rimedio a tale situazione, nella quale ormai "la repressione è diventata così efficace da assumere, agli occhi dell’individuo represso, la forma (illusoria) di libertà"37, le forze liberatrici individuate da Marcuse sono l’arte (inglobando in essa anche l’alta cultura) e la tecnica. L’arte come facoltà d’immaginazione di un futuro non repressivo, conciliato con le esigenze della ragione, nel quale possa essere vissuta una esistenza pacificata; la tecnica come possibilità concreta di liberazione grazie alla sua funzione di esonero da molteplici operazioni (svolte dalle macchine) e, conseguentemente, come riconquista di uno spazio e di un tempo nei quali poter sviluppare le facoltà psico-fisiche dell’individuo. Ciò non significa che arte e tecnica rappresentino un’alternativa parallela al marxismo; piuttosto l’arte svolge il ruolo di riserva dei bisogni umani soppressi, per esprimere il grande rifiuto, appellandosi direttamente alla coscienza morale individuale, essa è un a priori prepolitico: "L’arte non può cambiare il mondo, ma può contribuire a cambiare la coscienza e gli impulsi degli uomini e delle donne che possono cambiare il mondo"38. L’arte può essere la scintilla per mettere in moto cambiamenti sociali che non appartengono propriamente alla dimensione estetica: sovvertire il quotidiano estraniandolo dall’interno, dato che l’arte nasce all’interno dell’esperienza quotidiana. E qui emerge un’ulteriore differenza tra Marx e Marcuse, nonostante il pensiero dell’uno sia consequenziale a quello dell’altro, poiché "La situazione, caratteristica del monopolio capitalista, cambia il concetto tradizionale dell’estetica marxista secondo il quale l’arte, per adempiere alla sua funzione rivoluzionaria, deve orientarsi alle “masse”, al “popolo”, al “proletariato”. Oggi, ci sarebbe bisogno di una tendenza tale da essere la negazione, ossia la vera antitesi della Weltanschauung del popolo, che riproduce la società esistente. La funzione antitetica dell’arte includerebbe la sovversione dell’esperienza predominante, dei bisogni consci o inconsci del popolo, la sua funzione sarebbe quella di una radicale alienazione espressa nel linguaggio, nelle immagini, nella forma e nei contenuti. In breve, nella fase attuale del capitalismo le masse non costituiscono la base sociale di un’arte rivoluzionaria"39. Ma paradossalmente il ruolo che Marcuse affida all’arte è tanto importante quanto limitato, infatti "Il resto non spetta all’artista. La realizzazione, il cambiamento reale che libererebbero uomini e cose, rimangono come compiti dell’azione politica; l’artista non vi partecipa come artista. Ma questa attività esterna, oggi, è forse in stretta connessione con la situazione dell’arte  e forse anche col compimento dei fini dell’arte"40.
Concludendo, la Arendt utilizza il concetto di totalitarismo per definire un tipo di regime militaresco e materialmente oppressivo, nel quale l’elemento ideologico, l’uso della violenza e la presenza di un partito unico ne rappresentano i tratti sostanziali, con il rischio di un’estensione semantica del termine che finisce per indicare tutte le forme politiche contemporanee diverse dalle democrazie occidentali. Nell’interpretazione di Marcuse le caratteristiche descritte dalla Arendt rappresentano solo la prima manifestazione delle nuove forme di totalitarismo assunte dal capitalismo, essendo il capitalismo stesso un sistema che coinvolge la “totalità” delle relazioni sociali legandole alle dinamiche del capitale. Da qui nasce la cosiddetta società del benessere nella quale il totalitarismo si manifesta sotto forma di unidimensionalità, e la tolleranza e la democrazia sono solo apparenti, poiché la democrazia stessa necessita di strumenti informativi e culturali che sono invece negati alla popolazione, le cui opinioni sono conseguentemente preconfezionate dallo status quo: "il dibattito democratico sottintende una condizione necessaria, cioè, che la gente sia in grado di scegliere e decidere in base alla conoscenza, che la gente abbia accesso all’informazione autentica e che, su questa base, la sua valutazione sia il risultato di un pensiero autonomo"41. Ecco perché le libertà politiche sono ampliamente insufficienti se non si innestano nel terreno di una reale democrazia che, ormai, può sorgere solo da una rivoluzione culturale. "Tale rivoluzione implica una trasformazione radicale dei bisogni e delle stesse aspirazioni, culturali e materiali; della coscienza e della sensibilità, del lavoro e del tempo libero"42, solo a queste condizioni gli individui potranno determinare gli oggetti, le priorità e la direzione del proprio pensiero, autodeterminando la propria esistenza.

1) Emblematiche di tale critica sono le opere di H. Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano 1991 e di H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999.
2) H. Arendt, Vita Activa, op. cit., p. 97.
3) Ibidem, pp. 128-129.
4) Cfr. Lo spazio pubblico e la sfera privata in H. Arendt, Vita Activa, op. cit.
5) Ibidem, p. 94.
6) Ibidem, p. 91.
7) Bisogna però ricordare che la liberazione marxiana del lavoro è finalizzata all’eliminazione del fenomeno dell’alienazione, reificazione.
8) H. Arendt, Vita Activa, op. cit., p. 157; secondo la Arendt, Marx mutua questa osservazione da Adam Smith.
9) Ibidem, pp. 157-158.
10) Ibidem, p. 158.
11) Cfr. Che cos’è la libertà? e Che cos’è l’autorità? In H. Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1999.
12) H. Arendt, Vita Activa, op. cit., p. 182.
13) Cfr. R. Gatti, Pensare la democrazia, AVE, Roma 1989.
14) H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Comunità, Torino 1999.
15) Ibidem, p. 373.
16) A tale proposito è significativo il titolo dell’opera di Nikolaj Lenin risalente al 1916: L’imperialismo, fase suprema del capitalismo.
17) H. Arendt, Le origini del totalitarismo, op. cit., p. 414.
18) Ibidem, p. 417.
19) Ibidem, p. 409.
20) Cfr. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, op. cit.
21) Ibidem, pp. 23-24.
22) Ibidem, p. 15.
23) Ibidem, p. 17.
24) Una esaustiva esposizione della teoria della due fasi è presente in K. Marx, Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti, Roma 1990.
25) Cfr. H. Marcuse, La fine dell’utopia, Laterza, Bari 1970.
26) "Divertirsi significa essere d’accordo (…) Divertirsi significa ogni volta: non doverci pensare, dimenticare la sofferenza anche là dove viene esposta e messa in mostra" in M. Horkheimer  T. W. Adorno, Dialettica dell’Iluminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 154.
27) "il prezzo della sopravvivenza è il pratico collaborare, la metamorfosi dell’idea di dominio" in Ibidem pp. 232-233.
28) Ibidem, p. 259.
29) H. Marcuse, Ragione e rivoluzione, Il Mulino, Bologna 1997.
30) Questa potenza del negativo, così inteso, fa avvicinare G. W. F. Hegel e Marx, i quali si configurano entrambi anzitutto come modelli di pensiero utili a tracciare una metodologia della conoscenza storica.
31) H. Marcuse, Soviet Marxism, Guanda, Parma 1968.
32) Cfr. H. Marcuse, Davanti al nazismo, Laterza, Roma-Bari 2001.
33) H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1967.
34) È però necessario tenere presente che in Marcuse esiste una critica del marxismo ridottosi in ideologia positiva (Soviet Marxism, op. cit.) e del freudismo inteso come teoria dell’integrazione psicologica dell’individuo nello status quo (Epilogo: Critica del revisionismo neofreudiano in Eros e civiltà, op. cit.).
35) H. Marcuse, Eros e civiltà, op. cit., p. 59.
36) Ibidem, p. 60.
37) Ibidem, p. 238.
38) H. Marcuse, La dimensione estetica, Mondadori, Milano 1979, pp. 32-33.
39) H. Marcuse, Lettera ai surrealisti del gruppo di Chicago, http://utenti.lycos/Marcuse2000/index-3.html
40) H. Marcuse, L’arte nella società a una dimensione in Critica della società repressiva, Feltrinelli, Milano 1968, p. 148.
41) H. Marcuse, Tolleranza repressiva in La dimensione estetica e altri scritti, Guerini, Milano 2002, p. 83.
42) H. Marcuse, Controrivoluzione e rivolta in La dimensione estetica e altri scritti, op. cit., p. 182.

(«B@belonline.net», n. 5, 2004)

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